Henri Poincaré, nel suo saggio Il valore della scienza (1904) distingue nettamente tra «pratici intransigenti» e «curiosi della natura»: i primi pensano soltanto al guadagno, mentre i secondi cercano di capire in che maniera possiamo indagare per conoscere. Dice Poincaré:
«Senza dubbio vi hanno spesso domandato a che servono le matematiche e se queste delicate costruzioni, ricavate interamente dalla nostra mente, non siano artificiali e non siano che un parto del nostro capriccio. Fra le persone che fanno tale domanda devo distinguere: la gente pratica ci chiede solamente il mezzo di guadagnare denaro. Essa non merita una risposta. Converrebbe piuttosto domandarle a che accumulare tante ricchezze, e se valga la pena, per avere il tempo di conquistarle, trascurare l’arte e la scienza le quali soltanto ci fanno spiriti capaci di gioirne, et propter vitam vivendi perdere causas» (p. 99).
«Una scienza fatta unicamente in vista delle applicazioni» è una scienza «impossibile», perché «le verità non sono feconde se non sono concatenate le une alle altre» (ibidem). E se «ci si attiene soltanto a quelle [verità] da cui si spera un risultato immediato, mancheranno gli anelli intermedi e non vi sarà più catena» (ibidem).
A fianco «dei pratici intransigenti», Poincaré colloca «quelli che sono soltanto curiosi della natura e ci domandano se siamo in grado di farla conoscere loro meglio» (p. 100).
«Le matematiche hanno un triplice scopo. Esse devono fornire uno strumento per lo studio della natura. Ma non è tutto: esse hanno uno scopo filosofico, e, oso dirlo, uno scopo estetico. Devono aiutare il filosofo ad approfondire le nozioni di numero, di spazio, di tempo. E soprattutto i loro adepti vi trovano un godimento analogo a quello che danno la pittura e la musica» (p. 100).
I matematici «ammirano la delicata armonia dei numeri e delle forme» e si «meravigliano quando una nuova scoperta apre loro un’inattesa prospettiva».
Per queste ragioni, “«le matematiche meritano di essere coltivate per se stesse e le teorie che non possono essere applicate alla fisica devono essere coltivate come le altre». Per Poincaré, insomma, anche «quando lo scopo fisico e lo scopo estetico non fossero solidali, non dovremmo sacrificare né l’uno né l’altro» (p. 100).
Vi è analogia tra matematici e scrittori: «Gli scrittori che abbelliscono una lingua, che la trattano come un oggetto d’arte, ne fanno nello stesso tempo uno strumento più docile, più atto a rendere le sfumature del pensiero», come «l’analista, che persegue uno scopo puramente estetico, contribuisca per ciò stesso a creare una lingua più atta a soddisfare il fisico» (p. 102).
Nell’introduzione all’edizione americana de Il valore della scienza – pubblicata a New York nel 1907 e poi ripresa nel volume Scienza e metodo nel 1908 – Poincaré scrive:
«Per Tolstoj la parola “utilità” non ha chiaramente lo stesso significato che le viene attribuito dagli uomini d’affari, e con loro dalla maggior parte dei nostri contemporanei. Egli si preoccupa poco delle applicazioni industriali, delle meraviglie dell’elettricità o dell’automobilismo, che considera piuttosto come ostacoli al progresso morale; l’utile è unicamente ciò che può rendere l’uomo migliore» (p. 9).
Se le nostre scelte vengono determinate «soltanto dal capriccio o dall’utilità immediata non vi può essere ‘scienza per la scienza’, né, di conseguenza, scienza». Chi lavora «soltanto in vista di applicazioni immediate non lascerebbe niente dietro di sé» (p. 10):
«Basta aprire gli occhi per rendersi conto che tutte le conquiste dell’industria, che hanno arricchito un così gran numero di “uomini pratici” non sarebbero mai state realizzate se fossero esistiti solo questi uomini pratici, se costoro non fossero stati preceduti da pazzi disinteressati, morti in miseria, che non hanno mai pensato al profitto e ciò nondimeno avevano una guida diversa dal proprio esclusivo capriccio» (p. 10).
«Supponiamo che si voglia determinare una curva osservando alcuni dei suoi punti: l’uomo pratico, interessato soltanto all’utilità immediata, si limiterebbe a osservare soltanto i punti di cui avesse bisogno per qualche fine particolare», mentre «l’uomo di scienza, dato che vuole studiare la curva di per se stessa, suddividerà in maniera regolare i punti da osservare, e non appena ne conoscerà alcuni li unirà con un grafico regolare, e in tal modo otterrà la curva completa» (pp. 13-14).
L’uomo di scienza, non solo non «sceglie a caso i fatti che deve osservare” (p. 14), ma soprattutto non studia la natura per scopi utilitaristici:
«L’uomo di scienza non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché la natura è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena conoscerla, né varrebbe la pena vivere la nostra vita. Non intendo parlare, naturalmente, di quella bellezza che colpisce i sensi, della bellezza delle apparenze qualitative; non che la disdegni, tutt’altro, ma essa non ha nientea che vedere con la scienza. Intendo invece parlare di quella bellezza più riposta che deriva dall’ordine armonioso delle parti, e che può essere colta dalla pura intelligenza. Essa dà un corpo, uno scheletro per così dire, alle cangianti apparenze che deliziano i nostri sensi, e senza questo sostegno la bellezza di quei sogni fugaci non sarebbe che imperfetta, perché confusa e sempre fuggitiva» (p. 15).
Henri Poincaré, L’analisi e la fisica, in Id., Il valore della scienza, La Nuova Italia, 1984
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