Il genio di Caravaggio nel farci vedere Gesù….
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Al centro dell’ultimo romanzo di Abraham Yehoshua, “La scena
perduta” (Einaudi, pp. 368, euro 21) c’è un quadro strano, sorprendente.
E’ un dipinto di Matthias Meyvogel, un artista del Seicento.
Malgrado il titolo, “Caritas romana”, l’opera appare ben poco
“spirituale”, anzi è un’immagine fortemente sensuale: rappresenta una
giovane donna che fa succhiare il suo seno a un vecchio che ha le mani
legate dietro la schiena.
Qual è il senso e la storia di quell’immagine su cui Yehoshua richiama la nostra attenzione per la fascinazione che esercita?
Ci troviamo di fronte a un tema che sembra aver quasi ossessionato la
pittura dal XVI al XVIII secolo. Lo sanno gli addetti ai lavori. Ma
possono facilmente scoprirlo anche i profani. Basta andare su Google,
scrivere la formula “caritas romana” e cliccare su “immagini”, per
scoprire che ci sono decine di opere con lo stesso soggetto.
Si sono cimentati con esso tantissimo pittori, più e meno famosi.
Guido Reni, Georg Pencz, Rubens, Bernardino Mei, Antonio Gherardi,
Domenico Manetti, Giovanni Antonio Pellegrini, Jean Baptiste Deshays,
Gaspard de Crayer, Januarius Johann Rasso, Murillo, Domenico Cerrini,
Bartolomeo Manfredi, Antonio Galli, Jan Janssens, Lorenzo Pasinelli,
Orazio Gentileschi, Giovanni Romanelli, Domenico Maria Viani e molti
altri.
Tutte queste tele raccontano una storia ambientata dell’antica Roma.
Si dice che il vecchio Cimone sia stato rinchiuso in una buia galera e
lì condannato a morire di fame e di sete. La figlia, Pero, ogni giorno
gli faceva visita e di nascosto lo nutriva al suo seno per salvargli la
vita.
Fu infine scoperta, ma i giudici, commossi dal suo gesto di pietà,
decisero di graziare il vecchio. In ricordo di questo esempio di amore
filiale si narra che fu eretto lì, nel foro Olitorio, nel 181 a.C., un
tempio dedicato alla Pietas, poi sostituito dalla basilica di San Nicola
in carcere.
La storia di Cimone e Pero – riferita anche da Valerio Massimo – era
già stata rappresentata a Pompei nella villa di Valerio Frontone e il
soggetto tornò ad essere raffigurato una miriade di volte nel
Rinascimento e poi nel Seicento. In genere queste opere sono tutte
intitolate “Carità romana”.
E’ dunque una storia di pietà, di umanità, che fu riscoperta attorno
al XVI secolo e, secondo la cultura rinascimentale impregnata di
mentalità pagana, fu rappresentata in quel modo ambiguo e sensuale.
Finché arrivò
Caravaggio e – anche in questo caso – fece una rivoluzione. La sua opera
ha tutt’altro tema: le sette opere di misericordia corporale.
E’ una grande tela che sta sull’altare della chiesa del Pio Monte
della Misericordia di Napoli e fu dipinta nel 1606 per quella
confraternita.
E’ un capolavoro in cui vengono rappresentate in modo concitato,
drammatico quelle opere di carità materiale su cui Gesù, nel Vangelo,
dice che saremo giudicati alla fine dei tempi. Tutta la scena è
sormontata dall’immagine della Madonna col bambino che è la fonte di
tutte le grazie.
Ebbene, se si osserva attentamente l’opera ci si accorge subito che
sulla destra il pittore ha rappresentato una giovane donna, in piedi,
che – mentre guarda altrove – con la mano offre la sua mammella a un
vecchio il quale sporge la testa da una finestrella con le sbarre, per
accostare la sua bocca al seno candido della ragazza.
La scena della ragazza e del vecchio riunisce in sé due opere di
misericordia corporale: “dar da mangiare agli affamati” e “visitare i
carcerati”.
Chi prega davanti a quell’altare dunque ha davanti a sé quella grande
tela dove è ben visibile questa immagine. E’ sorprendente che negli
anni della cosiddetta Controriforma fosse accettata un’immagine così
audace e che tale immagine sia in una pala d’altare.
Ma, in realtà, ancor più sorprendente è il fatto che nel contesto di
quell’opera, dove sono rappresentate tutte le sofferenze umane e la
carità cristiana, sembra che ogni ambigua sensualità scompaia.
E’ l’ennesimo colpo di genio – un genio radicalmente cattolico – di
Caravaggio. Lui fece sua l’iconografia della ragazza pietosa che allatta
il vecchio prigioniero, ma la cristianizzò applicandola alle opere di
misericordia.
Tuttavia proprio la
forte carnalità di quell’iconografia serviva al Merisi per far
percepire la concretezza della carità e la carnalità della salvezza
cristiana.
La tela caravaggesca fa vedere che le opere di misericordia
abbracciano tutta la nostra condizione umana: l’essere affamato,
assetato, ignudo, l’essere carcerato, ammalato o senza un tetto, infine
l’essere morto e quindi l’aver bisogno di venire sepolto.
E queste opere vanno accanto alle opere di misericordia spirituale.
Tutte insieme sono le opere che Gesù compiva, con cui esprimeva il suo
amore, la sua compassione per ogni essere umano, nella sua condizione
esistenziale e anche materiale. E sono le opere che anche a noi chiede
per entrare in Paradiso.
Era lui il Buon Samaritano della parabola, colui che si china a
curare e fasciare le ferite dell’uomo moribondo. Si prende cura pure
delle sue piaghe fisiche perché il cristianesimo non è appena la
religione dell’immortalità dell’anima, ma della resurrezione dei corpi
(e ci sarà pure un motivo se gli ospedali sono stati inventati dalla
Chiesa).
Ma c’è qualcosa di
più che si esprime in questa rappresentazione delle opere di
misericordia. Gesù salva l’umanità ferita dalla disperazione, dalla
prigionia del male e della morte, dando il suo stesso corpo e il suo
sangue, pagando nella sua carne il riscatto. E poi addirittura
nutrendoci con la sua carne e il suo sangue per divinizzarci.
Ecco perché quell’insolita scena di allattamento, assunta da
Caravaggio, esprime misteri profondi: è la Grazia che salva dalla morte e
ridà nuova vita all’uomo vecchio, prigioniero del male. La Grazia è
Gesù stesso, Dio fatto carne, il Dio-uomo.
Un’iconografia antica e tradizionale di Cristo è quella del pellicano
che si squarcia il petto per nutrire i suoi piccoli col suo stesso
sangue.
Il sangue e l’acqua che uscirono dal petto del crocifisso hanno
questo profondo significato di lavacro e nutrimento per noi. E’
nutrendoci del suo stesso corpo che egli ci libera dalla prigionia.
Diversi mistici usano l’immagine delle labbra che si abbeverano alla
ferita del costato di Gesù. Naturalmente quelle immagini di nutrizione e
dissetamento sono tutte metafore dell’eucaristia (Caravaggio aveva
rappresentato le delizie dell’eucaristia anche con il famoso e
bellissimo cesto di frutti, rifacendosi a un tema della spiritualità di
San Carlo e del Concilio di Trento).
Quello che
Caravaggio rappresenta in questa tela è un amore unico al mondo, così
folle, concreto e appassionato che la scena della “lactatio” ne dà solo
una pallidissima idea. Forse – per riprendere il titolo di Yehoshua –
“la scena perduta” dall’umanità del nostro tempo è proprio questo Amore.
Infatti il nostro tempo erotomane esprime anche con l’ossessione del
sesso quella insoddisfazione perenne nella sua ricerca dell’estasi,
dell’Amore vero e della felicità. Proprio perché siamo carne la salvezza
è venuta nella carne.
Antonio Socci
Da “Libero”, 24 marzo 2012