Fratel Ettore sarà beato.
Storia del “folle di Dio” che sapeva che
«amare significa non nascondere»
Febbraio 19, 2013 Emanuele Boffi
La vicenda del camilliano raccontato dalla sua discepola suor Teresa Martino. «La carità non è assistenzialismo. La carità è educazione. Bisogna togliere il povero dall’immondizia per farlo sedere tra i capi del regno»
La Conferenza episcopale lombarda ha dato il via libera all’avvio dell’iter per la causa di beatificazione di fratel Ettore Boschini (1928-2004), il religioso camilliano che per decenni si è preso cura dei senza fissa dimora alla Stazione Centrale di Milano. Tempi ha spesso parlato di questo singolare e vulcanico religioso (l’ultima volta al Meeting di Rimini), la cui opera è oggi portata avanti da Teresa Martino. Per conoscere meglio la figura di fratel Ettore, ripubblichiamo un nostro vecchio articolo uscito nel 2005.
Fratel EttoreTeresa Martino, la discepola di Fratel Ettore racconta il “folle di Dio” che girava i bassifondi delle città alla ricerca dei senza tetto. «Amare significa non nascondere, perché non c’è nulla che non possa essere redento»
di Emanuele Boffi
Come tutti i santi, Fratel Ettore era matto da legare. Ma come tutti i “folli di Dio” sapeva che «amare significa non nascondere». Non celare l’imperfezione, fosse pure quella di una ragazza malata che fu splendida a vent’anni, fosse pure uno sbaglio, un errore, una maleodorante sgrammaticatura della natura. Non nascondeva in nome di un qualche insano vizio da scopofilo o per esibizione o per buoni sentimenti. Non nascondeva perché, semplicemente, non c’è nulla che non possa essere redento, nemmeno l’immondo, nemmeno l’inguardabile, nemmeno il cadaverico disperato che girovaga con la sua inutile chincaglieria per la città.
Racconta suor Teresa: «Venne una troupe televisiva e alla fine chiesero di poter riprendere qualcuno degli ospiti del rifugio, “ma di spalle”. Fratel Ettore sentenziò che quella era la maggior offesa che si potesse mai fare a uno di loro. Questa finta premura, questa finta discrezione. Perché censurarli? Cosa c’è di più splendente di un derelitto, lavato, profumato, rimesso a nuovo?».
Il 25 gennaio suor Teresa Martino, sua prima discepola e oggi alla guida della comunità, ha annunciato che «a cinque mesi esatti dalla morte, avvenuta il 20 agosto 2004, il prossimo mese di agosto verrà aperto il processo di beatificazione di Fratel Ettore Boschini». Contemporaneamente, è stato presentato uno Statuto al cardinale di Milano per diventare un’associazione privata di fedeli, con un assistente spirituale e la personalità giuridica della Chiesa.
«E anche questa è stata una sua idea», narra la religiosa. Capitò anni fa, alle quattro di notte. Suor Teresa era da dieci giorni a casa Betania a Seveso (Mi), aveva deciso di seguire quello strano camilliano dalle mani gonfie che percorreva Milano vestito solo di una lunga talare nera marchiata da un’enorme croce rossa. Quella notte, Fratel Ettore la svegliò, la portò davanti alla finestra del secondo piano della palazzina e, spiegando il braccio, le disse: «Vedi? Un giorno tu dovrai portare avanti tutto questo».
Sotto quella finestra, ricorda oggi suor Teresa, «non c’era nulla. Solo uno spiazzo polveroso. Fu la prima volta che litigammo. Gli urlai che me ne sarei andata, che era matto. Lui, per tutta risposta, mi rispose che avrei dovuto fondare un ordine religioso». Fratel Ettore era fatto così. «Non era un teologo, uno che aveva studiato. Ma era un mistico, aveva un’immediata comprensione della realtà che gli veniva da una fede rocciosa, senza incertezze, genuina e spavalda. Era questo che mi affascinava di lui. Io avevo solo la vita a posto, lui aveva tutto». Emanava un amore contagioso come una pestilenza. «Anche oggi è così, anche oggi posso dire che ne vale la pena».
Ettore Boschini nacque il 25 marzo 1928 a Roverbella (Mn) da una famiglia di agricoltori. A causa del duro lavoro giovanile soffrì per tutta la vita di violenti mal di schiena tanto che, sul letto di morte, confidò di «non ricordare, sulle due mani, giorni pieni di salute piena». Gioventù da scavezzacollo, ricca di ragazze e bestemmie, tanto che gli amici avevano inventato un gioco per lui: trenta bestemmie, trenta centesimi di premio. Poi la conversione, l’ordine dei camilliani e vent’anni di servizio presso la Casa degli Alberoni al Lido di Venezia, dove, ancora oggi, si ricorda quel curioso personaggio, «quello che portava i bambini distrofici al cinema».
Usa le mie scarpe, se non hai schifo
Fratel Ettore giunse a Milano e qui divenne “il prete dei barboni”, come lo ricordano ancora sotto il Duomo. Il primo gli fu segnalato da uno spazzino, era da giorni riverso sul marciapiede e, né le forze dell’ordine né i volontari, erano riusciti a far sollevare quel corpo pesante come un sacco di farina. Giunse Fratel Ettore ed ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a una «statua della desolazione umana». Dove tutti avevano fallito, il camilliano riuscì. Il barbone si alzò e lo seguì, «lasciando orme di escrementi sulla strada».
Non nascondere l’amore può far male. Fisicamente. Spiega suor Teresa che spesso ci si trova di fronte a persone la cui vita è piena di crepe. «Lavarli, pulirli, significa spesso far loro del male. L’urina fa attaccare i pantaloni alla pelle. Svestendoli, gli si strappa anche quella, inevitabilmente. Peggio ancora avviene a Bogotà, dove abbiamo un altro rifugio. Lì ci sono gli ultimi degli ultimi, persone la cui umanità è al livello elementare. Spesso si presentano con dei lacci legati intorno alle caviglie, perché temono di perdere i lembi di carne incancrenita. Occorre stare attenti: verrebbe voglia di togliere loro quelle stringhe, ma così li si mutilerebbe. Bisogna invece pulire e disinfettare con pazienza e poi chiamare un medico o un infermiere».
Suor Teresa e Fratel Ettore hanno lavato, ripulito, mondato migliaia di disperati in questi trent’anni. Fratel Ettore si decise a dedicare loro la vita la notte di Natale del 1977, quando si recò al dormitorio pubblico in viale Ortles a Milano con bottiglie di spumante e panettoni per festeggiare le feste con i diseredati dallo sguardo sconvolto e le gengive callose. Solo uno se ne stava in disparte. Si avvicinò e vide che aveva i piedi congelati per le scarpe marce e rotte. Non aveva nemmeno le calze. Si sfilò le proprie e le offrì a quel derelitto da bassifondi: «Mettile tu, se non hai schifo». Quella notte se ne tornò a casa con le scarpe luride del barbone, ma dal giorno dopo fu tutto per loro. Fratel Ettore ottenne due saloni sotto i binari della ferrovia. Uno era senza finestre. Vi costruì il primo dei suoi rifugi in cui dava un pasto, lavava e medicava centinaia di quei corpi in aspettativa che, ogni giorno, si rivolgevano a lui. Fece benedire i locali, su un lato pose un altare e, naturalmente, una statua della Madonna. Oggi esistono rifugi in Brianza, ad Affori, a Colle Spaccato di Bucchianico (Ch), a Grottaferrata (Roma) e a Bogotà, in Colombia.
«La carità non è assistenzialismo», dice suor Teresa. «La carità è educazione. Bisogna mettersi al livello dell’altro, non sopra, ma di fianco. E insegnare ad avere loro, per primi, rispetto per se stessi. Perché, come diceva sempre Ettore, bisogna togliere il povero dall’immondizia per farlo sedere tra i capi del regno». Non è sempre facile, a Fratel Ettore è capitato spesso di dover lottare coi suoi poveri. “Lottare”, non in senso metaforico. In molti, vedendolo con qualche occhio tumefatto, capivano subito cosa era accaduto. Ma lui non s’arrendeva, «voleva vivere in modo superlativo, voleva sempre il massimo». Per questo suo slancio è arrivato prima di tanti altri a rendersi conto di molti problemi: la prostituzione delle ragazze dell’Est, l’Aids, i clandestini, gli anziani abbandonati prima di divenire “emergenze sociali” sono stati ospiti di Fratel Ettore.
Ha dovuto combattere spesso contro i pregiudizi, spesso con le resistenze dei suoi stessi collaboratori che, a volte, faticavano a capire come potesse solo immaginare che le sue speranze si realizzassero, come solo potesse pensare che l’asse su cui gira il mondo fosse diverso da quello precostituito. «Aveva una fede incrollabile nella provvidenza e nella Madonna». Si racconta che volle fare un regalo a un camilliano in partenza per l’America del Sud. Fece costruire una statua della Vergine in marmo bianco. Era alta due metri. Tra costo di lavorazione e spedizione, spese dieci milioni di lire. Un’enormità, che non aveva, e che mandò su tutte le furie l’economo di casa: «Ma come, abbiamo un debito di cento milioni e tu ne spendi altri dieci per una statua?». Ma, racconta suor Teresa, «Fratel Ettore rispose solo che “era giusto che quei fratelli avessero una bella immagine di Maria”. Quella sera una donna sconosciuta gli regalò cento milioni». In Colombia, aveva firmato un assegno di cento milioni, che non possedeva, per far costruire il rifugio. Mentre girovagava per la città trovò un povero che teneva uno straccio sul viso. Quando lo tolse, vide che metà del volto era stato mangiato dal cancro. Tentò di farlo ricoverare in qualche ospedale. Invano. «A che serve curarlo? Ha poco da vivere». Lo pulì, gli disinfettò la pelle marcia, lo baciò. Quella sera dall’Italia lo avvisarono di aver ricevuto una donazione pari al costo del rifugio colombiano.
Suor Teresa precisa che «Fratel Ettore non mi ha influenzata, mi ha trasformata. E così ha fatto con tantissimi, tra i primi Sabatino Jefuniello, un fattorino, e Enrica Plebani, una tossicodipendente leoncavallina, divenuti i suoi primi assistenti, entrambi morti giovanissimi, entrambi in causa di beatificazione». Era difficile da non notare, Fratel Ettore. Girava per la città con la sua Uno bianca su cui aveva fatto porre una statua della Madonna di Fatima attorniata da fiori («Senza l’aiuto di Maria, – ripeteva – non avrei potuto combinare nulla») e un megafono da cui gracchiava infiniti rosari. Tanti li recitava presentandosi alle manifestazioni abortiste, o al Gay Pride («convertitevi!», urlava loro), o sul sagrato del Duomo durante la guerra dei Balcani. Una corona di rosario – semplice, di plastica bianca – era sempre presente nelle sue tasche, e spesso finiva nelle tasche altrui, a chiunque esse appartenessero. «Certe volte – racconta suor Teresa – fermava una discussione e diceva: “Preghiamo”. Si inginocchiava e incominciava a sgranare il rosario. E tu che facevi? Pregavi, che alternativa avevi?». Lo faceva anche coi tanti immigrati musulmani che incontrava. «Pregate come sapete», diceva loro. E poi intonava a squarciagola il Salve regina.
Le cambiali della Madonna
Non esistono ostacoli per una fede certa. Ai coristi della Scala in partenza per l’Urss fece recapitare delle Bibbie da portare di nascosto oltre il confine (una anche per il «fratello Michele Gorbaciov»). Una volta irruppe in una galante cena di solidarietà della borghesia milanese con un centinaio di derelitte dell’Est: «Se volete fare qualcosa di buono, assumetele come badanti. Adesso!». Il sindaco di Seveso negli anni Settanta, Francesco Rocca, si ricorda ancora di quella sera in cui il sacerdote si presentò con una pila di cambiali da firmare. «Voglio ampliare il rifugio. Ho bisogno di un garante con le banche – pausa – non vorrai forse dare un dispiacere alla Madonna?». Quello firmò, anche se aveva un mutuo da pagare, anche se erano gli anni della nube tossica dell’Icmesa, anche se pensò di essere rovinato. «Una settimana dopo, Fratel Ettore si presentò con una valigia piena di contanti». I suoi collaboratori ancora oggi si ricordano che ai barboni chiedeva digiuni nei periodi quaresimali, o di seguirlo fino a Pescopagano, in Irpinia, per aiutare i terremotati, o qualche offerta che poi inviava a Giovanni Paolo II accompagnandola con questo biglietto: «Dai poveri per i più poveri del Papa».
Oggi, guardando i “fratelli” del rifugio, suor Teresa si chiede se, dopo i noti fatti di cronaca, non verrà loro il dubbio «di essere un peso. C’è quello con la sclerosi multipla, l’altro immobilizzato. Che penseranno? Eppure finché ci sarà il rifugio ci sarà speranza». Finché ci sarà qualcuno che dirà, come Fratel Ettore, che «tutto quello che ho fatto, ho sempre cercato di farlo sulla scia del mio fondatore: per gli ultimi. Per i tordi».
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Febbraio 19, 2013 Emanuele Boffi
La vicenda del camilliano raccontato dalla sua discepola suor Teresa Martino. «La carità non è assistenzialismo. La carità è educazione. Bisogna togliere il povero dall’immondizia per farlo sedere tra i capi del regno»
La Conferenza episcopale lombarda ha dato il via libera all’avvio dell’iter per la causa di beatificazione di fratel Ettore Boschini (1928-2004), il religioso camilliano che per decenni si è preso cura dei senza fissa dimora alla Stazione Centrale di Milano. Tempi ha spesso parlato di questo singolare e vulcanico religioso (l’ultima volta al Meeting di Rimini), la cui opera è oggi portata avanti da Teresa Martino. Per conoscere meglio la figura di fratel Ettore, ripubblichiamo un nostro vecchio articolo uscito nel 2005.
Fratel EttoreTeresa Martino, la discepola di Fratel Ettore racconta il “folle di Dio” che girava i bassifondi delle città alla ricerca dei senza tetto. «Amare significa non nascondere, perché non c’è nulla che non possa essere redento»
di Emanuele Boffi
Come tutti i santi, Fratel Ettore era matto da legare. Ma come tutti i “folli di Dio” sapeva che «amare significa non nascondere». Non celare l’imperfezione, fosse pure quella di una ragazza malata che fu splendida a vent’anni, fosse pure uno sbaglio, un errore, una maleodorante sgrammaticatura della natura. Non nascondeva in nome di un qualche insano vizio da scopofilo o per esibizione o per buoni sentimenti. Non nascondeva perché, semplicemente, non c’è nulla che non possa essere redento, nemmeno l’immondo, nemmeno l’inguardabile, nemmeno il cadaverico disperato che girovaga con la sua inutile chincaglieria per la città.
Racconta suor Teresa: «Venne una troupe televisiva e alla fine chiesero di poter riprendere qualcuno degli ospiti del rifugio, “ma di spalle”. Fratel Ettore sentenziò che quella era la maggior offesa che si potesse mai fare a uno di loro. Questa finta premura, questa finta discrezione. Perché censurarli? Cosa c’è di più splendente di un derelitto, lavato, profumato, rimesso a nuovo?».
Il 25 gennaio suor Teresa Martino, sua prima discepola e oggi alla guida della comunità, ha annunciato che «a cinque mesi esatti dalla morte, avvenuta il 20 agosto 2004, il prossimo mese di agosto verrà aperto il processo di beatificazione di Fratel Ettore Boschini». Contemporaneamente, è stato presentato uno Statuto al cardinale di Milano per diventare un’associazione privata di fedeli, con un assistente spirituale e la personalità giuridica della Chiesa.
Il 25 gennaio suor Teresa Martino, sua prima discepola e oggi alla guida della comunità, ha annunciato che «a cinque mesi esatti dalla morte, avvenuta il 20 agosto 2004, il prossimo mese di agosto verrà aperto il processo di beatificazione di Fratel Ettore Boschini». Contemporaneamente, è stato presentato uno Statuto al cardinale di Milano per diventare un’associazione privata di fedeli, con un assistente spirituale e la personalità giuridica della Chiesa.
«E anche questa è stata una sua idea», narra la religiosa. Capitò anni fa, alle quattro di notte. Suor Teresa era da dieci giorni a casa Betania a Seveso (Mi), aveva deciso di seguire quello strano camilliano dalle mani gonfie che percorreva Milano vestito solo di una lunga talare nera marchiata da un’enorme croce rossa. Quella notte, Fratel Ettore la svegliò, la portò davanti alla finestra del secondo piano della palazzina e, spiegando il braccio, le disse: «Vedi? Un giorno tu dovrai portare avanti tutto questo».
Sotto quella finestra, ricorda oggi suor Teresa, «non c’era nulla. Solo uno spiazzo polveroso. Fu la prima volta che litigammo. Gli urlai che me ne sarei andata, che era matto. Lui, per tutta risposta, mi rispose che avrei dovuto fondare un ordine religioso». Fratel Ettore era fatto così. «Non era un teologo, uno che aveva studiato. Ma era un mistico, aveva un’immediata comprensione della realtà che gli veniva da una fede rocciosa, senza incertezze, genuina e spavalda. Era questo che mi affascinava di lui. Io avevo solo la vita a posto, lui aveva tutto». Emanava un amore contagioso come una pestilenza. «Anche oggi è così, anche oggi posso dire che ne vale la pena».
Ettore Boschini nacque il 25 marzo 1928 a Roverbella (Mn) da una famiglia di agricoltori. A causa del duro lavoro giovanile soffrì per tutta la vita di violenti mal di schiena tanto che, sul letto di morte, confidò di «non ricordare, sulle due mani, giorni pieni di salute piena». Gioventù da scavezzacollo, ricca di ragazze e bestemmie, tanto che gli amici avevano inventato un gioco per lui: trenta bestemmie, trenta centesimi di premio. Poi la conversione, l’ordine dei camilliani e vent’anni di servizio presso la Casa degli Alberoni al Lido di Venezia, dove, ancora oggi, si ricorda quel curioso personaggio, «quello che portava i bambini distrofici al cinema».
Ettore Boschini nacque il 25 marzo 1928 a Roverbella (Mn) da una famiglia di agricoltori. A causa del duro lavoro giovanile soffrì per tutta la vita di violenti mal di schiena tanto che, sul letto di morte, confidò di «non ricordare, sulle due mani, giorni pieni di salute piena». Gioventù da scavezzacollo, ricca di ragazze e bestemmie, tanto che gli amici avevano inventato un gioco per lui: trenta bestemmie, trenta centesimi di premio. Poi la conversione, l’ordine dei camilliani e vent’anni di servizio presso la Casa degli Alberoni al Lido di Venezia, dove, ancora oggi, si ricorda quel curioso personaggio, «quello che portava i bambini distrofici al cinema».
Usa le mie scarpe, se non hai schifo
Fratel Ettore giunse a Milano e qui divenne “il prete dei barboni”, come lo ricordano ancora sotto il Duomo. Il primo gli fu segnalato da uno spazzino, era da giorni riverso sul marciapiede e, né le forze dell’ordine né i volontari, erano riusciti a far sollevare quel corpo pesante come un sacco di farina. Giunse Fratel Ettore ed ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a una «statua della desolazione umana». Dove tutti avevano fallito, il camilliano riuscì. Il barbone si alzò e lo seguì, «lasciando orme di escrementi sulla strada».
Non nascondere l’amore può far male. Fisicamente. Spiega suor Teresa che spesso ci si trova di fronte a persone la cui vita è piena di crepe. «Lavarli, pulirli, significa spesso far loro del male. L’urina fa attaccare i pantaloni alla pelle. Svestendoli, gli si strappa anche quella, inevitabilmente. Peggio ancora avviene a Bogotà, dove abbiamo un altro rifugio. Lì ci sono gli ultimi degli ultimi, persone la cui umanità è al livello elementare. Spesso si presentano con dei lacci legati intorno alle caviglie, perché temono di perdere i lembi di carne incancrenita. Occorre stare attenti: verrebbe voglia di togliere loro quelle stringhe, ma così li si mutilerebbe. Bisogna invece pulire e disinfettare con pazienza e poi chiamare un medico o un infermiere».
Fratel Ettore giunse a Milano e qui divenne “il prete dei barboni”, come lo ricordano ancora sotto il Duomo. Il primo gli fu segnalato da uno spazzino, era da giorni riverso sul marciapiede e, né le forze dell’ordine né i volontari, erano riusciti a far sollevare quel corpo pesante come un sacco di farina. Giunse Fratel Ettore ed ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a una «statua della desolazione umana». Dove tutti avevano fallito, il camilliano riuscì. Il barbone si alzò e lo seguì, «lasciando orme di escrementi sulla strada».
Non nascondere l’amore può far male. Fisicamente. Spiega suor Teresa che spesso ci si trova di fronte a persone la cui vita è piena di crepe. «Lavarli, pulirli, significa spesso far loro del male. L’urina fa attaccare i pantaloni alla pelle. Svestendoli, gli si strappa anche quella, inevitabilmente. Peggio ancora avviene a Bogotà, dove abbiamo un altro rifugio. Lì ci sono gli ultimi degli ultimi, persone la cui umanità è al livello elementare. Spesso si presentano con dei lacci legati intorno alle caviglie, perché temono di perdere i lembi di carne incancrenita. Occorre stare attenti: verrebbe voglia di togliere loro quelle stringhe, ma così li si mutilerebbe. Bisogna invece pulire e disinfettare con pazienza e poi chiamare un medico o un infermiere».
Suor Teresa e Fratel Ettore hanno lavato, ripulito, mondato migliaia di disperati in questi trent’anni. Fratel Ettore si decise a dedicare loro la vita la notte di Natale del 1977, quando si recò al dormitorio pubblico in viale Ortles a Milano con bottiglie di spumante e panettoni per festeggiare le feste con i diseredati dallo sguardo sconvolto e le gengive callose. Solo uno se ne stava in disparte. Si avvicinò e vide che aveva i piedi congelati per le scarpe marce e rotte. Non aveva nemmeno le calze. Si sfilò le proprie e le offrì a quel derelitto da bassifondi: «Mettile tu, se non hai schifo». Quella notte se ne tornò a casa con le scarpe luride del barbone, ma dal giorno dopo fu tutto per loro. Fratel Ettore ottenne due saloni sotto i binari della ferrovia. Uno era senza finestre. Vi costruì il primo dei suoi rifugi in cui dava un pasto, lavava e medicava centinaia di quei corpi in aspettativa che, ogni giorno, si rivolgevano a lui. Fece benedire i locali, su un lato pose un altare e, naturalmente, una statua della Madonna. Oggi esistono rifugi in Brianza, ad Affori, a Colle Spaccato di Bucchianico (Ch), a Grottaferrata (Roma) e a Bogotà, in Colombia.
«La carità non è assistenzialismo», dice suor Teresa. «La carità è educazione. Bisogna mettersi al livello dell’altro, non sopra, ma di fianco. E insegnare ad avere loro, per primi, rispetto per se stessi. Perché, come diceva sempre Ettore, bisogna togliere il povero dall’immondizia per farlo sedere tra i capi del regno». Non è sempre facile, a Fratel Ettore è capitato spesso di dover lottare coi suoi poveri. “Lottare”, non in senso metaforico. In molti, vedendolo con qualche occhio tumefatto, capivano subito cosa era accaduto. Ma lui non s’arrendeva, «voleva vivere in modo superlativo, voleva sempre il massimo». Per questo suo slancio è arrivato prima di tanti altri a rendersi conto di molti problemi: la prostituzione delle ragazze dell’Est, l’Aids, i clandestini, gli anziani abbandonati prima di divenire “emergenze sociali” sono stati ospiti di Fratel Ettore.
Ha dovuto combattere spesso contro i pregiudizi, spesso con le resistenze dei suoi stessi collaboratori che, a volte, faticavano a capire come potesse solo immaginare che le sue speranze si realizzassero, come solo potesse pensare che l’asse su cui gira il mondo fosse diverso da quello precostituito. «Aveva una fede incrollabile nella provvidenza e nella Madonna». Si racconta che volle fare un regalo a un camilliano in partenza per l’America del Sud. Fece costruire una statua della Vergine in marmo bianco. Era alta due metri. Tra costo di lavorazione e spedizione, spese dieci milioni di lire. Un’enormità, che non aveva, e che mandò su tutte le furie l’economo di casa: «Ma come, abbiamo un debito di cento milioni e tu ne spendi altri dieci per una statua?». Ma, racconta suor Teresa, «Fratel Ettore rispose solo che “era giusto che quei fratelli avessero una bella immagine di Maria”. Quella sera una donna sconosciuta gli regalò cento milioni». In Colombia, aveva firmato un assegno di cento milioni, che non possedeva, per far costruire il rifugio. Mentre girovagava per la città trovò un povero che teneva uno straccio sul viso. Quando lo tolse, vide che metà del volto era stato mangiato dal cancro. Tentò di farlo ricoverare in qualche ospedale. Invano. «A che serve curarlo? Ha poco da vivere». Lo pulì, gli disinfettò la pelle marcia, lo baciò. Quella sera dall’Italia lo avvisarono di aver ricevuto una donazione pari al costo del rifugio colombiano.
Suor Teresa precisa che «Fratel Ettore non mi ha influenzata, mi ha trasformata. E così ha fatto con tantissimi, tra i primi Sabatino Jefuniello, un fattorino, e Enrica Plebani, una tossicodipendente leoncavallina, divenuti i suoi primi assistenti, entrambi morti giovanissimi, entrambi in causa di beatificazione». Era difficile da non notare, Fratel Ettore. Girava per la città con la sua Uno bianca su cui aveva fatto porre una statua della Madonna di Fatima attorniata da fiori («Senza l’aiuto di Maria, – ripeteva – non avrei potuto combinare nulla») e un megafono da cui gracchiava infiniti rosari. Tanti li recitava presentandosi alle manifestazioni abortiste, o al Gay Pride («convertitevi!», urlava loro), o sul sagrato del Duomo durante la guerra dei Balcani. Una corona di rosario – semplice, di plastica bianca – era sempre presente nelle sue tasche, e spesso finiva nelle tasche altrui, a chiunque esse appartenessero. «Certe volte – racconta suor Teresa – fermava una discussione e diceva: “Preghiamo”. Si inginocchiava e incominciava a sgranare il rosario. E tu che facevi? Pregavi, che alternativa avevi?». Lo faceva anche coi tanti immigrati musulmani che incontrava. «Pregate come sapete», diceva loro. E poi intonava a squarciagola il Salve regina.
«La carità non è assistenzialismo», dice suor Teresa. «La carità è educazione. Bisogna mettersi al livello dell’altro, non sopra, ma di fianco. E insegnare ad avere loro, per primi, rispetto per se stessi. Perché, come diceva sempre Ettore, bisogna togliere il povero dall’immondizia per farlo sedere tra i capi del regno». Non è sempre facile, a Fratel Ettore è capitato spesso di dover lottare coi suoi poveri. “Lottare”, non in senso metaforico. In molti, vedendolo con qualche occhio tumefatto, capivano subito cosa era accaduto. Ma lui non s’arrendeva, «voleva vivere in modo superlativo, voleva sempre il massimo». Per questo suo slancio è arrivato prima di tanti altri a rendersi conto di molti problemi: la prostituzione delle ragazze dell’Est, l’Aids, i clandestini, gli anziani abbandonati prima di divenire “emergenze sociali” sono stati ospiti di Fratel Ettore.
Ha dovuto combattere spesso contro i pregiudizi, spesso con le resistenze dei suoi stessi collaboratori che, a volte, faticavano a capire come potesse solo immaginare che le sue speranze si realizzassero, come solo potesse pensare che l’asse su cui gira il mondo fosse diverso da quello precostituito. «Aveva una fede incrollabile nella provvidenza e nella Madonna». Si racconta che volle fare un regalo a un camilliano in partenza per l’America del Sud. Fece costruire una statua della Vergine in marmo bianco. Era alta due metri. Tra costo di lavorazione e spedizione, spese dieci milioni di lire. Un’enormità, che non aveva, e che mandò su tutte le furie l’economo di casa: «Ma come, abbiamo un debito di cento milioni e tu ne spendi altri dieci per una statua?». Ma, racconta suor Teresa, «Fratel Ettore rispose solo che “era giusto che quei fratelli avessero una bella immagine di Maria”. Quella sera una donna sconosciuta gli regalò cento milioni». In Colombia, aveva firmato un assegno di cento milioni, che non possedeva, per far costruire il rifugio. Mentre girovagava per la città trovò un povero che teneva uno straccio sul viso. Quando lo tolse, vide che metà del volto era stato mangiato dal cancro. Tentò di farlo ricoverare in qualche ospedale. Invano. «A che serve curarlo? Ha poco da vivere». Lo pulì, gli disinfettò la pelle marcia, lo baciò. Quella sera dall’Italia lo avvisarono di aver ricevuto una donazione pari al costo del rifugio colombiano.
Suor Teresa precisa che «Fratel Ettore non mi ha influenzata, mi ha trasformata. E così ha fatto con tantissimi, tra i primi Sabatino Jefuniello, un fattorino, e Enrica Plebani, una tossicodipendente leoncavallina, divenuti i suoi primi assistenti, entrambi morti giovanissimi, entrambi in causa di beatificazione». Era difficile da non notare, Fratel Ettore. Girava per la città con la sua Uno bianca su cui aveva fatto porre una statua della Madonna di Fatima attorniata da fiori («Senza l’aiuto di Maria, – ripeteva – non avrei potuto combinare nulla») e un megafono da cui gracchiava infiniti rosari. Tanti li recitava presentandosi alle manifestazioni abortiste, o al Gay Pride («convertitevi!», urlava loro), o sul sagrato del Duomo durante la guerra dei Balcani. Una corona di rosario – semplice, di plastica bianca – era sempre presente nelle sue tasche, e spesso finiva nelle tasche altrui, a chiunque esse appartenessero. «Certe volte – racconta suor Teresa – fermava una discussione e diceva: “Preghiamo”. Si inginocchiava e incominciava a sgranare il rosario. E tu che facevi? Pregavi, che alternativa avevi?». Lo faceva anche coi tanti immigrati musulmani che incontrava. «Pregate come sapete», diceva loro. E poi intonava a squarciagola il Salve regina.
Le cambiali della Madonna
Non esistono ostacoli per una fede certa. Ai coristi della Scala in partenza per l’Urss fece recapitare delle Bibbie da portare di nascosto oltre il confine (una anche per il «fratello Michele Gorbaciov»). Una volta irruppe in una galante cena di solidarietà della borghesia milanese con un centinaio di derelitte dell’Est: «Se volete fare qualcosa di buono, assumetele come badanti. Adesso!». Il sindaco di Seveso negli anni Settanta, Francesco Rocca, si ricorda ancora di quella sera in cui il sacerdote si presentò con una pila di cambiali da firmare. «Voglio ampliare il rifugio. Ho bisogno di un garante con le banche – pausa – non vorrai forse dare un dispiacere alla Madonna?». Quello firmò, anche se aveva un mutuo da pagare, anche se erano gli anni della nube tossica dell’Icmesa, anche se pensò di essere rovinato. «Una settimana dopo, Fratel Ettore si presentò con una valigia piena di contanti». I suoi collaboratori ancora oggi si ricordano che ai barboni chiedeva digiuni nei periodi quaresimali, o di seguirlo fino a Pescopagano, in Irpinia, per aiutare i terremotati, o qualche offerta che poi inviava a Giovanni Paolo II accompagnandola con questo biglietto: «Dai poveri per i più poveri del Papa».
Non esistono ostacoli per una fede certa. Ai coristi della Scala in partenza per l’Urss fece recapitare delle Bibbie da portare di nascosto oltre il confine (una anche per il «fratello Michele Gorbaciov»). Una volta irruppe in una galante cena di solidarietà della borghesia milanese con un centinaio di derelitte dell’Est: «Se volete fare qualcosa di buono, assumetele come badanti. Adesso!». Il sindaco di Seveso negli anni Settanta, Francesco Rocca, si ricorda ancora di quella sera in cui il sacerdote si presentò con una pila di cambiali da firmare. «Voglio ampliare il rifugio. Ho bisogno di un garante con le banche – pausa – non vorrai forse dare un dispiacere alla Madonna?». Quello firmò, anche se aveva un mutuo da pagare, anche se erano gli anni della nube tossica dell’Icmesa, anche se pensò di essere rovinato. «Una settimana dopo, Fratel Ettore si presentò con una valigia piena di contanti». I suoi collaboratori ancora oggi si ricordano che ai barboni chiedeva digiuni nei periodi quaresimali, o di seguirlo fino a Pescopagano, in Irpinia, per aiutare i terremotati, o qualche offerta che poi inviava a Giovanni Paolo II accompagnandola con questo biglietto: «Dai poveri per i più poveri del Papa».
Oggi, guardando i “fratelli” del rifugio, suor Teresa si chiede se, dopo i noti fatti di cronaca, non verrà loro il dubbio «di essere un peso. C’è quello con la sclerosi multipla, l’altro immobilizzato. Che penseranno? Eppure finché ci sarà il rifugio ci sarà speranza». Finché ci sarà qualcuno che dirà, come Fratel Ettore, che «tutto quello che ho fatto, ho sempre cercato di farlo sulla scia del mio fondatore: per gli ultimi. Per i tordi».
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