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mercoledì 17 luglio 2013

L'universo non ha a che fare col caso



L'universo non ha a che fare col caso
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     La più grande forma di libertà è quella di potersi domandare da dove veniamo o dove andiamo. La libertà ti permette di porgere a te stesso la domanda in modo onesto e chiaro, ma calmo e sereno, in quanto non si tratta di una domanda di emergenza. Non ha niente a che fare con quelle procedure d'urgenza che devi "sbrigare in caso di". È troppo bella e profonda, per essere turbata da interessi immediati.

     Il problema è iscritto nel nostro bagaglio intellettuale, che lo vogliamo o no. Non esiste forma di vita umana che non si sia posta questa domanda. E non c'è forma di società umana che non abbia cercato in qualche modo di darvi una risposta. Il mancare a questo appuntamento è una perdita, una disumanizzazione, un meccanismo interno di autopunizione.

     Quello che impressiona di più, della domanda, è la sua universalità. È comune a tutti. Metti in questa stanza dieci uomini che non si conoscono, di cultura, religione, età, storie diverse. Mettine cento in una piazza. Mille in un paese. Milioni in una città. Miliardi. Che cos'hanno, in comune, se non questa domanda? Tutti se la pongono, o se la porranno. Tutti cercano una risposta. E le risposte saranno dieci, saranno cento, saranno mille, o milioni: una diversa dall'altra. Ciò che conta, in fondo, è la domanda comune, più che la risposta. La risposta, conta poco. Anche perché sappiamo benissimo che, questa risposta, non la conosceremo mai».

     Se la risposta giusta non la sapremo mai, e proprio qui, in questo mistero, sta tutto il suo fascino, tante saranno le risposte degli uomini. «Tante quanti sono gli uomini sulla terra. Per ciascuno di noi, la risposta che diamo sarà quella giusta. Non vedo perché una risposta A sia meglio o peggio di una risposta B. Non riesco a discernere. Credo che tutto ciò faccia parte di un nostro bagaglio etico, e penso che quello che conta sia il rispetto del nostro umanesimo, del nostro essere uomini. E poiché tutti noi pensiamo che il nostro essere uomini sia qualcosa che ci mette al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra, per forza dobbiamo anche pensare che siamo stati fatti a immagine di qualcosa di ancora più importante di noi. È difficile non crederci, quasi impossibile. È addirittura inevitabile. Talmente inevitabile che penso sia scritto dentro di noi.

     Non vedo come non si possa dire di sì all'esistenza di qualcosa di aggiuntivo. Io sono un ottimista, mi è facile credere a questo. Tra l'altro, non bisogna solo essere ottimisti, basta essere dei buoni osservatori. Come diceva anche Einstein, Dio è distribuito nella natura. È davvero così, ne sono più che certo. La natura è costruita in maniera tale che non c'è dubbio che sia costruita così per un caso. Più uno studia i fenomeni della natura, più si convince profondamente di ciò. Esistono delle leggi naturali di una profondità e di una bellezza incredibili. Non si può pensare che tutto ciò si riduca a un accumulo di molecole. Lo scienziato in particolare, riconosce fondamentalmente l'esistenza di una legge che trascende, qualcosa che è al di fuori e che è immanente al meccanismo naturale. Riconosce che questo "qualcosa" ne è la causa, che tira le file del sistema».

     «È un "qualcosa" che ci sfugge», continua Rubbia appassionato. «Più ci guardi dentro, più capisci che non ha a che fare col caso. Io porto spesso l'esempio di quella sorta di misticismo che ti prende in una notte piena di stelle. Lo stesso meccanismo di meraviglia, direi quasi di religiosità, ti prende quando, anziché guardare le stelle da lontano, le osservi dall'interno. Quello stesso sentimento che provi guardando da lontano le stelle, si amplifica, si concretizza ancora di più. Il sentimento che prova un profano assistendo a un fenomeno naturale grandioso come un cielo pieno di stelle, un tramonto, l'immensità del mare, per uno scienziato è ancora più grande, in quanto respira qualcosa di veramente perfetto nella sua struttura. Questa perfezione esiste, è nella profondità delle cose. Non è un'ombra, non è un'apparenza».

     È un momento di assoluta poesia. Rubbia non è uomo da facili commozioni, da intenerimenti banali. Eppure ogni sua parola, il lampo dei suoi occhi azzurri, la chiarità del suo viso, persino il movimento delle mani, tutto quanto di lui esprime incanto, stupore. « L'uomo di scienza osserva la natura nella sua forma più perfetta, e deve farlo con intelligenza, modestia, bontà. Deve farsi piccolo piccolo, come quando guardi un animale selvaggio muoversi libero e felice nella foresta. Io mi sento profondamente onorato di potervi assistere, di poter capire. Lo scienziato può osservare e apprezzare qualcosa di sublime. E non lo registra solo per sé. Ha il dovere di trasmetterlo a tutta la gente del mondo».

     Una pausa, soltanto un attimo per concludere: «Quindi, non esiste antitesi, fra natura e uomo. La natura con la sua perfezione, ti fa arrivare a pensare che non c'è "caso". Lo scienziato osserva le leggi fisiche, le leggi della natura, e trova che sono immutabili nello spazio e nel tempo. Il più lontano possibile da noi, nello spazio e nel tempo, tutto si svolge come ciò che si svolge sotto i nostri occhi. Non puoi pretendere che queste leggi siano uniche, immutabili, esatte, e perfette, e non pensare che dietro questo meccanismo di immutabilità e perfezione ci sia qualcosa che ne garantisce la stabilità. Ordine e stabilità nelle leggi naturali non possono essere arbitrarie. C'è qualcuno che fa sì che queste continuità siano assicurate. Se osservi tutto ciò, non puoi che concludere che, in qualche modo, ci deve essere un meccanismo, un qualcosa di superiore, di trascendente».


(In EDGARDA FERRI, La tentazione di credere. Inchiesta sulla fede, Rizzoli, Milano 1987, pp. 205-207)

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