L SUO RAPPORTO CON LA FEDE
Il concetto di esperienza
Innanzitutto, occorre allargare il concetto di esperienza rispetto a come viene comunemente inteso, per poterne cogliere pienamente la centralità nella proposta educativa di Giussani, in totale immanenza alla tradizione della Chiesa. Non a caso, ne Il rischio educativo, egli attribuisce al legame con la tradizione un ruolo fondamentale, indispensabile per l’educazione, senza del quale restiamo inevitabilmente – sono parole sue – «in balia delle forze più incontrollate dell’istinto [della nostra reattività] e del potere»4 di turno. Che all’esperienza sia riconosciuto un ruolo fondamentale, questo è chiaro fin dall’inizio (siamo nella seconda metà degli anni Cinquanta). È nota l’insistenza Giussani sia sul cristianesimo come esperienza, incontro, Fatto,sia sull’esperienza come luogo della verifica della proposta cristiana. In anni successivi, l’esperienza è chiaramente sottolineata come necessario punto di partenza di ogni autentica conoscenza («l’uomo non può partire che dall’esperienza, che è il luogo dove la realtà emerge», «si fa conoscere». Sul tema dell’esperienza, in una lettera a Giussani del 1963, l’allora cardinale Montini esprime alcune trepidazioni: «Alludo specialmente all’esperienza cristiana come fonte della verità cristiana; come metodo pedagogico può anche andar bene, se un maestro lo guida e sa poi mettere a posto, anche nella mente dei giovani, la scala obbiettiva delle verità e dei valori: ma quel primato dell’esperienza, teorizzato come assoluto, non è ammissibile; e seguaci inesperti del metodo possono darvi espressione dottrinale inesatta».8 Montini formula la sua preoccupazione riportando posizioni che vengono da taluni attribuite a Giussani, anche se non sono sue. Pochi mesi dopo aver ricevuto la lettera, Giussani risponde alla preoccupazione di Montini con un libretto intitolato L’esperienza, che ottiene l’imprimatur di monsignor Carlo Figini, il censore della diocesi ambrosiana. Si tratta di poche pagine, ma densissime. Nel 1964, ne viene ripubblicata una parte in Appunti di metodo cristiano, quella relativa all’esperienza cristiana, mentre ne Il rischio educativo (1977) il testo viene ripubblicato per intero con il titolo Struttura dell’esperienza. Giussani vi propone la sua concezione di esperienza e al tempo stesso compie una duplice critica: dice no alla riduzione dell’esperienza a un provare senza giudizio, e dice no alla riduzione intimistica, interioristica, soggettivistica dell’esperienza, vale a dire alla riduzione protestante e modernista. Sul primo versante della critica, Giussani osserva : «Quello che caratterizza l’esperienza non è tanto il fare, lo stabilire rapporti con la realtà come fatto meccanico: è l’errore implicito nella solita frase “fare delle esperienze” ove “esperienza” diventa sinonimo di “provare”. Ciò che caratterizza l’esperienza è il capire una cosa, lo scoprirne il senso. L’esperienza quindi implica intelligenza del senso delle cose. E il senso di una cosa si scopre nella sua connessione con il resto, perciò esperienza significa scoprire a che una determinata cosa serva per il mondo».Don Giussani elabora una nozione di esperienza in cui l’esperienza non ha il giudizio fuori di sé (come a dire: c’è l’esperienza e “poi” c’è il giudizio), ma lo contiene, lo implica, è caratterizzata da esso. Il giudizio è parte integrante dell’esperienza. Ne Il senso religioso scrive: «L’esperienza coincide, certo, col “provare” qualcosa, ma soprattutto coincide col giudizio dato su quel che si prova».In altri contesti dice anche che l’esperienza è un «provare giudicato».Fin qui il riferimento è all’esperienza in generale.
L’esperienza cristiana
Il secondo versante della critica (il no alla riduzione soggettivistica dell’esperienza) viene sviluppato nella seconda parte del libretto del 1963, dove Giussani mette a tema l’esperienza cristiana. I passaggi dedicati al tema sono talmente essenziali, espressi in modo così chiaro e sintetico, che vale la pena citarli per intero. «L’esperienza cristiana ed ecclesiale emerge come unità d’atto vitale risultante da un triplice fattore:
a) L’incontro con un fatto obiettivo originalmente indipendente dalla persona che l’esperienza compie; fatto la cui realtà esistenziale è quella di una comunità sensibilmente documentata così come è di ogni realtà integralmente umana; comunità di cui la voce umana dell’autorità nei suoi giudizi e nelle sue direttive costituisce criterio e forma. Non esiste versione dell’esperienza cristiana, per quanto interiore, che non implichi almeno ultimamente questo incontro con la comunità e questo riferimento all’autorità.
b) Il potere di percepire adeguatamente il significato di quell’incontro. Il valore del fatto in cui ci si imbatte trascende la forza di penetrazione dell’umana coscienza, richiede pure un gesto di Dio per la sua comprensione adeguata. Infatti lo stesso gesto con cui Dio si rende presente all’uomo nell’avvenimento cristiano esalta anche la capacità conoscitiva della coscienza, adegua l’acume dello sguardo umano alla realtà eccezionale cui lo provoca. Si dice grazia della fede.
c) La coscienza della corrispondenza tra il significato del Fatto in cui ci si imbatte e il significato della propria esistenza – fra la realtà cristiana ed ecclesiale e la propria persona –, fra l’Incontro e il proprio destino. È la coscienza di tale corrispondenza che verifica quella crescita di sé essenziale al fenomeno dell’esperienza». Il triplice fattore indicato ci mette di fronte alla concezione che Giussani ha dell’esperienza cristiana, che la sottrae alle riduzioni richiamate. Dunque, ricapitolando, senza l’uno o l’altro di questi fattori, l’incontro con un fatto obiettivo (comunità e autorità), la percezione del significato del fatto (grazia della fede), la coscienza della corrispondenza tra il Fatto, la realtà cristiana ed ecclesiale e la propria persona (quindi la verifica), non si può parlare di «esperienza cristiana», perché sarebbe compromessa la sua integralità e autenticità.
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