Il matrimonio deve “discriminare” le coppie omosessuali
***
di Brendan O’Neill* *editorialista di “Spiked” (marxista, libertario e non credente)
*discorso pronunciato alla House of Lords il 15/05/13
Penso che una delle parole più diffamate della lingua inglese sia “discriminazione”, in
questo periodo storico usata prevalentemente in senso negativo. E’
principalmente utilizzata nel senso di realizzare dure e oppressive
sentenze contro le persone in base al loro sesso, alla loro sessualità o
alle loro origini etniche.
Il senso positivo – e in un certo senso più vero – del significato della parola “discriminare” si sta perdendo, cioè la capacità di percepire, cogliere e notare le differenze
tra le cose. La discriminazione, in modo del tutto onorevole e anche
intelligente, è un modo per esprimere giudizi sui diversi valori
collegati a cose diverse, ma tale significato è sepolto sotto l’uso più
comune della parola per descrivere ogni minima contrarietà verso
individui o gruppi specifici.
Questo è un peccato, credo, perché abbiamo davvero bisogno di recuperare la capacità di discriminare. Più precisamente, abbiamo bisogno di recuperare il ruolo importante del dare giudizi e riconoscere le differenze
che esistono nella nostra società e nelle esperienze di vita delle
persone. Il motivo per cui abbiamo bisogno di questo è perché viviamo in
un’epoca che potremmo chiamare dell’”uguaglianza fasulla”. Un’epoca in cui ciò che viene presentato come “uguaglianza” equivale a omogeneizzazione, imposizione di identità, una tirannia del relativismo,
in ultima analisi, la negazione del diritto dei cittadini ad esercitare
anche quella intelligente e colta discriminazione nel dare giudizi sui
diversi modi in cui le persone vivono. In un tale clima di soffocante
monotonia, è davvero importante che la gente prenda posizione e sia
discriminante.
La questione del matrimonio gay
cattura brillantemente l’idea di come sia degradato il concetto di
uguaglianza. Se si ascoltano alcuni ministri del governo e gli attivisti
dei diritti dei gay, si crederà che il matrimonio gay sia qualcosa di
“uguagliante”, per avere pari diritti. E’ indicato in modo martellante
come “matrimonio egualitario” (“equal marriage”), e naturalmente questo significa che chiunque critichi il matrimonio gay venga liquidato
come un amico della disuguaglianza, e nessuno vorrebbe essere
etichettato in questo modo. Ma quando alcuni ministri e gli attivisti
omosessuali parlano dell’attuale esclusione al matrimonio di coppie
dello stesso sesso come un problema di disuguaglianza, che cosa
intendono? Ad esempio, è un crimine contro l’uguaglianza negare a me
l’accesso al Royal College of Music? Che ne è del mio diritto ad essere trattato allo stesso modo
di coloro che possono frequentarlo perché sanno suonare uno strumento e
leggere la musica? Potrei non avere le credenziali e il talento per
fare ciò per cui il Royal College of Music è stato istituito per fare, ma che ne sarebbe del mio uguale diritto a frequentare l’istituto ed utilizzare i suoi servizi?
La verità è che le istituzioni discriminano sempre e da sempre. Esse devono farlo perché se non lo facessero avrebbero perso la loro identità, il loro scopo, il loro vero significato. Se il Royal College of Music
fosse costretto ad accettare anche chi è inetto musicalmente,
cesserebbe di esistere entro un decennio crollando sotto il peso della
pressione a non essere discriminante, a non dare giudizi sulla base
dell’adeguatezza o dell’idoneità di una persona ad accedere ai suoi
servizi. La buona e corretta discriminazione è al centro di ogni istituzione e organizzazione. La discriminazione è ciò che permette alle istituzioni di definire se stesse, cosa significa appartenervi e giudicare chi può essere membro e chi non può.
Collegi, partiti politici, chiese, gli Women’s Institute, club
sportivi, gruppi di uomini gay ecc…nessuna di queste istituzioni
potrebbe continuare ad esistere se non fosse autorizzata ad esercitare
la discriminazione, se non le fosse permesso di specificare ciò che è
richiesto ai membri per appartenervi e rifiutare coloro che non
possiedono tali requisiti.
Scrivendo nel 1950, la grande pensatrice liberale Hannah Arendt ha detto: «[Il]
diritto alla libera associazione, e quindi alla discriminazione, ha
maggiore validità rispetto al principio di uguaglianza». Quello che voleva dire è che, se la libertà e l’uguaglianza sono in conflitto, dovremmo tifare per la libertà
piuttosto che per l’uguaglianza. Dovremmo cioè essere dalla parte della
libertà di gruppi privati o partiti politici o delle istituzioni che
svolgono un ruolo sociale specifico per la libertà di discriminare
come strumento per definire chi sono, per dire quale sia il loro scopo e
chi può unirsi a loro. Naturalmente, nella sfera pubblica -nel diritto,
nel mondo del lavoro, nell’interazione sociale pubblica- tutti devono essere trattati allo stesso modo,
ma nella sfera privata, e anche -cosa molto importante-, nelle
istituzioni che per anni hanno svolto un ruolo sociale molto specifico
per gruppi specifici di persone, essere discriminatori è essenziale. Ciò è stato riconosciuto dai primi pensatori illuministi. John Locke, autore del grande “Lettera sulla tolleranza”,
pubblicato nel 1689, ha detto che le istituzioni religiose, e anche
altre istituzioni, sono effettivamente “società spontanee”. E quindi, «ne
consegue necessariamente il diritto a realizzare leggi proprie su chi
può ad esse appartenere, coloro che la società stessa di comune accordo
ha autorizzato».
“Società spontanee”, gruppi religiosi,
gruppi politici, alcune istituzioni con ruoli particolari devono essere
almeno relativamente liberi di scrivere le proprie leggi e regole
che disciplineranno coloro che hanno “comunemente accettato” di farvi
parte. Eppure oggi, nella nostra epoca di uguaglianza fasulla, la
capacità delle istituzioni a governare se stessi, a discriminare sulla
base della credenza, o ideologia, o idoneità per l’attività, è stata
demolita. Questo mette in discussione la possibilità
stessa dell’esistenza di organizzazioni e istituzioni, in quanto la
pressione ad abbracciare l’uguaglianza può significare dover fare a meno
dei propri principi organizzativi e delle credenze specifiche
condivise.
Alcuni sostenitori del matrimonio gay diranno che il matrimonio è solo amore
e quindi se l’istituzione del matrimonio nega l’accesso a persone che
si amano e sono dello stesso sesso, questo è senza dubbio opprimente, un
chiaro esempio di pratica della disuguaglianza. Si dice che le persone omosessuali hanno tutto quello che è richiesto per contrarre un matrimonio -che è l’amore reciproco e consenziente- e quindi è sbagliato rifiutare loro l’accesso al matrimonio. Ma in realtà, l’amore non è affatto sufficiente per accedere all’istituto del matrimonio, il quale infatti discrimina già
e anche contro le persone che si amano. Per esempio, un uomo può essere
veramente e appassionatamente innamorato di sua sorella, e lei di lui,
ma è assolutamente proibito a loro di sposarsi. Una donna potrebbe
essere perdutamente innamorata di due uomini diversi, ma non c’è modo
che possa sposare entrambi. Alcuni di noi si ricorderanno quando a 14
anni eravamo perdutamente innamorati di un/una coetanea, ma non avremmo
potuto sposarci. Il matrimonio è un’istituzione discriminante, anche contro le persone che si amano. Chiaramente allora è necessario avere qualcosa di più per sposarsi, oltre ad essere innamorati. Chiaramente il matrimonio svolge un altro specifico ruolo sociale, che non è solo quello di permettere alle persone di esprimere il loro amore per un altro.
Spingendo verso l’idea di “equal marriage”, ovvero l’idea che sia sbagliato per l’istituzione del matrimonio operare una discriminazione, esso perderà il suo specifico ruolo sociale?
Sarà minato il matrimonio inteso come l’unione di due persone con la
possibilità di procreare e con la potenziale responsabilità di
accogliere la futura generazione? Diverrà privo di senso
il matrimonio come principale mezzo attraverso il quale gli adulti e la
comunità si assumono la pubblica responsabilità verso le generazioni
future? Si, penso che la risposta sia affermativa, proprio come è certo che il ruolo sociale del Royal College of Music
sarebbe compromesso se dovesse accogliere chi non può o non è capace di
suonare, come me. Il processo di omogeneizzazione vestito da
“uguaglianza”, l’incapacità di distinguere tra diversi tipi di
relazioni, svuota di significato il matrimonio, perché
se tutto è un matrimonio, allora niente lo è. Se l’istituzione del
matrimonio non può discriminare, allora non ha alcun senso o scopo
strutturale.
E’ senza dubbio il caso di ricordare che per molti anni le persone omosessuali sono state trattate in modo diseguale,
hanno sofferto l’oppressione. Per centinaia di anni l’attività
omosessuale era punibile con la morte. Anche nel periodo più moderno,
gli omosessuali sono stati condannati a pene detentive ai lavori forzati
solo per aver avuto rapporti sessuali. Queste severe restrizioni sui
diritti delle persone gay hanno anche inciso nel modo
con cui sono stati trattati all’interno della società, considerati
inferiori e anche malati. Per fortuna, questo è cambiato, il sesso
omosessuale è stato depenalizzato, le leggi oppressive sono state
abrogate e c’è stato un corrispondente cambiamento di atteggiamento
sociale. Gli omosessuali sono ormai accettati come membri ordinari della società e vengono trattati allo stesso modo.
Ma perché allora la domanda della
cosiddetta “uguaglianza del matrimonio”? Questo è davvero interessante
perché se si guardano le argomentazioni principali addotte per la
“parità di matrimonio” vedrete che spesso hanno una forte componente terapeutica.
L’argomento è che vedendo rifiutato il diritto di sposarsi, i gay si
sentono inutili, disprezzati dalla società. Gli attivisti spesso dicono
cose come: «l’impossibilità di dire “io sono sposato” brucia e mi fa sentire come un cittadino di seconda classe».
Potrebbero non essere cittadini di seconda classe, ma a volte si
sentono come tali e il matrimonio gay aumenterà l’autostima e le persone
si sentiranno meglio. Ma non è e non dovrebbe mai essere
il ruolo del governo quello di fornire una terapia o far sentire
meglio, in relazione alla parità di trattamento, il governo dovrebbe
fare solo una cosa: offrire pari opportunità, cioè
rimuovere eventuali ostacoli giuridici agli individui o gruppi che
partecipano alla sfera pubblica. Ma non può fornire la parità dei
risultati, assicurare a tutti la parità di esperienze nella vita,
garantendo che tutti abbiano felici e appaganti esistenze, o la parità
di appagamento emotivo assicurando che ognuno si senta valorizzato dalla
società. Quelle sono cose che dobbiamo realizzare noi stessi, esercitando la nostra autonomia e la scelta del percorso di vita che sentiamo più adatto per noi.
Invitare il governo a darci la parità delle esperienze di vita, dell’uguaglianza di emozioni è soltanto invitare un maggiore intervento
dello Stato nella nostra vita, nella morale e anche nella nostra vita
emotiva. In questo modo, possiamo vedere come l’uguaglianza fasulla di
oggi non libera le persone, ma piuttosto le rende più
dipendenti ai favori dello Stato, e non migliora il tessuto sociale ma
piuttosto rende più difficile per gli abitanti e le istituzioni di una
società avere ognuno una vita morale interna propria.
Nessun commento:
Posta un commento