Vi dicono che Cristo è un mito, come Krishna? Allora raccontate la storia di don Enelio Franzoni
Una
signora, credente, è stata turbata da colleghi che sostengono: Cristo
non è un personaggio storico, è un mito. E le hanno rifilato un testo
dove si forniscono le «prove» della natura mitologica di Cristo.
Esempio:
Virishna, in India, fece miracoli e guarigioni, fu crocifisso e risorse
1.200 anni prima (la fonte è seria: David Icke!). Horus, il dio egizio,
nacque da una vergine (Iside), ebbe 12 discepoli, morì e risorse...
Krishna nacque il 25 dicembre.
E così via. Il
tutto sulla scorta di esperti quali Icke e Umberto Eco. La signora
chiede cosa rispondere ai colleghi; quali sono le prove della storicità
di Cristo.
Signora, sono stanco di questi
argomenti, a cui ho creduto in passato. Sono stanco di dovervi
rispondere, perché so che quei colleghi, quelle anime, avranno il loro
momento in cui dovranno essere convinte: con la sofferenza personale e
la morte imminente. Quel momento in cui non si scherza più in ufficio,
fra colleghi. Arriva per tutti.
Io le do qui,
signora, un mio racconto, perché si convinca lei, e non si lasci
turbare. Le racconto dell’uomo che mi fece capire perché Cristo è
radicalmente diverso, e irriducibile, a tutte le figure mitiche che pure
lo prefigurano e lo annunciano.
Quell’uomo si chiamava don Enelio Franzoni, che intervistai a Bologna per il settimanale Gente
non so quanti anni fa. Niente in comune con un don Franzoni allora più
noto alle cronache come prete progressista. Il don Enelio che ho
conosciuto io se ne stava in una canonica, nella penombra, ormai
vecchio.
Era stato cappellano militare dell’ARMIR,
ed era stato preso prigioniero in URSS, in una delle tragiche sacche,
con migliaia di soldati italiani, i suoi ragazzi. Con loro era finito in
un campo in Siberia, anzi da un campo all’altro.
Non
mi raccontò molto del freddo, della fame continua che degrada l’uomo a
bestia, dell’umiliazione del defecare sulla neve in fila davanti ai
carcerieri, dei pidocchi e della fatica del lavoro forzato.
Quel
che ricordava lui erano le confessioni ai giovani italiani prigionieri,
i salti mortali per procurarsi un goccio di vino da Messa per
comunicarli; a quanti aveva dovuto dare l’ultimo sacramento, a quanti
aveva dovuto chiudere gli occhi.
Dei ragazzi con
le stellette che morivano nel lager, don Franzoni teneva nota. Cominciò
a segnarli su un libretto: nome, cognome, data della morte, luogo della
sepoltura. Ma i ragazzi morivano come mosche, e presto il libriccino
non bastò più. Poiché non c’era altra carta ed era vietato averne, don
Franzoni cominciò; a scrivere, con un mozzicone di lapis copiativo,
sulla sua bustina militare; cognomi, data, fossa comune di sepoltura.
Non
bastò nemmeno la bustina militare. Don Franzoni continuò dunque a
scrivere sul suo cappotto, prima dentro, nella fodera, poi fuori.
Conservava
ancora quel cappotto, e me lo mostrò: il goffo cappotto di Lanital
grigioverde, sfilacciato, irrigidito di sporcizia – cappotto da
mendicante e da barbone, non più da soldato. Ed era tutto scritto, con
una grafia minuta, in ogni minimo spazio. Nomi, cognomi, date, fossa di
sepoltura. Migliaia di nomi. «Per poterli ritrovare» mi disse.
Nel
1948, il regime consegnò una parte dei prigionieri di guerra italiani.
Don Enelio Franzoni era nella lista dei liberati: non mi disse il suo
stato d’animo, ma lo posso immaginare. Il cuore del prigioniero
sobbalza: libero! Tornare a Bologna, così dolce e cordiale, così lontana
dai cani e dagli urli degli aguzzini! Mangiare, finalmente!
Riscaldarsi.
Ma restavano altri ragazzi italiani
nel lager; chissà perché, il regime sovietico aveva deciso di tenerli
ancora dentro. Don Franzoni rifiutò la liberazione. Era il loro
cappellano, doveva restare con loro.
Ascoltò altre confessioni, benedisse altri morenti, chiuse altri occhi.
Fu liberato con i sopravvissuti, infine, se non ricordo male, nel 1952. A guerra finita ormai da otto anni.
Appena
tornato a Bologna, don Franzoni contattò le famiglie dei ragazzi morti
di cui aveva annotato i nomi; organizzò un comitato di famiglie per
reclamare la restituzione dei resti.
Tanto fece e
tanto brigò, ostinato, da riuscire ad ottenere con una delegazione di
mamme dei soldati perduti un colloquio con Kruscev.
Nikita
Kruscev era allora il segretario generale del PCUS. Aveva denunciato i
crimini di Stalin, in fondo era un brav’uomo. Davanti alla richiesta di
riesumare quei corpi, don Franzoni aveva la lista, aveva i luoghi esatti
dove li sapeva sepolti, restò interdetto. Non capiva.
Domandò: «A che scopo tirar fuori quelle ossa? Esse sono mescolate ormai alla terra russa, sono terra russa».
Com’era russa questa risposta! Ammirevole anche, perfino – in modo russo – religiosa. Anzi, com’era asiatica!
Buddha
stesso, credo, avrebbe risposto così. E anch’io – che a quel tempo
amavo l’induismo, ero convinto della superiorità del neutro Brahman,
dell’impersonale Nirvana sulla «salvezza cristiana» – avrei risposto
così.
Ma don Franzoni, in russo, replicò a
Kruscev: «Compagno Segretario, ciascuno di questi ragazzi è un figlio di
famiglia. Alcuni di loro avevano una moglie, che li attende; altri,
fratelli e sorelle. Tutti hanno una mamma. Una mamma che ha amato
ciascuno di loro singolarmente, per nome, e che non si accontenta di
sapere mescolato suo figlio da qualche parte nella terra siberiana. Ogni
mamma vuole avere suo figlio, proprio lui, perché vuole bene a lui; e
vuole una tomba su cui andare a parlargli. A lui solo».
Una risposta cattolica, italiana e romana.
Kruscev
diede il permesso alle esumazioni; delegazioni di genitori, guidate da
don Enelio Franzoni, andarono sui luoghi e poterono riportare a casa le
ossa dei loro figli. Naturalmente, trovarono altre ossa di soldati
italiani; sconosciuti, non annotati dal don Enelio, non reclamati da una
mamma, probabilmente morta nel frattempo.
Don
Enelio portò in Italia anche quelle ossa senza nome. Le fece mettere in
un sacrario militare, e sopra vi fece scolpire, in caratteri
grandissimi, una frase del profeta Isaia:
«Ego vocavi te nomine tuo».
È Dio che parla così: «Ti ho chiamato per nome». Ti ho chiamato con il tuo nome.
Il
che vuol dire: anche se la tua mamma non c’è più a chiamarti, tu
singolarmente, unico, Io conosco il tuo nome, soldato. Anche se tutti
l’hanno dimenticato, Io ti ricordo – ricordo il tuo nome singolo, unico e
personale – perché ti amo, soldato, più della mamma. Tu sei mio figlio,
soldato. Ti ho chiamato col «tuo» nome, il nome tuo – personale, per me
unico – perché te l’ho dato io. Unico, benché siate in tanti. Non vi
amo «tutti»; vi amo uno per uno.
Ecco, signora
turbata da miscredenti fatui, la mia «prova» che Cristo non è un mito.
Non voglio nemmeno provare che Cristo è esistito nella storia, duemila
anni fa; sarebbe troppo poco.
La «prova» è che
Cristo è qui, ancora oggi. E la prova è don Enelio Franzoni, soldato più
coraggioso di un samurai – tanto da rifiutare la liberazione – e più
tenero di una mamma italiana.
Una mamma italiana
è parziale: ama suo figlio anche se è un mascalzone, perché è «lui».
Don Franzoni non vedeva peccatori tra quei suoi figli, che conosceva uno
per uno; vedeva dei sofferenti; vedeva degli amati, e li ha restituiti
uno per uno.
Don Franzoni Enelio ha fatto questo
convinto di dover imitare – nei limiti delle forze umane,
nell’impotenza di prigioniero – il Dio a cui credeva; di imitare Cristo,
il modo specifico di amare che ha Cristo: guerriero più di un samurai e
parziale come la mamma che ci chiama uno per uno.
Capisco
che questa non è una dimostrazione che si possa opporre a fatui
miscredenti da ufficio, che straparlano di Krishna e di Horus. Non è
un’argomentazione razionale, o nutrita di dati storici e reperti
archeologici.
La fede non si afferma con metodi
intellettuali, signora: la fede è essenzialmente «azione», coraggio
eroico, imitazione della misericordia di Quello che salì sulla croce per
ognuno di noi (che non lo meritiamo).
La prova
dell’esistenza reale ed attuale di Cristo sta in personaggi coraggiosi e
in persone d’azione, come don Franzoni o padre Pio. E in altre migliaia
di imitatori di Cristo che amano irragionevolmente, come una mamma, chi
non lo merita: persone ignote, che la Chiesa non santifica, ma di cui
Dio conosce il nome, perché in ogni momento storico, coi loro limiti e
superando i loro limiti, testimoniano Cristo incarnandolo.
Per
questo, signora, benché ancora il Nirvana mi affascini e senta in esso
una profonda verità, sento che Cristo e la sua salvezza hanno qualcosa
di radicalmente diverso da quel che può offrire Buddha, o Horus o
Krishna.
È anche la mia personale speranza: io
sono un figlio mascalzone, non ho amato mia madre come lei mi ha amato;
l’ho trascurata, ed ora che è morta, non posso più rimediare; non ho
fatto nemmeno un millesimo di quel che ha fatto don Enelio, né ho
esercitato in azioni un milionesimo del suo amore.
Ma
ho una speranza: mia mamma mi ha amato anche come sono; ma può darsi
che Dio, nell’ultimo giorno, mi condoni qualcosa, e ingigantisca (mia
mamma lo farebbe) i miei meriti?
Lo farà anche
per i suoi colleghi che ora lo deridono, signora. In quel momento in cui
tutti diventiamo prigionieri, sofferenti e impotenti, nell’agonia che
tutti ci attende.
Le chiacchiere della buona
salute restano chiacchiere, signora. Quel che conta è la prova
personale, mandata a ciascuno singolarmente, come malattia, come
sciagura, come agonia che è anche grazia e chiamata: «Ti ho chiamato per
nome», Ego vocavi te nomine tuo.
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