Roma
TANTARDINI/ Don Giacomo,
il Giuss e quella lezione sulla felicità
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lunedì 23 aprile 2012
Ho
cominciato a frequentare don Giacomo Tantardini con periodica assiduità
dai primissimi anni Novanta, senza più smettere d’incontrarlo. Arrivavo
da lui carico delle domande che le vicissitudini della vita solitamente
provocano (“cosa fare?”, “come decidere?”, “che comportamento
assumere?”, ecc.); tuttavia, finiva che non gliene rivolgevo nemmeno
una: guardando i suoi occhi vispi e commossi, vedendolo pregare,
partecipando ai suoi silenzi, ascoltando le sue parole, le asprezze
delle mie preoccupazioni ben presto si rasserenavano e tutto mi pareva
diventare più facile, quasi come quando Peguy, arrivato in
pellegrinaggio a Chartres, constatava: “Ecco il luogo ove tutto resta
più facile”.
Altre volte, invece, necessitando di un
suo giudizio, m’imponevo di porgli il problema per me al momento
insormontabile. Specialmente nei primi anni, però, la risposta mi pareva
sempre elusiva e comunque non esauriente; dopo avermi ascoltato e dato
dei piccoli suggerimenti, la sua insistenza rimaneva un’altra:
“Inginocchiati e dì un’Ave Maria alla Madonna e un Gloria al Padre a San
Giuseppe”. E così ho imparato a inginocchiarmi e con il tempo ho
iniziato a capire.
Una volta, tanti anni dopo, alla vigilia
del mio matrimonio, lo ringraziai per l’insegnamento ricevuto e
aggiunsi che, forse, era stata propria quella la lezione più grande che
era riuscito a offrire ai tanti che aveva incontrato, o che lo
guardavano con interesse. Gli si gonfiarono gli occhi di lacrime e mi
rispose d’impeto: “È proprio così! Diversamente avrei fondato una
corrente di CL; ma non è questo che interessa, non è questo!”.
Veniva in mente una lezione di don
Giussani di alcuni anni addietro sul ruolo del maestro: “Un maestro
impedisce che la drammaticità sia arrestata in te e stabilisce una lotta
dentro di te e l’ambiente, in nome del Destino e, perciò, in forza di
una drammaticità che egli per primo ha scoperto e vive. Il maestro
sempre commuove e sommuove. Muove le varie parti, di cui sei composto, e
una la getta contro l’altra, e tu capisci che le cose non sono ancora a
posto. Allora chiedi: «Ma come si fa a mettere le cose a posto?» E il
maestro risponde: «Non lo so» - perché questa è l’ultima risposta che si
può dare - «lo sa soltanto Iddio, lo sa soltanto Cristo! Perciò
mettiamoci in coda, seguiamolo, guardiamolo, stiamo lì attenti e
cerchiamo di mettere a posto come siamo capaci»”.
E così, di commozione in commozione, si
sono succeduti gli eventi della vita, secondo una linea che, iniziando a
guardare con i suoi occhi, diveniva motivo di gratitudine e di silenzio
(riecheggiando il brano, caro a don Giussani, del monaco eremita
Laurentius: “Mi fu detto: tutto deve essere accolto senza parole e
trattenuto nel silenzio. Allora mi accorsi che forse tutta la mia
esistenza sarebbe trascorsa nel rendermi conto di ciò che mi era
accaduto. E il Tuo ricordo mi riempie di silenzio”).
Al
contempo, proprio guardando quel suo sguardo, così attento a non
aggiungere nulla a quanto suggerito dalla realtà (“Pietro e il suo
successore hanno imparato a lasciare tutta l’iniziativa all’agire del
Signore. Hanno imparato che a noi è dato solo riconoscere e seguire
quello che il Signore opera”), tante sue insistenze divenivano
comprensibili. Risultavano chiare, ad esempio, le ragioni della sua
ammirazione verso Montini (“L’arcivescovo che con discernimento
evangelico aveva per primo riconosciuto «i frutti buoni» dell’apostolato
di Giussani tra gli studenti”) e verso De Gasperi, La Pira, Moro e
Andreotti (i quali, ripetendo le parole di Giussani, fra i cattolici in
politica erano stati quelli più “attenti al bene comune con competenza
reale e adeguata”).
Ricordo la commozione che gli provocò il
testo di una lettera che avevo trovato in un libro di storia
costituzionale, dove un testimone raccontava il modo mirabile e
(apparentemente) casuale con cui era stato formulato il testo dell’art. 7
della Costituzione (“Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani”). Era scritto nella lettera:
“ricordi quella mattina dell’autunno, credo, 1946? In casa Montini,
nella biblioteca Montini, La Pira prende un libro: lo apre: viene fuori
il testo della Immortale Dei (se non sbaglio) di Leone XIII nel punto
ove si distinguono le due sfere Chiesa-Stato. Il testo latino viene
tradotto in italiano da Monsignor Montini: il testo italiano viene poi
presentato a Togliatti (che lo approva): e diventa così l’art. 7 della
Costituzione italiana”.
Tutto nacque così - aggiungeva lui - dal
sano realismo di quegli uomini e dalla consapevolezza che, per
salvaguardare la libertà dell’esperienza cristiana, occorresse tener
conto delle condizioni del potere reale e, dunque, della necessità di
conseguire quel compromesso fra le grandi tradizioni culturali, popolari
ed economiche del Paese, il cui riconoscimento costituzionale ha poi
consentito la pace sociale e lo sviluppo economico.
Per contro, proprio una simile
consapevolezza lo induceva a giudicare con scetticismo l’esperienza
della Seconda Repubblica; faceva suo quel brano del “De civitate Dei”
(V, 17), in cui S. Agostino lamenta come i Romani, se avessero esteso le
loro leggi ai popoli assoggettati, realizzando una transizione
attraverso un compromesso, anziché compiendo grandi stragi di guerra,
avrebbero raggiunto un esito migliore, anche se non ci sarebbe stata
alcuna gloria per chi invece avrebbe potuto proclamarsi vincitore.
Nasceva, insomma, dalla gratitudine per
l’esperienza di pace sociale, sviluppo economico e libertà religiosa
sperimentata dal Paese, quell’ammirazione provata da don Giacomo verso
la politica di rispetto della realtà delle cose posta in essere da
Andreotti (che ripete di sé: “Ho sempre pensato che i ministri più
meritevoli siano quelli che invece di affannarsi nell’ennesima riforma
cercano di far funzionare con umiltà il meccanismo che c’è”).
Ammirazione,
del resto, ricambiata dall’anziano statista; basti pensare al giudizio
reso da quest’ultimo in uno degli ultimi editoriali di 30 Giorni,
in cui si legge: “Tornando a don Giussani, l’altra cosa che mi ha
permesso di capirlo meglio è stato partecipare molte volte in questi
anni alla messa nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura che celebra
don Giacomo Tantardini, un sacerdote che ha sempre manifestato nei
confronti di don Giussani ammirazione e devozione; presentandolo sempre
come il punto di riferimento al quale guardare. Mi è capitato molte
volte, da quando sono diventato direttore di 30 Giorni, di
partecipare a queste messe del sabato sera, ai battesimi, alle cresime, e
ogni volta ho visto qualcosa di unico: studenti e lavoratori, giovani
sposi con i bambini per mano che vanno insieme a ricevere la comunione,
una cosa veramente paradisiaca. Mi sono chiesto, anche grazie a una
fortunata copertina di 30 Giorni del 2008 dedicata a Lourdes,
se non fosse poi questo il futuro del cristianesimo, il modello del
laicato per i prossimi anni. Di certo mi ha permesso di comprendere ed
entrare più in sintonia con le parole ascoltate in passato da don
Giussani”.
Ed era proprio così: ascoltare don
Giacomo aiutava a comprendere meglio don Giussani. Le parole del primo
muovevano da una gratitudine commossa verso il secondo, che gli
proveniva anche dall’essersi sentito particolarmente amato. Sicché,
quando raccontava di Pietro e Giovanni e di come Giovanni fosse stato il
più amato dal Signore, sembrava quasi che raccontasse di sé e della
predilezione che Giussani gli aveva portato (“Pietro vuole bene a Gesù
più di quanto gliene vuole Giovanni. Ma Giovanni è più amato dal
Signore. E si corre più veloci non perché si ama, ma perché si è amati. «Meliorem Petrum, feliciorem Ioannem»
dice sant’Agostino. Pietro è più buono, ma Giovanni è più felice.
Perché la felicità non nasce neppure dal nostro essere buoni, la
felicità nasce nell’essere prediletti. Pietro è più buono di Giovanni,
ma Giovanni, essendo più amato, è più felice, ed essendo più felice
corre di più”).
E così, diventano ancora più
comprensibili e attuali le ultime parole che don Giacomo scrisse nel
ricordo di don Giussani: “Giussani è morto il 22 febbraio, giorno in cui
la liturgia romana ricordava la Cattedra di san Pietro. Nel breviario
si leggevano queste parole di papa Leone Magno: «Le porte degli inferi
non possono impedire questo riconoscimento della fede che sfugge anche
ai legami della morte. Infatti questo riconoscimento solleva al cielo».
Me, per grazia come bambino che guarda domandando. Te, che ora vedi
faccia a faccia, nella gloria, Colui che mi hai aiutato a riconoscere e
ad amare. Così faccia a faccia ora puoi ottenere dalla Madonna, come mi
hai detto in uno degli ultimi incontri per confermare la mia fragile
speranza, che si manifesti quale Regina non solo del cielo, ma anche
della terra”.
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