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domenica 29 settembre 2019

Novità su Alzheimer: si può prevenire e perfino far regredire



Novità su Alzheimer: 


si può prevenire e perfino far regredire
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Non aspettatevi di sentirne parlare sui comuni mass media perchè, come si sa, tutte le notizie che mettono in discussione la farmacocrazia e i protocolli ufficiali sono tabù, o al massimo, se proprio non si può fare a meno di renderle pubbliche, vi si dedica un trafiletto in un angolino. A ciò si deve aggiungere un "fisiologico" ritardo nell'accettare una nuova eclatante scoperta da parte del sistema, che in questi casi  continua a ripetere come un disco rotto concetti ormai obsoleti a dispetto di ogni evidenza (ne ho portato un esempio in "Jurassic Park").

Sto parlando di quella che a buon diritto meriterebbe di essere considerata la notizia del secolo: la malattia di Alzheimer, la più terribile che possa capitare, quella che, isolando progressivamente e inesorabilmente dal mondo chi ne è colpito, priva di ogni significato la vita, rendendola inoltre particolarmente gravosa alle persone vicine che hanno l'onere di accudire il malcapitato, non è soltanto prevenibile (e già questo sarebbe da titoli cubitali) ma addirittura guaribile, e per giunta senza ricorrere ai soliti farmaci di sintesi.

Per la cronaca, attualmente ci sono 5,4 milioni di malati di Alzheimer solo negli USA (il 10% degli oltre sessantacinquenni e ben il 50% degli oltre ottantacinquenni!) e almeno 40 milioni in tutto il mondo, con una tendenza in costante aumento.

Già circa una ventina d'anni fa avevo appreso (per averlo letto su una dispensa di una ditta di integratori, mica sui giornali!) di un paio di casi in cui si era riusciti ad impedire l'aggravamento della condizione soltanto grazie all'uso delle portentose microalghe verde-azzurre Klamath per iniziativa del dr. Gabriel Cousens, un famoso medico naturopata americano. Da allora però non ho più avuto ulteriori notizie di approcci efficaci contro questa malattia e altre forme di demenza... fino a molto recentemente, quando sono state messe in rete due eccezionali serie di documentari, "Awakening from Alzheimer's" e "Broken Brains" (qualcosa di molto simile a quanto è stato realizzato per il cancro e i vaccini di cui ho già parlato), che fanno il punto della situazione grazie a una cinquantina di esperti, riportando e commentando tutte le più aggiornate conoscenze in fatto di salute mentale, soprattutto quelle di cui nessuno parla.

Questo ed altre notizie simili mi hanno rassicurato facendomi capire che questi anni non sono passati invano. Sì, è vero, avevo già affrontato l'argomento qualche anno fa, ma allora si parlava prudenzialmente e in modo piuttosto generico solo in termini di prevenzione, mentre oggi sappiamo che sono sempre più numerosi i casi di guarigione.

A testimoniarlo è soprattutto il dr. Dale Bredesen, Professore Ordinario di Neurologia e Direttore dell'Easton Center dell'UCLA (University of California, Los Angeles), uno dei centri di ricerca più prestigiosi al mondo. Nel suo best-seller "The End of Alzheimer's" (inspiegabilmente ancora non disponibile in italiano) parla delle sue esperienze  decennali nel campo del declino cognitivo e delle sue scoperte, partendo da uno studio rivoluzionario, il primo di questo genere pubblicato su una rivista specialistica, che ha fornito lo stimolo ad ulteriori  ricerche di più ampia portata attualmente in corso, dati i risultati eccezionali riscontrati:

Nove su dieci soggetti con morbo di Alzheimer sottoposti ad un originale protocollo personalizzato ideato da Bredesen hanno riportato miglioramenti sensazionali in un arco di tempo fra 3 e 6 mesi dall'inizio dell'esperimento, mentre uno solo, dato lo stadio troppo avanzato della sua malattia, ha continuato a peggiorare. Si deve inoltre considerare che tutti i partecipanti tranne uno erano geneticamente a rischio, a conferma che il profilo genetico sfavorevole non è determinante nello sviluppo di una malattia. Si tratta di risultati oggettivi confermati dalla risonanza magnetica quantitativa e dai test neuropsicologici e che, particolare ancora più importante, si sono mantenuti costanti nei due anni e mezzo successivi in cui sono stati monitorati.

L'eccezionalità di questo studio consiste anche nel fatto che i risultati sono stati raggiunti seguendo una strada completamente diversa da quella solita farmacologica. Il dr. Bredesen, e con lui molti altri, è infatti convinto che l'approccio convenzionale sia fondamentalmente fallimentare in quanto, partendo come sempre da una visione riduzionistica, è alla continua ricerca di una sola causa ben definita per poter poi intervenire su di essa con uno specifico farmaco, ma le varie forme di demenza sono condizioni particolarmente complesse che risultano dall' interazione di molti fattori eterogenei e non è un caso che tutti i farmaci finora sperimentati abbiano dato risultati più che modesti nel migliore dei casi.

Lo scienziato ha così individuato nell'infiammazione, nella nutrizione sbagliata e nella contaminazione da metalli pesanti le tre aree principali in cui cercare l'origine del declino mentale, cui si aggiungono altri fattori per un totale di 36. Considerato che tali fattori possono combinarsi in tanti modi, si deduce che per offrire una cura adeguata si devono prima accertare le cause specifiche in ogni paziente ed assegnargli un programma su misura che richiede necessariamente un profondo cambiamento nello stile di vita. Sembra proprio insomma che fattori quali iperglicemia, deficienze nutritive, intossicazioni varie, intestino disbiotico e iperpermeabile, allergie, abuso di farmaci, sonno inadeguato, stress, sedentarietà, scarsi stimoli mentali, compresa una vita sociale povera e poco gratificante (cioè, guarda caso, quasi tutti i fattori comuni a tutte le altre patologie degenerative) siano implicati in misura diversa a  seconda dei casi nel declino mentale, che invece  tutti considerano un destino tanto crudele quanto ineluttabile.

Purtroppo ancora oggi perfino medici e scienziati stentano parecchio a credere quanto tutto ciò che concerne lo stile di vita risulti determinante anche per la salute mentale, essendo condizionati da una concezione obsoleta della malattia e nella fattispecie da un' idea illusoria del cervello e delle sue interazioni e potenzialità. Ci è infatti sempre stato detto che il numero dei neuroni cerebrali di cui disponiamo alla nascita è sottoposto ad un inesorabile conto alla rovescia che vede morire ogni giorno migliaia di queste preziose cellule e, cosa ancora più grave, senza alcuna possibilità di rigenerazione. In realtà la ricerca più all'avanguardia ci dice che il cervello è una massa in continuo rimodellamento plastico e nella quasi totalità dei casi i neuroni non muoiono ma avvizziscono, rimpiccioliscono, si atrofizzano a causa dei danni subìti per le cause più disparate. Questo rende ragione delle modificazioni morfologiche del cervello tipiche della malattia di Alzheimer, che va incontro ad una riduzione di massa e volume, ma oggi sappiamo anche che questo processo può essere invertito.





Ma vediamo un pò di riassumere i punti fondamentali da sapere per migliorare la nostra consapevolezza su questa malattia, tenendo presente ovviamente che l'argomento è troppo vasto e articolato per essere trattato in un semplice post, che vuole solo dare una panoramica e uno stimolo ai lettori:

- E' da tempo noto che l'infiammazione è il comune denominatore alla base di tutte le patologie degenerative. In questo caso però si deve intendere l'infiammazione cronica latente, cioè quella che non dà i segni tipici dell'infiammazione acuta (rossore, gonfiore, dolore), che ha invece valenza positiva, essendo un meccanismo fisiologico di difesa.
L'infiammazione sub-clinica che, per il motivo appena detto passa del tutto inosservata, è in larga misura legata al tipo di dieta adottata: zuccheri semplici raffinati, cereali raffinati, troppi cibi animali di cattiva qualità (l'acido arachidonico in essi presente è un precursore delle prostaglandine infiammatorie), troppi acidi grassi omega 6 (che abbondano in quasi tutti gli oli industriali) in rapporto ai pochi omega 3 (di cui sono ricchi i pesci dei mari freddi non d'allevamento, gli unici cibi animali non infiammatori, e che scarseggiano nei vegetali) e anche il semplice mangiar troppo sono le principali cause;

- Anche l'iperglicemia e conseguente iperinsulinemia, strettamente legata alle diete moderne notoriamente straricche di zuccheri semplici e altri carboidrati raffinati, è fra i principali imputati. I diabetici hanno infatti molte più probabilità di ammalarsi di Alzheimer, che per questo si è guadagnato l'appellativo di "diabete 3".
L'eccesso di zucchero fa sì che alcune molecole di glucosio si leghino a proteine inattivandole, rendendole zavorra, spazzatura  cellulare (fenomeno molto comune conosciuto come "glicazione" alla base di molte malattie degenerative). Proteine degenerate che nella fattispecie sono responsabili dell'accumulo nel tessuto cerebrale della nota sostanza beta-amiloide tipica dell'Alzheimer che finisce così per creare danni ai neuroni e alle loro sinapsi (giunture fra due neuroni). L'insulina, diretta conseguenza dei suddetti eccessi, poi completa il quadro col suo effetto pro-infiammatorio;

- E' ormai risaputo lo stretto legame tra cervello e intestino, e quindi la loro influenza reciproca, avendo la scienza confermato, attraverso lo studio delle varie fasi dello sviluppo embriologico,  quanto la Medicina Tradizionale Cinese sapeva da secoli. Ecco dunque un validissimo motivo in più per preoccuparsi della qualità del microbiota, la nostra flora benefica intestinale. Potete immaginare la sua importanza sapendo che, nella comunicazione fra cervello e intestino, i messaggi provenienti dal microbiota diretti al cervello sono 400 volte più numerosi di quelli che dal cervello vengono inviati a tutto il corpo;

- Un altro fattore molto importante ma generalmente sottovalutato è il sonno, che deve essere della giusta quantità ma anche di qualità, intendendo con questo la durata della fase R.E.M., quella caratterizzata dall'attività onirica, dalla paralisi dei  muscoli volontari e da rapidi movimenti dei globi oculari, durante la quale si verifica un maggior afflusso di sangue al cervello, che così ha modo di ristorarsi;
- Anche l'equilibrio ormonale influenza la salute mentale, soprattutto l'attività della tiroide che ha ripercussioni negative sia quando è lenta che quando è eccessiva. Particolarmente drammatiche sono le conseguenze della tiroidite di Hashimoto (una malattia autoimmune), come racconta la d.ssa Isabella Wentz nel suddetto documentario, "Broken Brains", per averne fatto esperienza in prima persona;

- Non si può ovviamente dimenticare il contributo dei vari inquinanti ambientali, in particolare i metalli pesanti, i quali hanno il potere di inibire enzimi di vitale importanza e di contribuire all'infiammazione;

- E a proposito di intossicazione da sostanze chimiche, forse pochi sanno che anche molti comunissimi farmaci possono contribuire alle patologie mentali (se ne parla qui e qui);

- Infine, come ogni organo del nostro corpo, il cervello per conservarsi sano ed efficiente ha bisogno di essere tenuto regolarmente attivo con un'adeguata stimolazione e nutrito con emozioni positive riducendo al minimo lo stress. Da qui si evince anche l'importanza dei contatti sociali, specialmente se questi ci aiutano a migliorarci (un aspetto di solito trascurato nell'approccio medico tradizionale).

Ci sarebbe moltissimo da dire sulle ultime scoperte e sui suggerimenti e supplementi da adottare soprattutto in ambito preventivo, oltre alle indicazioni che scaturiscono da quanto abbiamo appena esaminato, e per ovvie ragioni ne farò solo un breve accenno, ma non è escluso che ci ritorni su per un approfondimento, magari in occasione della replica del documentario "Broken Brains" già annunciata per il prossimo gennaio dall'ideatore del progetto in persona, il dr. Mark Hyman, il medico straordinario che non ha più bisogno di presentazioni, essendomene occupato più di una volta (qui si può accedere ad una sua intervista al dr. Dale Bredesen).

Fra i vari antiossidanti, il più importante nel contrastare i micidiali radicali liberi (pesantemente implicati in questo tipo di patologie) è il glutatione, che il nostro corpo è in grado di sintetizzare, ma solo se ci sono le necessarie condizioni (quello preso oralmente non è efficace perchè viene digerito). Un modo per incrementarne la produzione è assumere un particolare probiotico dalle eccezionali proprietà, il Lactobacillus fermentum ME-3, che si trova in un prodotto che si chiama Reg' Activ . In alternativa si può considerare un prodotto a base di proteine di siero di latte, come suggerisce il dr. Fred Pescatore, uno dei massimi esperti in questo campo;

Non meno importante si è dimostrato uno speciale fungo medicinale conosciuto come "Criniera di leone", ben noto alla Medicina Tradizionale Cinese. Esso stimola, grazie alla sua particolarità di poter attraversare la barriera emato-encefalica, lo sviluppo dei dendriti, le peculiari arborizzazioni che caratterizzano la superficie dei neuroni permettendo loro di moltiplicare le connessioni con altri neuroni;





Occhio poi agli oligoelementi (fra questi il semisconosciuto e sottovalutato litio) e fra i supercibi vanno segnalati i mirtilli;

C'è infine chi crede ancora nella dieta chetogenica e raccomanda oltre a questa l'assunzione di olio di cocco, come la d.ssa Mary Newport e il dr. D'Agostino. Bisogna sapere infatti che nei disturbi cognitivi le cellule nervose perdono progressivamente la capacità di utilizzare il glucosio come fonte d'energia a causa della resistenza insulinica, ma possono sostituirlo coi corpi chetonici, composti derivati dai lipidi che si formano in abbondanza nelle diete che escludono gli zuccheri a favore appunto dei lipidi, cioè dei grassi. L'olio di cocco, coi suoi acidi grassi a catena media, stimolerebbe la produzione di questi corpi chetonici fino a una concentrazione sufficiente ad essere utilizzati dal cervello.

Su questa teoria comunque ci sarebbe molto da discutere, essendo dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio l'importanza imprescindibile dei carboidrati complessi provenienti soprattutto dai creali integrali nella dieta umana, ma evidentemente c'è ancora chi non vuol distinguere fra carboidrati e carboidrati. Con questo voglio dire che non ha molto senso prevenire, o anche curare l'Alzheimer (ammesso che ci si riesca solo con questa strategia) per poi candidarsi ad altri problemi futuri.

Se c'è infatti un messaggio che si può estrapolare da tutto quanto è stato detto fin qui è che ogni organismo vivente è un tutt'uno integrato, un sistema formato da tante componenti interagenti fra di loro all'unisono che a sua volta interagisce col contesto ecologico in cui vive. Insomma tutto è interconnesso e interdipendente e cercare di focalizzarsi  intervenendo su una sola funzione senza preoccuparsi del suo significato e delle implicazioni sull'equilibrio generale è sempre molto rischioso. Inoltre è chiaro che è il nostro stile di vita il vero responsabile del nostro stato di salute e che i fattori di rischio della malattia di Alzheimer sono praticamente gli stessi per tutte le forme di demenza senile ed altre patologie degenerative, come cancro e malattie cardiovascolari. Ma per la medicina ufficiale tutto ciò che porta alla malattia (seppure viene ufficialmente riconosciuto come causa) e la cura sono due cose distinte e separate. Ciò che colpisce è l'assoluta incapacità (o mancanza di volontà) di vedere nelle più comuni condizioni degenerative una sola grande causa, data la visione della realtà suddivisa in compartimenti stagni che contraddistingue la medicina moderna. La sua sola ossessione è scoprire quanti più particolari di un mosaico che poi non sa comunque ricostruire, cui seguono definizioni e classificazioni senza fine. Definizioni e paroloni che tuttavia non ci dicono niente sul significato e le cause di un disturbo e dunque non ci aiutano a capire il modo migliore per affrontarlo ma, bisogna riconoscerlo, sono funzionali alla logica del sistema che mira a propinarci un farmaco specifico per ogni problema o sintomo.

L'Alzheimer però, contrariamente ad altre malattie degenerative in cui il controllo dei sintomi può dare l'illusione di aver conseguito un successo, è troppo complesso per lasciarsi vincere seguendo il solito criterio. Esso sancisce così definitivamente il fallimento dell'approccio frammentario e specialistico alla malattia.

E pensare, ironìa della sorte, che una trentina d'anni fa la moglie del suddetto Prof. Bredesen (medico di famiglia) a proposito dell'Alzheimer aveva detto a quest'ultimo: "Andrà a finire che si scoprirà che ha a che fare con l'alimentazione, il sonno e il modo in cui si tratta il cervello". Ma il neurologo non dette peso a quelle parole rispondendo, da bravo scienziato razionalista, che lui era invece sicuro che prima o poi si sarebbe trovata un'area del cervello, una molecola, un meccanismo chiave che avrebbe chiarito l'enigma consentendo la messa a punto di un farmaco ad hoc.

Parole profetiche, a quanto pare.

Michele Nardella

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