Miguel Mañara, lo sconvolgente don Giovanni di Milosz. Appunti di Andrea Lonardo
Mettiamo a disposizione sul nostro sito alcuni appunti di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2015)
Siviglia, Facciata dell'Ospedale della
Carità, costruito da Miguel Mañara
«Una sera la lussuria dallo sguardo vile e dalla fronte sfuggente sedette al mio capezzale e mi fissò in silenzio, come si guardano i morti».
Così dichiara Miguel Mañara, confessando di avere fatto sesso con tante donne ma di provare ora solo noia e disprezzo per la propria vuota esistenza. Il Miguel Mañara è una sconvolgente quanto breve opera teatrale pubblicata dallo scrittore lituano Oscar V. Milosz nel 1912[1].
Si ispira ad un personaggio reale, vissuto nel seicento a Siviglia, in Spagna, ma le parole che Milosz gli pone sulle labbra combinano storia vera e rilettura del don Giovanni, figura eterna e sempre cangiante dell’immaginario umano.
L’opera teatrale si divide in sei quadri.
Nel primo quadro la scena si apre durante una cena offerta nel 1656 per festeggiare il compleanno di Miguel Mañara.
Parla per primo don Jaime che irride al cristianesimo, affermando che non gli importa nulla della fede, ma solo del piacere del cibo e del vino:
«È vero che, se Bacco Nostro Signore non mi annebbia il cervello, siamo nel periodo santo della Quaresima. E allora digiunate, per tutti i diavoli, digiunate pure, voi disgraziati, fino a che le vostre ossa di figli di cagna vi buchino la pelle come fossero zanne cariate del vostro cattolico digiuno! Ma, per Maometto, a casa mia ci si deve poter abbuffare e ubriacare come in qualsiasi altro periodo dell’anno»[2].
Don Jaime interroga poi Miguel Mañara sui piaceri del sesso, facendo eco al Catalogo delle donne del Don Giovanni di Mozart:
«Don Jaime: Dimmi, ragazzo, quante duchesse hai sulla coscienza?
Molte voci: Sì, sì! Quante duchesse di corte?
Don Miguel: Sei.
Don Jaime: E quante marchese d’alto rango?
Don Miguel: Sette, otto o nove, se Eros mio Signore non m’inganna.
Don Jaime: E ragazze di nobile famiglia? E giovincelle di borgata?
Don Miguel: Tra sessanta e cento, mi pare. Non ho preso nota di tutte.
Don Jaime: E sgualdrinelle?
Don Miguel: Ne ricordo una che mi amò veramente, e che veramente morì disperata»[3].
Ma ecco che d’improvviso Don Miguel, che ha invocato Eros come suo Signore, spiazza tutti, rivelando che, pur essendo un miscredente, ha perso ormai il piacere. Nella coazione a ripetere sesso e ancora sesso ha perso ogni gusto. Ha perso Satana o, forse, Satana lo ha ormai disgustato. Ha compreso l’inconsistenza di una vita senza senso, tesa a sempre nuove conquiste, una più vuota dell’altra:
«Son lieto, signori, di vedere che mi amate così di buon cuore; e mi commuove davvero l'augurio così cordiale di vedermi bruciare anima e corpo di una fiamma nuova, assai lontano da qui. Vi giuro sul mio onore e sulla testa del vostro Papa che l'inferno di cui cianciate non esiste, che non è mai bruciato altro che nella testa di un Messia folle o di qualche monaco malvagio. Ma noi sappiamo che nello spazio orfano di Dio esistono terre illuminate da una gioia più ardente della nostra, pianeti ignoti e meravigliosi, lontani, infinitamente lontani dal nostro. E allora vi scongiuro, scegliete uno di questi remoti mondi incantati e speditemi laggiù questa notte stessa, attraverso il varco famelico del sepolcro. Perché il tempo scorre lento, signori, spaventosamente lento, e io sono inspiegabilmente stanco di questo schifo di vita. Non conquistare Dio è cosa da niente, si sa; ma vi assicuro che perdere Satana è pena immensa e noia senza fine.
Ho trascinato l'Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte; fui traditore, bestemmiatore, carnefice; ho fatto tutto quello che un povero diavolo d'uomo può fare, e guardate: ho perso Satana! Satana mi ha abbandonato. Ora mastico l'erba amara sullo scoglio della noia. Ho servito Venere con ira, poi con malizia, infine con ribrezzo. Oggi la strozzerei sbadigliando. E non lo dico per vanità. Non sto recitando la parte del carnefice senza cuore. Ho sofferto, ho sofferto anch'io. L'angoscia mi ha chiamato con un cenno, la gelosia mi ha parlato sottovoce, la pietà mi ha stretto alla gola. Anzi, è allora che ho provato i meno falsi dei miei piaceri»[4].
E descrive l’esperienza che ha provato una sera, ormai stanco di tante donne incontrate ed ingannate:
«E una sera la lussuria dallo sguardo vile e dalla fronte sfuggente sedette al mio capezzale e mi fissò in silenzio, come si guardano i morti»[5].
Il ricordo di quella sera diventa un grido, si muta in domanda sulla vita, per capire cosa fare del tempo che inesorabilmente passa, mentre il cuore non si accontenta di nessun piacere che sia passeggero:
«Ah, come colmarlo, quest’abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più saldo, più furibondo che mai. È come un mare di fuoco che alita la sua vampa fino al fondo del nero nulla universale! È un desiderio di abbracciare le infinite possibilità! Ah, signori! Che facciamo qui, noi? Cosa guadagniamo, qui?»[6].
Sentendolo parlare, un amico, Don Fernando, esce allo scoperto ed ha il coraggio di accusarlo del male che ha fatto, ha il coraggio di esporlo alla verità. Nella durezza dell’accusa, Don Fernando si dimostra l’unico che ha a cuore la vita di Miguel Mañara, l’unico che si accorge del dramma che l’amico sta vivendo:
«Potrei darti una tirata d'orecchi, monello; invece mi accontento di ripeterti: sei un vigliacco e un traditore! Perché chiunque faccia soffrire una donna o la inganni è un vigliacco e un traditore. E chiunque desideri la donna d'altri è un vile scellerato. E chiunque rubi all'ultima delle contadinotte il tesoro prezioso della verginità e poi l'abbandoni alla solitudine e al disprezzo, chiunque compia un'azione così è un cane e come un cane deve morire. Tu non sei un gentiluomo, Miguel: tu sei un cane»[7].
Infine si para dinanzi a Don Miguel l’Ombra della sua vita passata che gli dice:
«Guai, guai all’uomo cosciente che, cieco alla bellezza di Dio, consapevolmente preferisce il vuoto della noia ai tormenti della passione e i tormenti della passione al vuoto della noia!»[8].
Nel secondo quadro Don Miguel è nel giardino di Carillo de Mendoza dove conosce la figlia Girolama. La donna è diversa da tutte le donne che Don Miguel ha fin qui incontrate. Quando Miguel Mañara le chiede perché non si faccia ancora più bella ornandosi il capo di fiori la donna esclama:
«Perché non mi piacciono le ragazze che ne fanno un ornamento, come fossero seta o pizzo o piume colorate. Io non metto mai fiori tra i capelli (sono già belli così, grazie a Dio!). I fiori sono begli esseri viventi, e bisogna lasciare che vivano e che respirino l'aria del sole e della luna. Io non colgo mai i fiori. Si può benissimo amare a questo mondo senza aver subito la smania di uccidere il proprio caro amore, o di imprigionarlo tra i vetri, oppure, come si fa con gli uccelli, in una gabbia in cui l'acqua non ha più il gusto dell'acqua e i semi d'estate non hanno più il gusto dei semi»[9].
Quella donna è serena e la sua serena felicità si scontra con l’irrequieta tristezza di Don Miguel:
«Sembrate sorpreso di vedermi così felice. Non biasimatemi se ho l’animo e il cuore sereni: non trascuro nessuno dei miei doveri»[10].
Quando Miguel apre a lei il suo cuore, rivelandole le sue malefatte con tante donne, come le abbia sedotte e poi abbandonate, lei risponde:
«Ma tutte sapevano di fare del male amandovi, e anche solo lasciandosi amare. Perché nessuna di loro aveva ricevuto da voi il giuramento, il grande giuramento per l’eternità, don Miguel; perché nessuna di loro aveva ricevuto da voi l’anello, l’anello che unisce due anime per sempre, don Miguel. Tutte loro sapevano perfettamente quel che facevano: sì, tutte!»[11].
Dinanzi alla semplice bontà della donna, Don Miguel comprende che esiste la possibilità di una vita diversa:
«Che cos’ho fatto della mia vita? Che mai ho fatto del mio cuore? Perché non ho scoperto prima di avere un cuore buono? Mi perdonerete?»[12].
Don Miguel, conquistato dalla donna, infine ottiene il suo assenso al matrimonio. Ma presto Girolama muore e nel terzo quadro si celebra il suo funerale.
Nel quarto quadro Miguel Mañara dialoga con un abate, al Convento de la Caridad, decidendo infine di confessare i suoi peccati a Dio, spinto dal dolore per la morte di Girolama:
«Non ho lavorato i sei giorni della settimana. Niente, ho fatto. E la domenica il mio lavoro è stato bestemmiare e sputare contro la terra e contro Dio.
Non ho onorato il padre e la madre. Mio padre mi ha maledetto, mia madre è morta di crepacuore.
Ho mentito. Mille volte ho detto «ti amo», mentre tutto il mio essere rideva di un riso malvagio. E il mentitore può ritrattare le sue menzogne; io, io come posso rimangiarmi le mie?
Ho rubato. Ho violato l'innocenza. Ma il peccatore pentito può restituire il maltolto; io invece, io non posso rendere nulla.
Ho ucciso. E le mie vittime stanno di fronte a Dio nere del mio peccato e sporche della loro lussuria, che poi è ancora la mia.
Ho desiderato la dimora del mio prossimo, ho appiccato il fuoco della mia concupiscenza alla casa del mio prossimo. Ed è una casa che non si ricostruisce con i soldi.
Io ho fatto tutto questo. Ho fatto tutto questo, padre.
Pausa.
E a questo punto a una svolta della mia strada sciagurata è comparsa una donna. Era serena come l'acqua che sogna, bella come il miele che riluce, innocente come un bimbo che sorride. È lei che mi ha parlato di Dio e mi ha insegnato a pregare. La sera io ripetevo come un bimbo le parole delle sue preghiere. Il suo nome è Girolama, padre. Girolama Carillo Mendoza è il nome di mia moglie, padre»[13].
Don Miguel vorrebbe rinchiudersi in convento, ma l’abate lo frena:
«L'amore e la precipitazione si fanno cattiva compagnia, Mañara. La misura dell'amore è la pazienza. Con un passo uguale e sicuro, ecco come cammina l'amore, sia che proceda fra due siepi di gelsomino al braccio di una ragazza, sia che avanzi da solo tra due file ordinate di tombe. Pazienza. Voi non siete venuto qui, signore, per tormentarvi. La vita è lunga, qui. Occorrono un'infanzia e un'educazione, una giovinezza e un insegnamento, una maturità curiosa del giusto peso delle cose e una lenta vecchiaia innamorata della tomba. Con che prudenza dobbiamo muoverei allora!»[14].
Nel quinto quadro Miguel Mañara si è fatto frate per servire i poveri. Ha ormai deciso di vivere nel Convento de la Caridad come fratello, servendo Dio e i poveri.
Nel sesto quadro giunge la morte. Uno Sconosciuto, che si rivela essere poi lo Spirito della Terra, gli rivela non solo che la sua vita è giunta al termine, ma lo tenta un’ultima volta, affermando che tutto è illusione:
«Fermati. Il gioco è durato anche troppo. Ogni cosa ha fatto il suo tempo. Non andremo più a portare quel pane ai bambini, né quella ciotola nuova a Pablo Perez, il nostro bel violinista cieco. Ogni cosa ha fatto il suo tempo, Mañara. C'è un tempo per la giovinezza e uno per la vecchiaia. Poi viene la morte. Così parla lo Spirito della Terra.
Lo Spirito: lo sono colui che è. Sono il cuore della Terra. Tutto il resto è illusione. Come il bel ladro stringe fra le braccia la prostituta sperduta, così io stringo al petto la calda terra»[15].
Miguel resiste però al vuoto che ancora una volta gli viene proposto dallo Spirito della terra e, sentendosi morire, inizia a pregare con i Salmi.
E quando lo Spirito del Cielo lo chiama, egli semplicemente gli risponde:
«Eccomi»[16].
E quando il frate giardiniere lo trova morto in terra esclama:
«Ora sono in mezzo ai vivi come il ramo nudo il cui rumore secco incute timore al vento della sera. Ma il mio cuore è gioioso come il nido che ricorda e come la terra che spera sotto la neve. Perché io so che tutto è dove deve essere e va dove deve andare: al luogo assegnato da una sapienza che (il Cielo ne sia lodato!) non è la nostra»[17].
Il volume, curato da Franco Nembrini, si conclude con una nota biografica su Miguel Mañara[18]:
Lapide sepolcrale posta all'ingresso dell'Ospedale
de la Caridad per essere calpestata da tutti,
con l'invito a pregare per Miguel Mañara
che fu il peggiore uomo che sia stato al mondo
Miguel Mañara Vicentelo de Leca - breve nota biografica
Miguel Mañara Vicentelo de Leca nasce a Siviglia il 3 marzo del 1627, penultimo dei dieci figli di Tomàs Mañara Leca Colona e Jerónima Anfriano Vicentelo. Entrambi discendono da famiglie originarie della Corsica, di ascendenza aristocratica ma arrivate in Spagna - annota un cronista dell'epoca - «senza altra risorsa che la nobiltà». Il padre però fa fortuna con i commerci con le Americhe, e al tempo della nascita di Miguel la famiglia è fra le più ricche di Siviglia; i denari di Tomàs riescono a valorizzare gli antichi titoli di nobiltà, così a otto anni il piccolo Miguel viene insignito del titolo di cavaliere di Calatrava, uno dei tre prestigiosi ordini cavallereschi di Spagna. La famiglia Mañara però è nota in Siviglia non solo per la sua ricchezza ma anche per la religiosità e la generosità: regolarmente Tomàs elargisce ricche elemosine ai numerosi monasteri e istituzioni caritative della città, e nel testamento dispone che, se dovesse morire senza eredi, tutti i beni della famiglia vadano a opere di carità.
Poco sappiamo della giovinezza di Miguel. Le testimonianze sono concordi nel presentarlo come un giovane altezzoso, arrogante, avventato. «Prima della sua conversione - è la testimonianza di un nipote all'apertura del processo di canonizzazione - fu l'uomo più superbo, temerario e collerico che si possa immaginare; turbolentissimo, tanto che non si sentiva parlare d'altro che delle liti e delle sfide in cui si quotidianamente si cacciava». Orgoglioso e altero come era naturale per un ricco cavaliere spagnolo, dunque; però nessuna testimonianza conferma l'immagine, nata con tutta probabilità dalla sovrapposizione col mito di Don Giovanni, di donnaiolo impenitente - anche se è verosimile che le sue avventure le abbia avute - e di sacrilego blasfemo. Anzi, aveva un vero e proprio terrore della morte - tanto che cercava in ogni modo di evitare i funerali, e la vista di una bara lo metteva in agitazione al punto da non dormire la notte - e il suo nome compare regolarmente nel registro delle confessioni della sua parrocchia. «Vive in un'epoca di contrasti - osserva un biografo moderno - in cui la leggerezza dei costumi si trova facilmente unita a una fede tradizionale, profonda e a volte teatrale»[19].
Nel 1648 sposa Jerónima Carrillo de Mendoza, figlia di una ricca famiglia aristocratica; lei ha vent’anni, lui uno di più. Negli anni successivi prosegue il suo tenore di vita di ricco gentiluomo; ma l’influsso della moglie, profondamente religiosa, lo rende sempre più consapevole della vanità del fasto e della pompa, si fa più serio, e viene anche eletto tra gli amministratori della città.
Nel 1661, quasi improvvisamente, Jerónima muore, e Miguel tocca definitivamente con mano la caducità delle cose umane. Per qualche giorno si ritira in preghiera in solitudine, sulle montagne; poi bussa alla porta di diversi conventi della città, ma tutti sono timorosi di accogliere un uomo noto per la sua superbia e la sua arroganza. Infine si imbatte in alcuni membri della Carità, una confraternita di laici ed ecclesiastici che si sono dati il compito di raccogliere gli ammalati per le strade e portarli negli ospedali, di accompagnare i condannati a morte e di dar sepoltura agli annegati e ai poveri che non possono permettersi un funerale, nonché di far celebrare delle Messe per le anime di costoro.
La richiesta di ammissione di Miguel viene accolta non senza molte esitazioni; da questo momento però e fino alla morte spenderà tutta la vita per i «nostri signori, i poveri», e il suo comportamento è tale che già l'anno successivo viene eletto superiore della Confraternita. In questo ruolo raccoglie i fondi e dirige i lavori per la costruzione prima di un ricovero per la notte, poi di una chiesa e infine di un ospedale, e passa le sue giornate tra i ricoverati o in giro per le strade a portare elemosine e a cercare chiunque abbia bisogno di assistenza. Poco a poco vende quasi tutti i suoi beni, e la forza del suo esempio è tale che molti membri delle famiglie più in vista della città entrano a loro volta nella Confraternita, vi contribuiscono con i loro patrimoni e condividono almeno in parte la sua vita.
Ma le privazioni, i digiuni, le veglie minano ben presto il fisico di Miguel. Nella primavera del 1679 - ha cinquantadue anni - le sue condizioni peggiorano, finché il 9 maggio rende l’anima a Dio. La folla che accorre per venerare la salma è tanta che occorre far intervenire delle guardie. Il testamento è un inno alla misericordia di Dio (e probabilmente a queste righe, che riflettono più la straordinaria umiltà di Miguel che la realtà, si è ispirato Milosz per dipingere il suo personaggio): «Io, don Miguel Mañara, cenere e polvere, sciagurato peccatore, che per la maggior parte dei miei giorni malvissuti ho servito Babilonia e il demonio, suo principe, con mille atti abominevoli e superbi, con adulteri, bestemmie, scandali e furti, i cui peccati e le cui malefatte sono senza numero, e solo la grande sapienza di Dio può contarli, la sua infinita pazienza sopportarli, la sua infinita misericordia perdonarli».
E così si conclude: «È mia volontà che sulla mia tomba sia posta una lapide con incise queste parole: Qui giacciono le ossa del peggior uomo che sia stato al mondo. Pregate Dio per lui».
La Chiesa oggi lo considera venerabile».
Note al testo
[1] Per leggere l’opera con un entusiasmante commento, cfr. Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014.
[2] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 177.
[3] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 178.
[4] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 179.
[5] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 180.
[6] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 180.
[7] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 181.
[8] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 183.
[9] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 186.
[10] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 187.
[11] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, pp. 187-188.
[12] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 189.
[13] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 198.
[14] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 201.
[15] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 214.
[16] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 216.
[17] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, p. 216.
[18] Milosz O.V., Miguel Mañara, commentato da Franco Nembrini, Centocanti S.r.l., Bergamo, 2014, pp. 219-221.
[19] Francisco Martin Hernández, Miguel Mañara,Publicaciones de la Universidad de Sevilla, 1980. Da questo testo abbiamo attimo tutte le notizie e le citazioni della presente nota biografica.
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