martedì 10 aprile 2012
Passata bene la Pasqua,
cari amici? Bene, ora vi faccio arrabbiare un po’ allora. Venerdì,
infatti, Bankitalia ha diramato il suo bollettino mensile e le notizie
in esso contenute fanno veramente tremare le vene ai polsi. Nuovo colpo
di freno delle banche ai prestiti a famiglie e imprese, mentre tornano
ad aumentare i depositi da parte dei correntisti e vola la raccolta
bancaria sul mercato: a febbraio i prestiti hanno segnato un +1,3%,
tasso minimo da almeno un anno e la raccolta un +0,5%, in positivo dopo
quattro mesi di rosso (vuoi dire che l’obbligo di aprire un conto per
poter ricevere la pensione ha inciso un pochino in favore degli
istituti?). A febbraio è rallentato l’aumento dei prestiti ai privati:
il tasso di crescita sui dodici mesi, corretto per tener conto delle
cartolarizzazioni cancellate dai bilanci bancari, è diminuito all’1,3%
dall’1,7% di gennaio.
Nel rendere nota la notizia, Bankitalia
spiega che il rallentamento è dovuto principalmente alla diminuzione del
tasso di crescita dei prestiti alle società non finanziarie (0,9%o
dall’1,4% di gennaio), mentre il tasso di crescita dei prestiti alle
famiglie flette in misura leggermente inferiore (2,7% dal 3,1%): e ti
pareva! In compenso, salgono a febbraio i tassi di interesse sui mutui
per l’acquisto di case erogati alle famiglie.
Lo rileva sempre Bankitalia, fonte non
tacciabile di parzialità: «I tassi d’interesse, comprensivi delle spese
accessorie, sui mutui per l’acquisto di abitazioni erogati nel mese di
febbraio alle famiglie sono aumentati lievemente al 4,61% dal 4,55% del
mese precedente, mentre quelli sulle nuove erogazioni di credito al
consumo sono aumentati al 10,10% dal 9,91% di gennaio. I tassi passivi
sul complesso dei depositi in essere sono pari all’1,19% (1,16% a
gennaio)». E ancora: «A febbraio, i tassi d’interesse sui nuovi prestiti
erogati alle società non finanziarie sono diminuiti al 3,80% dal 4,06%
di gennaio. La diminuzione è guidata dai tassi sui prestiti di importo
superiore a 1 milione di euro (che scendono al 3,09% dal 3,47% del mese
precedente) mentre i tassi sui prestiti di importo inferiore a tale
soglia scendono in misura minore (4,96% dal 5,01% di gennaio)».
Ma c’è di più. Sempre per Bankitalia, le
sofferenze bancarie sono in calo: «A febbraio, il tasso di crescita sui
dodici mesi delle sofferenze - senza correzione per le
cartolarizzazioni, ma tenendo conto delle discontinuità statistiche - è
diminuito al 16,6% rispetto al 17,9% del mese precedente». In compenso,
in caso di un “rosso” di due giorni sul conto per la fantascientifica
somma di 151 euro, potreste vedervi costretti a pagare 40 euro. Già,
succede anche questo nella giungla delle commissioni sullo scoperto,
abrogate per legge nel 2009 ma che gli istituti di credito continuano ad
applicare sotto altra denominazione. La denuncia è stata fatta
dall’associazione Altroconsumo, in un’audizione in commissione Industria
del Senato: l’audizione è avvenuta nell’ambito dell’esame del decreto
del governo che reintroduce le commissioni bancarie, abrogate dallo
stesso Senato grazie a un emendamento inserito nel decreto
liberalizzazioni.
Poi, entriamo nel girone infernale.
Sempre da Palazzo Koch ci fanno sapere che i finanziamenti alle banche
italiane da parte della Bce sono saliti a marzo a oltre 270 miliardi di
euro dai 194,8 miliardi di febbraio, un aumento mese su mese del 39% e
del 776% annualizzando il dato come conferma la riga nera del grafico
qui sotto.
Ma che diavolo hanno combinato negli
anni del boom le nostre banche per essere ridotte in questo modo? Di
più, allargando la visuale al contesto Ue: le banche dell’eurozona hanno
incassato una plusvalenza del 13% sui titoli di Stato italiani nel
periodo tra l’annuncio del primo maxi-prestito della Bce l’8 dicembre
scorso e la fine del primo trimestre dell’anno, secondo quanto scriveva
ieri Bloomberg. Nello stesso periodo i titoli di Stato della Spagna
hanno generato un ritorno del 6%.
Credit Agricole calcola che grazie al
sostegno dell’Eurotower, compresi i prestiti a breve alle banche, gli
istituti di credito europei hanno acquistato più di 250 miliardi di
titoli di Stato italiani e spagnoli tra il terzo trimestre del 2011 e il
primo trimestre di quest’anno. Un enorme schema Ponzi globale a nostre
spese e sponsorizzato dal grande bancomat di Francoforte! Ora, avrà
altro da dire il buon Giuseppe Mussari, capo dell’Abi, alla luce di
questo schifo? Oppure quel Renato Pagliaro, presidente di Mediobanca,
secondo cui «le banche non hanno il dovere di erogare credito e nessuno
ha il diritto di avere credito»? Nemmeno voi dalla Bce a tassi ridicoli,
caro il mio Pagliaro? Vien voglia di tornare indietro di una ventina
d’anni, prima della riforma Amato, ma al di là del livello da Repubblica
delle banane del nostro settore bancario, è un altro il dato contenuto
nel report di Bankitalia che trascende il mero valore contabile e
investe in pieno l’ambito politico: scendono infatti le riserve
ufficiali di Bankitalia, con un calo di oltre 5,5 miliardi fra i 140,722
miliardi di fine febbraio e i 135,179 miliardi di fine marzo.
A scendere, in particolare, sono state
le riserve in oro, diminuite in valore di 5,669 miliardi a 98,123
miliardi al 31 marzo 2012. Si vendono l’oro e senza dire niente ai
cittadini! Dov’è finito quell’oro: venduto ai russi o ai cinesi, avidi
compratori di riserve auree in questo momento? Oppure è andato in pegno
alla Bce come collaterale di qualcosa, su richiesta della Bundesbank
sempre più terrorizzata dalle perdite potenziale del programma Target 2?
Una cosa è certa, l’operazione non nasce dall’emergenza. Lo scorso
novembre, infatti, fecero scalpore per qualche ora le dichiarazioni del
presidente della Commissione parlamentare per l’Europa del Parlamento
tedesco, Gunther Krichbaum, in un’intervista al quotidiano “Rheinischen
Post”: per ridurre il debito pubblico, l’Italia deve mettere in vendita
una parte delle riserve auree.
La singolare proposta giunse dopo il
netto no della Germania alla richiesta di vari Stati europei di un
utilizzare le riserve auree della Banca centrale tedesca a ulteriore
garanzia del cosiddetto Fondo salva Stati (Efsf) nel caso in cui la
situazione economico-finanziaria peggiorasse. Pochi giorni dopo, si unì a
questo coro anche Michael Fuchs, vicecapogruppo della Cdu, il partito
di Angela Merkel, che al Bundestag tuonò: «Gli italiani devono mettere a
posto i conti, quindi o portano a termine le privatizzazioni oppure
vendono le loro riserve di oro». Un’opinione sottoscritta anche da Frank
Schaeffler, dell’Fdp, che considerava «necessario» che gli Stati
indebitati «vendano parte del loro oro o lo depositino a garanzia presso
la Banca centrale europea». E l’Italia può in effetti contare su quasi
2.500 tonnellate di oro, la quarta riserva al mondo dopo Usa, Germania e
il Fondo monetario internazionale, per un valore stimato intorno ai 102
miliardi di euro. In questo senso, la vendita del 20% del totale
detenuto coprirebbe l’esborso richiesto dagli accordi internazionali.
Peccato che questo sarebbe un segnale di
decadenza che avrebbe pesanti conseguenze sull’economia, sugli
equilibri dei mercati e sulle valutazioni delle agenzie di rating:
insomma, il governo dei tecnici bocconiani pare che abbia fatto come le
famiglie indebite che portano catenine e fedi nuziali ai “Compro oro”
per pagare le bollette scadute! E senza dire nulla a nessuno, ma
soltanto seguendo pedissequamente le richieste tedesche. Il fatto è che
quell’oro non è proprietà dello Stato italiano ma del popolo italiano,
tanto che lo stesso Giulio Tremonti, quando nel 2009 voleva tassare le
plusvalenze generate dalle riserve di Bankitalia, fu bloccato dal
governatore della Bce, Jean-Claude Trichet, che disse in Parlamento
«Siamo sicuri che l’oro sia della Banca d’Italia e non del popolo
italiano?» e dallo stesso Mario Draghi, all’epoca a capo di Palazzo
Koch, secondo cui «le riserve auree appartengono agli italiani e non a
via Nazionale».
E queste pratiche non sono una novità
nel nostro Paese. Nella primavera del 1976 a Palazzo Chigi c’era Aldo
Moro e il Tesoro era nelle mani di Emilio Colombo. La crisi valutaria
imperversava e fu inevitabile ricorrere all’aiuto del governo tedesco di
Helmut Schmidt che concesse un prestito di due miliardi di dollari,
chiedendo però in garanzia 540 tonnellate d’oro, che traslocarono
contabilmente dai libri della Banca d’Italia di Paolo Baffi a quelli
dell’Ufficio italiano cambi. Fino al 1997, quando il passaggio inverso
determinò una gigantesca plusvalenza sulla quale Palazzo Koch pagò 3.400
miliardi di lire di imposte: una manna per il governo di Romano Prodi,
impegnato nel tentativo di riportare il disavanzo pubblico sotto il 3%
del Pil per poter agganciare l’ euro, visto che l’incasso imprevisto
avrebbe contribuito ad abbattere di un altro 0,18% il rapporto fra
deficit e Pil. Peccato che Bruxelles, dove già avevano detto no alla
rivalutazione delle riserve auree tedesche e alla vendita dell’oro della
Banca centrale del Belgio, non diede il proprio consenso. Come siamo
entrati nell’euro, poi, è cosa nota a tutti.
Com’è, come non è, a febbraio di
quest’anno il quotidiano britannico “The Independent” rilanciava la
conferma di una forte pressione tedesca fin dall’inizio del 2012
affinché Roma mettesse mano alle sue riserve per incidere sullo stock di
debito: insomma, dove non arrivò il governo Prodi - che propose inoltre
la vendita di piccole quantità delle nostre riserve per incentivare lo
sviluppo dell’economia nazionale - potrebbero essere arrivati i
professori, i tecnici. Tanto che il 19 gennaio scorso i deputati Fabio
Rampelli e Marco Marsilio presentarono un’interrogazione parlamentare
(con richiesta di risposta scritta) indirizzata al ministro
dell’Economia e delle Finanze - leggi Mario Monti - per chiedere lumi al
riguardo. A tutt’oggi, che io sappia, si attende risposta.
Signore e signori, questi si vendono
l’oro (può essere un’alternativa, ma è sempre l’ultima e comunque
andrebbe quantomeno annunciata e discussa in Parlamento) mentre le
banche incassano e gioiscono (e non pagano nemmeno l’Imu per le sedi
delle Fondazioni, il vero cancro politico-economico del sistema):
attenzione, la strada che abbiamo intrapreso è decisamente greca. E con
la Spagna destinata a ristrutturare in parte il debito entro l’autunno,
rischiamo davvero grosso.
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