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domenica 8 dicembre 2013

Proust, le cattedrali e la bellezza della liturgia

Proust, le cattedrali e la bellezza della liturgia

di Paola Di Sabatino
Mar­cel Prou­st
Che Mar­cel Prou­st ri­te­nes­se le chie­se go­ti­che le più no­bi­li «opere alle quali si sia mai in­nal­za­to il genio di Fran­cia» è ri­sa­pu­to: in À la re­cher­che du temps perdu i nomi di Char­tres, Amiens, Tours, Sens, Bour­ges, Au­xer­re, Cler­mont e Troyes ri­cor­ro­no con­ti­nua­men­te. E del resto la stes­sa Re­cher­che era stata con­ce­pi­ta, «co­strui­ta» e «or­na­ta» per­ché rap­pre­sen­tas­se una «cat­te­dra­le» nella sto­ria della let­te­ra­tu­ra, ossia re­stas­se in piedi «nel Tempo». Meno nota, in­ve­ce, la sor­pren­den­te pe­ro­ra­zio­ne dello scrit­to­re – non cre­den­te, ebreo per na­sci­ta e fi­glio di quel mondo che il poeta Char­les Péguy, negli stes­si anni, aveva de­fi­ni­to pro­spe­ro «senza Gesù, dopo Gesù» – in di­fe­sa dei se­co­la­ri gi­gan­ti di pie­tra d’Ol­tral­pe, i quali nel 1904 ri­schia­va­no la scon­sa­cra­zio­ne a causa della legge che san­ci­va la se­pa­ra­zio­ne tra Chie­sa e Stato fran­ce­se.

L’ar­ti­co­lo di Prou­st ap­par­ve nel­l’a­go­sto di quel­l’an­no su Le Fi­ga­ro, con un ti­to­lo forte – «La morte delle cat­te­dra­li» –, men­tre l’in­te­ro Paese era in­ten­to a di­scu­te­re al­cu­ni punti di una legge che, tra le varie cose, pre­ve­de­va l’a­bo­li­zio­ne dei luo­ghi di culto, l’in­ven­ta­rio di tutte le pro­prie­tà della Chie­sa fran­ce­se e l’i­sti­tu­zio­ne delle as­so­cia­zio­ni cul­tua­li, pena la con­fi­sca di que­gli stes­si beni da parte dello Stato. Il ri­schio che que­st’ul­ti­mo s’im­pa­dro­nis­se della ge­stio­ne dei luo­ghi di culto cri­stia­ni per tra­sfor­mar­li in «sem­pli­ci pezzi da museo, ge­li­di» sem­bra­va im­mi­nen­te, e Prou­st te­me­va che di lì a qual­che anno la Fran­cia sa­reb­be di­ve­nu­ta «una spiag­gia dove gi­gan­te­sche con­chi­glie ce­sel­la­te sa­reb­be­ro ap­par­se are­na­te, vuote ormai della vita che in esse aveva abi­ta­to ed in­ca­pa­ci di re­ca­re al­l’o­rec­chio che si chi­nas­se su di esse il vago ru­mo­re di un tempo». Que­sto per­ché, scri­ve­va l’au­to­re: «Quan­do il sa­cri­fi­cio della carne e del san­gue del Cri­sto non sarà più ce­le­bra­to nelle chie­se in esse non ci sarà più vita».
Tale af­fer­ma­zio­ne co­sti­tui­sce il primo gran­de punto ne­vral­gi­co dello scrit­to prou­stia­no. Sot­to­li­nean­do che la bel­lez­za delle chie­se sa­reb­be ve­nu­ta meno nel mo­men­to in cui, pri­va­te del­l’a­ni­ma – ov­ve­ro la messa – le si fosse “mu­sea­liz­za­te” e guar­da­te esclu­si­va­men­te da un punto di vista cul­tu­ra­le, Prou­st fa­ce­va una di­stin­zio­ne im­por­tan­te e, se vo­glia­mo, at­tua­lis­si­ma: quel­la tra cul­tu­ra cri­stia­na e fede cri­stia­na ossia, usan­do le pa­ro­le di Al­ber­to Be­ret­ta An­guis­so­la, uno dei mas­si­mi stu­dio­si prou­stia­ni, tra ciò che è «ado­zio­ne di un in­sie­me di in­te­res­si, abi­tu­di­ni, opi­nio­ni e pen­sie­ri che fanno parte del “ba­ga­glio an­tro­po­lo­gi­co” della tra­di­zio­ne cri­stia­na» e quel­la che in­ve­ce è la «cer­tez­za di poter ri­sor­ge­re con Cri­sto». Due real­tà ben di­stin­te e non in­ter­cam­bia­bi­li per­ché, pa­ra­fra­san­do un’espres­sio­ne di papa Fran­ce­sco, il cri­stia­ne­si­mo non è una «pro­po­sta cul­tu­ra­le» ma la se­que­la di Gesù.
Col­pi­sce e sor­pren­de al­lo­ra l’in­tui­zio­ne di Prou­st, il quale nel­l’ar­ti­co­lo sem­bra ri­mar­ca­re anche ter­mi­no­lo­gi­ca­men­te la di­stan­za tra i due am­bi­ti: ri­fe­ren­do­si a quel­lo cul­tu­ra­le, per ben due volte il ro­man­zie­re uti­liz­za l’ag­get­ti­vo «ge­li­do» men­tre, nel caso di quel­lo della fede, fa con­ti­nua­men­te ri­cor­so al so­stan­ti­vo «vita». L’u­ni­co mo­ti­vo, spie­ga­va Prou­st, per cui le cat­te­dra­li go­ti­che erano state eret­te dagli ar­ti­sti del XIII se­co­lo, con le of­fer­te di mi­glia­ia di ano­ni­mi fe­de­li, era la fede in Gesù; e la bel­lez­za vi­vi­da che con­ti­nua­va a tre­mar loro d’at­tor­no, an­co­ra dopo tanti se­co­li, stava tutta nelle splen­di­de ce­le­bra­zio­ni eu­ca­ri­sti­che che in esse si svol­ge­va­no: «Si può dire che gra­zie alla so­prav­vi­ven­za dei me­de­si­mi riti nella Chie­sa cat­to­li­ca e, d’al­tra parte, della fede cat­to­li­ca nel cuore dei Fran­ce­si, le cat­te­dra­li non sono sol­tan­to i più bei mo­nu­men­ti della no­stra arte, ma sono gli unici che vi­va­no an­co­ra in­te­gral­men­te la pro­pria vita».

La cat­te­dra­le di Char­tres
Met­te­te un cri­stia­ne­si­mo estin­to da se­co­li – ra­gio­na­va per as­sur­do lo scrit­to­re – del quale nes­su­no più ri­cor­da le tra­di­zio­ni ma di cui, tut­ta­via, resta trac­cia pro­prio nelle gran­di cat­te­dra­li, di­ve­nu­te nel tempo mo­nu­men­ti «inin­tel­le­gi­bi­li di una fede di­men­ti­ca­ta»; ag­giun­ge­te orde di scien­zia­ti in­ten­ti a ri­co­strui­re le ce­ri­mo­nie che in quei luo­ghi un tempo si svol­ge­va­no e ar­ti­sti che si ci­men­ta­no a ri­met­ter­le fe­del­men­te in scena; amal­ga­ma­te il tutto con la so­ler­zia di uno Stato che, in tal caso, non si la­sce­reb­be sfug­gi­re l’oc­ca­sio­ne di sov­ven­zio­na­re «la re­sur­re­zio­ne delle ce­ri­mo­nie cat­to­li­che, tanto gran­de è il loro in­te­res­se sto­ri­co, so­cia­le, pla­sti­co e mu­si­ca­le»; e in ul­ti­mo, ci­lie­gi­na sulla torta, le im­man­ca­bi­li «ca­ro­va­ne di snob» a cac­cia di even­ti mon­da­no-cul­tu­ra­li, an­sio­se di «as­sa­po­ra­re l’o­pe­ra d’ar­te nella cor­ni­ce stes­sa che è stata co­strui­ta per ac­co­glier­la»: bene, ve­dre­te – as­si­cu­ra­va lo scrit­to­re dalle co­lon­ne del Fi­ga­ro – che «no­no­stan­te tutto» la ri­cet­ta non fun­zio­ne­rà. Ne ver­reb­be­ro cer­ta­men­te fuori delle «re­tro­spet­ti­ve ma­ga­ri esat­te, però ge­li­de» e non si potrà fare a meno di pen­sa­re a come «que­ste feste do­ve­va­no es­se­re più belle ai tempi in cui erano i sa­cer­do­ti che ce­le­bra­va­no le messe, […] per­ché ave­va­no, nella virtù di que­sti riti, la stes­sa fede degli ar­ti­sti che scol­pi­ro­no» le cat­te­dra­li in que­stio­ne; e a come «do­ve­va par­lar con voce più alta, più in­to­na­ta, l’o­pe­ra in­te­ra quan­do tutto un po­po­lo ri­spon­de­va alla voce del prete, si met­te­va in gi­noc­chio al tin­tin­nio della cam­pa­nel­la», ani­ma­to an­ch’es­so dalla stes­sa de­vo­zio­ne del sa­cer­do­te e dello scul­to­re.
Que­sto per­ché, so­ste­ne­va Prou­st, lo splen­do­re della «li­tur­gia cat­to­li­ca» forma «un tutto unico con l’ar­chi­tet­tu­ra e la scul­tu­ra delle no­stre cat­te­dra­li»: nella prima, ogni ele­men­to – dal com­po­sto fer­vo­re del po­po­lo alla mu­si­ca gre­go­ria­na, «sino al più pic­co­lo gesto del prete, sino alla stola ch’e­gli in­dos­sa» – si ac­cor­da con «il sen­ti­men­to pro­fon­do» che anima le se­con­de. En­tram­be, li­tur­gia e cat­te­dra­le, par­te­ci­pa­no della stes­sa fede, della stes­sa vita, en­tram­be ri­ver­be­ra­no una bel­lez­za che l’au­to­re della Re­cher­che ri­te­ne­va inar­ri­va­bi­le: «Mai uno spet­ta­co­lo pa­ra­go­na­bi­le a que­sto, uno spec­chio gi­gan­te­sco della scien­za, del­l’a­ni­ma e della sto­ria fu of­fer­to agli sguar­di e al­l’in­tel­li­gen­za del­l’uo­mo […]. Si può dire che una rap­pre­sen­ta­zio­ne di Wag­ner a Bay­reu­th […] è poca cosa ac­can­to alla ce­le­bra­zio­ne della messa gran­de nella cat­te­dra­le di Char­tres». Ed è si­gni­fi­ca­ti­vo che il ro­man­zie­re parli di «sguar­di», oltre che d’«in­tel­li­gen­za», a la­sciar in­ten­de­re che, non solo quan­ti erano in grado di com­pren­de­re i ri­man­di e i segni pro­pri della li­tur­gia, ma dav­ve­ro tutti, anche i sem­pli­ci fe­de­li, po­te­va­no go­de­re ap­pie­no di quel­l’e­vi­den­te splen­do­re: «Un igno­ran­te, un sem­pli­ce so­gna­to­re, entra in una cat­te­dra­le, si ab­ban­do­na alle sue emo­zio­ni e prova un’im­pres­sio­ne cer­ta­men­te più con­fu­sa, ma forse non meno forte».

L’im­por­tan­za vi­ta­le della li­tur­gia: ecco dun­que il se­con­do punto ne­vral­gi­co del­l’ar­ti­co­lo prou­stia­no, an­ch’es­so at­tua­lis­si­mo. Piace a que­sto pro­po­si­to ri­cor­da­re un altro ac­cen­no di papa Fran­ce­sco, dello scor­so lu­glio, que­sta volta sul­l’at­ten­zio­ne delle Chie­se or­to­dos­se per la tra­di­zio­ne li­tur­gi­ca. Esse, spie­ga­va il Pon­te­fi­ce al rien­tro dalla vi­si­ta apo­sto­li­ca in Bra­si­le, «hanno con­ser­va­to la li­tur­gia che è tanto bella. Noi ab­bia­mo perso un po’ il senso del­l’a­do­ra­zio­ne. Loro ado­ra­no Dio e lo can­ta­no, non con­ta­no il tempo [...] con­ser­va­no que­sta bel­lez­za di Dio al cen­tro». In­tui­zio­ne ri­pre­sa re­cen­te­men­te nel­l’o­me­lia di una messa ce­le­bra­ta pres­so la Casa Santa Marta.
Pa­ro­le che avreb­be­ro cer­ta­men­te in­con­tra­to l’ap­pro­va­zio­ne dello scrit­to­re fran­ce­se, il quale, pe­ral­tro, avreb­be ap­prez­za­to mol­tis­si­mo l’ac­cen­no sul tempo. Pro­prio lui che nella Re­cher­che, de­scri­ven­do la chie­sa di Com­bray, spie­ga­va come que­sta aves­se «var­ca­to e scon­fit­to, di cam­pa­ta in cam­pa­ta, di cap­pel­la in cap­pel­la, non solo qual­che metro, ma epo­che suc­ces­si­ve, dalle quali usci­va in trion­fo». Ecco, nella vi­sio­ne di Prou­st, la li­tur­gia, come la «cat­te­dra­le vi­ven­te» con cui essa forma «un tutto unico», è senza tempo, o me­glio lo at­tra­ver­sa senza es­ser­ne vit­ti­ma.
Sem­bra­no an­da­re in que­sto senso anche i due ampi stral­ci ri­por­ta­ti nel­l’ar­ti­co­lo prou­stia­no, trat­ti da L’art re­li­gieux du XIII siè­cle di Émile Mâle e dal Ra­tio­nal des di­vins of­fi­ces di Guil­lau­me Du­rand, nei quali viene mi­nu­zio­sa­men­te de­scrit­to il sim­bo­li­smo di ogni og­get­to, pa­ra­men­to, gesto e canto fa­cen­ti parte delle ce­le­bra­zio­ni; come se in tal modo Prou­st aves­se vo­lu­to sot­to­li­nea­re che nien­te nella santa messa, in cat­te­dra­le o in qual­sia­si altra chie­sa, fosse inu­ti­le e da­ta­to or­pel­lo: si trat­tas­se della «gran­de ce­le­bra­zio­ne pa­squa­le» o della sem­pli­ce «ce­ri­mo­nia quo­ti­dia­na», tutto quan­to pre­vi­sto dalla tra­di­zio­ne li­tur­gi­ca era non una stra­ti­fi­ca­zio­ne di vec­chi e vuoti for­ma­li­smi ac­cu­mu­la­ti­si in se­co­li di cri­stia­ne­si­mo, bensì con­ti­nuo, vivo, ri­man­do a Cri­sto e alle sacre scrit­tu­re che rac­con­ta­no la sto­ria del cam­mi­no di Dio con l’uo­mo. Nel Tempo, in ogni tempo.

La chie­sa di Saint Jac­ques a Il­liers in una car­to­li­na d’e­po­ca. Nella Re­cher­che prou­stia­na la chie­sa pren­de­rà il nome di Saint Hi­lai­re.
Ed è dav­ve­ro sor­pren­den­te che, a con­clu­sio­ne del­l’ar­ti­co­lo, il ro­man­zie­re abbia mosso il suo ac­co­ra­to ap­pel­lo in fa­vo­re delle ama­tis­si­me cat­te­dra­li e di tutte «le belle chie­se di Fran­cia» ti­ran­do in ballo pro­prio uno dei riti di de­vo­zio­ne più sem­pli­ci e an­ti­chi della tra­di­zio­ne cri­stia­na; si­cu­ra­men­te tra i più cari al Po­po­lo di Dio: «Là, dalle ba­lau­stre in­can­te­vo­li di un bal­co­ne ro­ma­ni­co o dalla so­glia mi­ste­rio­sa di un por­ta­le go­ti­co soc­chiu­so, che fonde al­l’o­scu­ri­tà il­lu­mi­na­ta della chie­sa il sole dor­mien­te al­l’om­bra dei gran­di al­be­ri che la cir­con­da­no, noi dob­bia­mo con­ti­nua­re a ve­de­re la pro­ces­sio­ne che esce dal­l’om­bra mul­ti­co­lo­re spio­ven­te dagli al­be­ri di pie­tra della na­va­ta e im­boc­ca nella cam­pa­gna, di tra le co­lon­ne tar­chia­te, sor­mon­ta­te da ca­pi­tel­li di fiori e frut­ti, quei sen­tie­ri dei quali si può dire, come il pro­fe­ta di­ce­va del Si­gno­re: “Tutti i suoi sen­tie­ri sono pace”».

Chis­sà che in que­sto fran­gen­te a Prou­st non fosse tor­na­ta alla mente la chie­sa del suo paese na­ta­le, Saint-Jac­ques di Il­liers, che, sep­pur con di­ver­so nome, aveva vo­lu­to im­mor­ta­la­re in Du côté de chez Swann, il primo vo­lu­me della Re­cher­che di cui si è ap­pe­na ce­le­bra­to il cen­te­na­rio della pub­bli­ca­zio­ne (14 no­vem­bre). A quel caro ri­cor­do d’in­fan­zia lo scrit­to­re aveva vo­lu­to de­di­ca­re al­cu­ne tra le pa­gi­ne più belle e più im­por­tan­ti della sua «cat­te­dra­le» di carta e pa­ro­le, le prime dopo la ce­le­bre epi­fa­nia della ma­de­lei­ne, nella quale il Nar­ra­to­re, as­sa­po­ran­do il dol­cet­to fran­ce­se im­be­vu­to di tè (la pe­ti­te ma­de­lei­ne ap­pun­to), sente riaf­fio­ra­re dalle pro­fon­di­tà del pro­prio in­con­scio le fi­gu­re, gli am­bien­ti e le emo­zio­ni d’in­fan­zia. Così, il primo dei ri­cor­di ri­sve­glia­ti dalla «me­mo­ria in­vo­lon­ta­ria» va pro­prio a quel­la chie­sa che «rias­su­me­va la città, la rap­pre­sen­ta­va, par­la­va di lei e per lei ai lon­ta­ni oriz­zon­ti e poi, quan­do ci si av­vi­ci­na­va, te­ne­va stret­ti in­tor­no al suo alto manto scuro, in aper­ta cam­pa­gna, con­tro vento, come una pa­sto­ra le sue pe­co­re, i dorsi grigi e la­no­si delle case rac­col­te»; e, qual­che pa­gi­na più in là, al suo cam­pa­ni­le, i cui pen­dii di pie­tra «s’av­vi­ci­na­va­no in­nal­zan­do­si come mani giun­te»; e che «inat­te­so […] s’e­le­va­va da­van­ti ai miei occhi come il dito di Dio, na­sco­sto col corpo den­tro la folla degli umani senza che per que­sto io po­tes­si con­fon­der­lo con loro».

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