Harry Wu, il Solgenitsyn cinese
Controrivoluzionario,
cattolico, reazionario, revisionista: con queste etichette, con queste
genericissime accuse, che ricordano le condanne giacobine della
rivoluzione francese, e l’articolo 58 del codice penale sovietico,
milioni di uomini sono stati e sono rinchiusi a tutt’oggi nei campi di
concentramento cinesi, senza processo alcuno.
Il
regime li chiama “campi per la rieducazione attraverso il lavoro”,
utilizzando la stessa terminologia ingannatrice dei nazionalsocialisti e
dei sovietici.
L’unica
differenza, scrive Harry Wu, è che i lager sono stati chiusi nel 1945, i
gulag hanno continuato per altri decenni, mentre i lager cinesi, sono
ancora in perfetta salute, cinquant’anni dopo l’ascesa al potere di Mao.
“Morirò contento, scrive Harry Wu nella prefazione alle sue straordinarie e imperdibili memorie[1], quando la parola laogai apparirà sui dizionari di tutte le lingue del mondo”;
quando l’Occidente non fingerà più di non vedere, per interessi
economici e per l’astuta propaganda di quei “nostalgici comunisti di
tutti i paesi” che, ancora “occupati a occultare tenacemente il gulag
sovietico”, non possono tollerare “l’ulteriore conoscenza della realtà
concentrazionaria socialista in veste cinese”.
La
storia di Harry Wu è quella di un ragazzo di buona famiglia, il cui
padre, banchiere a Shanghai, ha studiato in una scuola cristiana
e appartiene alla “classe medio alta occidentalizzata”. Allo scoppio
della rivoluzione maoista il padre di Harry non vuole scappare, ma pensa
che continuerà a servire il nuovo governo, da fedele patriota. Non sa
che la semplice appartenenza alla borghesia costituisce per Mao un
peccato originale incancellabile, da pagare tutta la vita con
l’emarginazione e la persecuzione. Harry frequenta le scuole dei Gesuiti
con grande entusiasmo: “Ciò che più mi affascinava di quella religione straniera -ricorda- era la gentilezza, l’onestà e la serenità dei preti”.
Ma ben presto i sacerdoti come padre Capolito, che ha introdotto Wu
all’amore per le materie scientifiche, vengono scacciati dal paese, e
nelle scuole prendono il sopravvento “due nuovi corsi: uno sulla teoria
di Darwin e l’altro sulla teoria di sviluppo sociale marxista”.
Per
eliminare i missionari cristiani, per cancellare il buon ricordo che il
popolo aveva di loro, il governo comunista provvede a spargere a piene
mani calunnie, spiegando che nella chiese della città i sacerdoti, “lupi in abiti religiosi”
, ammassavano armi, segno evidente del loro essere “spie ed agenti
degli imperialisti”; che negli orfanotrofi gestiti da religiosi i
bambini non venivano affatto curati, ma lasciati morire di fame; e,
infine, che esistevano “relazioni intime tra preti stranieri e donne cinesi”.
Mentre il mondo intorno a lui cambia vertiginosamente, Wu decide di iscriversi all’Istituto di Geologia di Pechino.
Il suo interesse è lo studio, ma ben presto si rende conto che il
Partito vuole prendersi la vita dei giovani: le sedute per studiare i
documenti del partito si alternano ai saggi autobiografici che ognuno
deve scrivere periodicamente per svelare le sue idee, i suoi pensieri e
la storia della sua famiglia. Tutto può essere usato contro di te, o
perché hai omesso di denunciare il padre “capitalista”, o semplicemente
perché non lo deplori abbastanza, o perché non hai ancora una coscienza
sufficientemente rivoluzionaria e conservi residui di “mentalità
borghese”. In un modo o nell’altro il povero Wu, durante la Campagna dei
Cento Fiori, in cui Mao ha
chiesto ai cinesi di esprimersi liberamente sui suoi primi anni di
governo, si permette qualche piccola critica all’operato del Partito.
Diventa così un “controrivoluzionario di destra”, ed è chiamato a
scrivere un’autocritica dietro l’altra, da presentare ai suoi superiori,
a partecipare a “sessioni di lotta” in cui deve auto-accusarsi dinanzi
ai compagni – ammettendo di essere cresciuto in una famiglia ricca, di
aver condotto una vita agiata, di aver dedicato tempo allo sport,
inutile per i bisogni delle masse-, e in cui i compagni fanno a gara ad
inveire contro la vittima designata di turno.
Il suo destino è dunque segnato: viene inviato in campi di lavoro forzati, senza sapere bene né il perché né la durata della condanna. Per
ben 19 anni vivrà in luoghi dalle condizioni di vita impossibili,
aziende agricole e miniere di stato, senza alcun diritto, soffrendo la
fame, le percosse, le umiliazioni più terribili, sempre nel terrore di
nuove condanne. Il sistema fa
infatti in modo che nei laogai tutti diventino nemici: non si può
parlare con gli altri detenuti, formando piccoli gruppetti, altrimenti
si viene etichettati come “cricca rivoluzionaria”, con pene durissime; i
capi invitano alla delazione, e i prigionieri si accusano a vicenda per
dimostrarsi ligi al partito e meritare un boccone in più. Molti muoiono
di fame, altri di diarrea, dissanguati, altri si suicidano. Si vive in
mezzo ai propri escrementi, spesso rinchiusi in celle piccolissime, dove
si sta a malapena, rannicchiati su se stessi. Intere pagine sono
dedicate ai tentativi di procurarsi un cavolo o una vecchia carota, di
nascosto; agli scavi per rubare i depositi di cibo dei topi; alla
descrizione di compagni di prigionia ormai incapaci di controllare gli
sfinteri e morti, nelle latrine, di dissenteria. Vi sono descrizioni
struggenti di prigionieri che si siedono e iniziano a descrivere e ad
immaginare cibi succulenti, vivande saporite, fingendo di assaggiarle,
di gustarle veramente.
Eppure, in mezzo a questa disperazione, alla lotta di tutti contro tutti, Wu non si arrende,
non si rassegna a perdere ogni umanità, a divenire un bruto attento
solo alla sua sopravvivenza: il suo diario è pieno di domande, sul
perché di tanto dolore (“Qualcosa dentro di me gridava: dove è il mo Dio, mio Padre? Aiutami. Guidami. Benedicimi”),
ma anche di tentativi di alleviare la sofferenza dei compagni, di
combattere il proprio egoismo, di rendere più umano il rapporto con gli
altri detenuti, di non perdere del tutto generosità e compassione. Ogni
volta che acquista una posizione all’interno del campo, e riceve un
ruolo di qualche importanza, si accende nel suo animo una lotta immensa:
mantenere i privilegi raggiunti, magari a scapito degli altri, oppure
rispettare la giustizia? “Avevo perduto i miei privilegi, scrive ad un
certo punto, riferendosi proprio ad un gesto di generosità che gli era
costato la fiducia del suo superiore, ma avevo riconquistato il rispetto
di me stesso”.
Leggere la vita di Wu, non è analizzare la storia della lotta politica allo schiavismo,
impossibile in certe condizioni, ma osservare e contemplare la lotta
umana, spirituale, di un uomo, in questo caso di un cristiano, che non
vuole perdere la Speranza, di fronte al dolore, all’assurdità,
all’egoismo che inevitabilmente si rafforza quando si è in condizioni
disperate, e che nello stesso tempo vuole contrastare con la sua visione
religiosa dell’uomo e della sua dignità, quella concezione
materialistica che è all’origine dei Laogai e dello sfruttamento
sistematico dell’uomo sull’uomo. “La
vita umana qui non ha valore -pensa Wu-, non è più importante della
cenere di sigaretta sparsa nel vento. Ma se la vita di una persona non
ha valore, allora anche la società che foggia questa vita non ha valore.
Se la gente non è altro che polvere (secondo il materialismo marxista,
ndr), allora la società non vale nulla e non merita di continuare. E se
la società rischia di non continuare, tocca a me fare qualcosa per
impedirlo. In quel momento seppi che non potevo morire”. Ad un certo punto Wu riporta un interessante diaologo con un suo carceriere di nome Yang:
“
‘Bene’, replicò…Poi il suo tono cambiò. “Ho letto il tuo fascicolo. Sei
cattolico?”…Secondo la dottrina comunista si poteva diventare un vero
marxista soltanto dopo aver rinunciato a qualsiasi fede in Dio. A
partire dal 1950, cristiani, buddisti e musulmani erano stati
ferocemente attaccati in una serie di movimenti politici nazionali.
Avevo visto alcuni dei miei insegnanti criticati e condannati per aver
diffuso il veleno di una fede straniera. Ci si aspettava che i comunisti
fossero materialisti e atei, e io sapevo che il capitano Yang mi stava
sfidando a ripudiare la mia fede dell’infanzia. “Quando ero piccolo,
risposi cauto, sono stato battezzato a scuola”. “Che cosa è il
battesimo?”, replicò con sarcasmo. “Non è come un bagno o una doccia?”.
Yang era una persona ignorante, ma ora stava giocando con me al gatto e
al topo. Anche se ero un suo favorito, percepivo la sua crudeltà.
Scuotendo le spalle risposi con noncuranza. “Non ne sono sicuro, ma
penso sia una cerimonia seria”. “I cattolici dicono che l’essere umano è
stato creato da Dio. Come ha fatto? Ha preso semplicemente della terra
in mano e vi ha soffiato sopra, come una specie di magia?”. Per quanto
remote fossero ormai le mie credenze cattoliche, mi sentii assalire
dalla rabbia e decisi che dovevo mettere fine a quella conversazione.
“Lei è un membro del partito”, cominciai, rispettosamente. “Deve per
forza essere materialista”. Annuì. “Mi direbbe da dove vengono gli
esseri umani?”. Sicuro di sé, sembrò soddisfatto dell’opportunità per
educarmi. “Gli uomini, sentenziò, si sono evoluti dalle scimmie”. Mi
finsi ignorante. “Allora significa che la scimmia era un nostro
antenato?”. “Credo di sì”. “Allora quando vado allo zoo, posso vedere i
suoi progenitori?”. La faccia di Yang si rannuvolò. “Una scimmia è una
scimmia; i miei antenati sono i miei antenati. C’è qualche collegamento.
Non sono esattamente sicuro…”. Anch’io assunsi un’espressione confusa,
ma dentro di me mi ritenevo soddisfatto…L’unica differenza tra
quest’uomo e le scimmie, pensai, è che le scimmie non fumano sigarette.
Per la prima volta riconobbi pienamente i miei sentimenti di disprezzo
verso il mio padrone. “Comunque, continuò Yang, il tuo Dio non ti è
d’aiuto qui”. “Come lo sai?”, chiesi. “Non può tirarti fuori di qui e
non può procurarti del cibo”, riprese Yang. “E’ vero, ripresi cauto, ma
non mi ha realmente lasciato solo. E mi offre un altro tipo di cibo”. “A
che serve?”, insistette Yang. “Penso che prima o poi lo abbandonerai”.
“Un giorno abbandonerò la mia vita corporale, ma non quella spirituale”,
affermai serenamente. In quel momento di prova, sentivo la mia fede
in Dio rafforzarsi e riaffermarsi. “Sei molto testardo! Hai una lunga
strada da fare per riformarti…”, conclude il capitano Yang.
Nella barbarie più cupa, un uomo che mantiene il senso del divino e della dignità umana,
e che, una volta libero, continua a lottare per la giustizia e per la
liberazione dei fratelli, è un miracolo di cui stupirsi e di cui
ringraziare. Un miracolo che la fede, in questo caso ed in moltissimi
altri, ha reso possibile.
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