"IL PAPA HA RAGIONE: TUTTO DEVE RICOMINCIARE DA CRISTO"
di Marina Corradi
Quella
tonaca nera svolazzante sulla rue Canabière, tra una folla più
maghrebina che francese, ti fa voltare. Toh, un prete, e vestito come
una volta, per le strade di Marsiglia. Un uomo bruno, sorridente, eppure
con un che di riservato, di monacale. E che storia, alle spalle:
cantava nei locali notturni di Parigi, solo otto anni fa è stato
ordinato e da allora è parroco qui, a Saint-Vincent-de-Paul.
Ma
la storia in realtà è anche più complicata: Michel-Marie
Zanotti-Sorkine, 53 anni, discende da un nonno ebreo russo, immigrato in
Francia, che prima della guerra fece battezzare le figlie. Una di
queste figlie, scampate all’Olocausto, ha messo al mondo padre
Michel-Marie, che per parte paterna è invece mezzo corso e mezzo
italiano. (Che bizzarro incrocio, pensi: e guardi con stupore la sua
faccia, cercando di capire com’è un uomo, con dietro un tale nodo di
radici). Ma se una domenica entri nella sua chiesa gremita, e ascolti
come parla di Cristo con semplici quotidiane parole; e se osservi la
religiosa lentezza dell’elevazione dell'ostia, in un silenzio assoluto,
ti domandi chi sia questo prete, e cosa in lui affascini, e faccia
ritornare chi è lontano.
Infine ce l’hai davanti, nella sua
canonica bianca, claustrale. Sembra più giovane dei suoi anni; non ha
quelle rughe di amarezza che marchiano col tempo la faccia di un uomo.
Una pace addosso, una letizia che stupisce. Ma lei chi è?, vorresti
chiedergli immediatamente.
Davanti a un pasto frugale, cenni di
una vita intera. Due splendidi genitori. La madre, battezzata ma solo
formalmente cattolica, lascia che il figlio frequenti la Chiesa. La fede
gli è contagiata "da un vecchio prete, un salesiano in talare nera,
uomo di fede generosa e smisurata". Il desiderio, a otto anni, di essere
sacerdote. A tredici perde la madre: "Il dolore mi ha devastato. E però
non ho mai dubitato di Dio". L’adolescenza, la musica, e quella bella
voce. I piano bar di Parigi potranno sembrare poco adatti a discernere
una vocazione religiosa. Eppure, intanto che la scelta lentamente
matura, i padri spirituali di Michel-Marie gli dicono di restare nelle
notti parigine: perché anche lì c’è bisogno di un segno. La vocazione
infine preme. Nel 1999, a 40 anni, si avvera il desiderio infantile:
sacerdote, e in talare, come quel vecchio salesiano.
Perché la
talare? "Per me – sorride – è una divisa da lavoro. Vuole essere un
segno per chi mi incontra, e soprattutto per chi non crede. Così sono
riconoscibile come sacerdote, sempre. Così per strada sfrutto ogni
occasione per fare amicizia. Padre, mi chiede uno, dov’è la posta?
Venga, l’accompagno, rispondo io, e intanto si parla, e scopro che i
figli di quell’uomo non sono battezzati. Me li porti, dico alla fine; e
spesso quei bambini, poi, li battezzo. Cerco in ogni modo di mostrare
con la mia faccia un’umanità buona. L’altro giorno addirittura – ride –
in un bar un vecchio mi ha chiesto su quali cavalli puntare. Io gli ho
dato i cavalli. Ho chiesto scusa alla Madonna, fra me: ma sai, le ho
detto, è per fare amicizia con quest’uomo. Come diceva un prete, che è
stato mio maestro, a chi gli chiedeva come convertire i marxisti:
'Occorre diventare loro amici', rispondeva".
Poi, in chiesa, la
messa è severa e bella. Il prete affabile della Canabière è un prete
rigoroso. Perché cura tanto la liturgia? "Voglio che tutto sia
splendente attorno all’eucarestia. Voglio che all’elevazione la gente
capisca che Lui è qui, davvero. Non è teatro, non è pompa superflua: è
abitare il Mistero. Anche il cuore ha bisogno di sentire".
Lui
insiste molto sulla responsabilità del sacerdote, anzi in un suo libro –
ha scritto numerosi libri, e scrive ancora, a volte, canzoni – afferma
che un sacerdote che abbia la chiesa vuota si deve interrogare e dire:
"È a noi che manca il fuoco". Spiega: "Il sacerdote è 'alter Christus', è
chiamato a riflettere in sé Cristo. Questo non significa chiedere a noi
stessi la perfezione; ma essere consci dei nostri peccati, della nostra
miseria, per poter comprendere e perdonare chiunque si presenti in
confessionale".
In confessionale, padre Michel-Marie va tutte le
sere, con assoluta puntualità, alle cinque, sempre. (La gente, dice,
deve sapere che il prete c’è, comunque). Poi resta in sacristia fino
alle undici, per chiunque desideri andarci: "Voglio dare il segno di una
disponibilità illimitata". A giudicare dal continuo pellegrinaggio di
fedeli, a sera, si direbbe che funzioni. Come una domanda profonda che
emerga da questa città, apparentemente lontana. Cosa vogliono? "La prima
cosa è sentirsi dire: tu sei amato. La seconda: Dio ha un progetto su
di te. Non bisogna farli sentire giudicati, ma accolti. Occorre far
capire che l’unico che può cambiare la loro vita è Cristo. E Maria. Due
sono le cose che secondo me permettono un ritorno alla fede: l’abbraccio
mariano, e l’apologetica appassionata, che tocca il cuore".
"Chi
mi cerca – continua – prima di tutto domanda un aiuto umano, e io cerco
di dare tutto l’aiuto possibile. Non dimenticando che il mendicante ha
bisogno di mangiare, ma ha anche un’anima. Alla donna offesa dico:
mandami tuo marito, gli parlo io. Ma poi, quanti vengono a dire che sono
tristi, che vivono male... Allora chiedo: da quanto lei non si
confessa? Perché so che il peccato pesa, e la tristezza del peccato
tormenta. Mi sono convinto che ciò che fa soffrire tanta gente è la
mancanza dei sacramenti. Il sacramento è il divino alla portata
dell’uomo: e senza questo nutrimento non possiamo vivere. Io vedo la
grazia operare, e che le persone cambiano".
Giornate totalmente
donate, per strada, o in confessionale, fino a notte. Dove prende le
forze? Lui – quasi pudicamente, come si parla di un amore – dice di un
profondo rapporto con Maria, di una confidenza assoluta con lei: "Maria è
l’atto di fede totale, nell’abbandono sotto alla Croce. Maria è
assoluta compassione. È pura bellezza offerta all’uomo". E ama il
rosario, l’umiltà del rosario, il prete della Canabière: "Quando
confesso, spesso dico il rosario, il che non mi impedisce di ascoltare;
quando do la comunione, prego". Lo ascolti intimidita. Ma allora, tutti i
preti dovrebbero avere una dedizione assoluta, quasi da santi? "Io non
sono un santo, e non credo che tutti i preti debbano essere santi. Però
possono essere uomini buoni. La gente sarà attratta dal loro volto
buono".
Problemi, in strade a così forte presenza di musulmani
immigrati? No, dice semplicemente: "Rispettano me e questa veste". In
chiesa accoglie chiunque con gioia: "Anche le prostitute. Do loro la
comunione. Che dovrei dire? Diventate oneste, prima di entrare qui?
Cristo è venuto per i peccatori e io ho l’ansia, nel negare un
sacramento, che lui un giorno me ne possa rendere conto. Ma noi sappiamo
ancora la forza dei sacramenti? Ho il dubbio che abbiamo troppo
burocratizzato l’ammissione al battesimo. Penso al battesimo di mia
madre ebrea, che, quanto alla richiesta di mio nonno, fu un atto solo
formale: eppure, anche da quel battesimo è venuto un sacerdote".
E
la nuova evangelizzazione? "Vede – dice al congedo, nella sua canonica –
più invecchio e più capisco ciò che ci dice Benedetto XVI: tutto
davvero ricomincia da Cristo. Possiamo solo tornare alla sorgente".
Più
tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera
mossa dal passo veloce. "La porto – ti ha detto – perché mi riconosca
uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che
mi è estremamente caro".
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Il giornale che ha pubblicato il reportage:
> Avvenire
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