Hannah Arendt, l’ebrea che scandalizzò il mondo mostrando la “banalità” dello sterminio nazista
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gennaio 27, 2014
Luigi Amicone
Nel film magistrale di Margarethe
Von Trotta i quattro anni in cui la filosofa perse gli amici e la
reputazione raccontando il processo Eichmann e la “burocrazia” della
Shoah. Proiezione straordinaria per i lettori di Tempi
Gli spietati esecutori dello sterminio di sei milioni di ebrei appartenevano a questa terra. E non erano belve. Né mostri. Né diavoli. In effetti, ci rammentano i dialoghi e le immagini storiche e di repertorio del processo Eichmann visto con gli occhi di Hannah Arendt (che lo ha seguito in presa diretta a Gerusalemme nel biennio 1961-1962), i volenterosi carnefici degli ebrei erano dei «signor nessuno». «Perfette nullità». «Mediocrità». «Funzionari». «Burocrati». Erano l’omino inquadrato dalle telecamere di tutto il mondo e che riemerge da spezzoni di un documentario in bianco e nero, ripreso mentre sconcertato, incerto, tremolante, risponde alle domande del Procuratore generale «… ma la legge è legge… Ho solo eseguito ordini… Mi state rosolando come una bistecca sulla griglia».
«Avrei ucciso mio padre»
Ecco, per capire e tramandare una memoria veramente viva e veramente efficace della Shoah, sostiene la Arendt che ci viene magistralmente narrata da una grande regista e dalla strepitosa sceneggiatura di Pam Katz, bisogna ricordare e tenere sempre bene a mente questa terribile verità: per la prima volta nella storia, milioni e milioni di esseri umani inermi furono trucidati, gasati, arsi nei forni, resi polvere al vento, non per lo scatenamento di un odio irrefrenabile e apocalittico divenuto follia di massa. Ma per una grigia teoria che ha cominciato col marchiare un certo gruppo religioso e sociale, impedendogli di fare cose che fanno tutti (lavorare, salire su un autobus, scrivere, insegnare, educare secondo la propria coscienza, identità e cultura). A un certo punto, la teoria ha finito per tirare le conseguenze e ha spalancato le porte all’inferno come normalità impiegatizia. Le uccisioni di massa diventano un affare di normale procedura e organizzazione di Stato (nel caso, con tipica determinazione teutonica). Massimo impiego di poteri impersonali, straordinaria perizia logistica e immenso dispiegamento di mezzi e uomini.
Un’impresa “industriale”
I russi entrano a Treblinka nel luglio 1944. Verosimilmente, è la data degli ultimi “carichi”, ultimi “trasporti”, ultima fase dello sterminio di un popolo. Dunque, occorsero meno di cinque anni per trasportare, uccidere, incenerire, occultare sei milioni di persone. Facendo i conti a spanne, si è trattato di una colossale impresa “industriale” realizzata all’incredibile media di oltre un milione di uccisioni l’anno, centomila al mese, più di tremila al giorno, centocinquanta all’ora. Quasi tre persone uccise ogni minuto. Per cinque anni. E mentre caricavano treni e facevano sparire gli ebrei, i tedeschi dovevano affrontare la vita quotidiana, la guerra, l’offensiva su tutti i fronti delle potenze alleate; dovevano far sparire gli ebrei e nel contempo combattere al fronte, fare la spesa e caricare i treni, vestire i bambini e avere gli incubi per il bambino ebreo della porta accanto che loro stessi avevano denunciato alla Gestapo.
Non basta. C’è una seconda parte della storia della Shoah riletta da Hannah Arendt. Ed è, tutto sommato, la parte meno interessante, anche se nel film viene rappresentata in maniera drammaticamente e storicamente impeccabile. Certo, si capisce che anche l’intelligente socialista Margarethe Von Trotta è lì lì per commettere il grande e imperdonabile peccato della modernità. Il peccato degli uomini medi diffidenti e furbi, sorta di intellettuali e caricature di filosofi che dubitano e che per alimentare i loro dubbi, la loro pseudo ricerca, la loro pensosità stupida, hanno bramosia d’informazione come di zucchero (anche questa è un’idea messa nero su bianco al tempo in cui non esisteva ancora wikipedia dalla migliore amica di Hannah Arendt, quella Mary McCarthy splendidamente interpretata nel film da Janet McTeer). Però, siccome Von Trotta è veramente intelligente e, dunque, ha accettato il dialogo con Pam Katz («con lui siamo riuscite a scrivere la sceneggiatura grazie a una sorta di “ping-pong”, per cui discutevamo il lavoro per mail, al telefono e di persona, a New York, Parigi e in Germania»), ha capito che se voleva raccontare Hannah non poteva pensare né allo zucchero, né a wikileaks, né ergersi a tribunale e avvocato dei tedeschi. E magari avrà pure riflettuto sul fatto che, in fondo, la moderna retorica sulla “totale trasparenza” e sul “diritto all’informazione” come diritto a sapere tutto di tutti, si riduce a questo: vogliono farti sapere che qualcuno ti ha tradito e sentirti rispondere “sono indignato, li denuncio, in galera”.
Nel caso di Hannah la questione è più seria e complicata. Voleva capire. E in più, aveva anche un motivo molto personale per approfondire la comprensione di certi fatti. Forse a guidare la cocciutaggine di Hannah (o “arroganza”, come ripetono nella pellicola i suoi detrattori) fu il pensiero del doppiopesismo con cui da una parte venne unanimemente condannato il suo “re nascosto e segreto” (l’amato Martin Heidegger) per la sua adesione al nazismo. Dall’altra era scesa una spessa coltre di silenzio sulle responsabilità di certi capi dell’ebraismo nella collaborazione con gli aguzzini degli ebrei. Argomento che durante il processo a Gerusalemme, a parere di Hannah, venne «deliberatamente e inspiegabilmente evitato». Dopo di che, ebbe certamente le sue ragioni Kurt Blumenfeld, definitivamente perduto come amico: «Hannah, questa volta hai esagerato».
Ed eccoci dunque al secondo corno spinoso del film di Von Trotta: nelle sue corrispondenze da Gerusalemme e da altre ricerche che Arendt aveva svolto in Europa (poi rifluite nel libro La banalità del male), erano emersi fatti che dimostravano l’avvenuta collaborazione all’Olocausto di alcuni capi di agenzie e consigli ebraici. Oltre che nei dialoghi, nel film questa tragedia è evocata dall’immagine di repertorio in cui si vede uno spettatore al processo che interrompe con urla e invettive la deposizione di un rabbino ungherese.
L’amico e teologo Gershom Scholem scriverà in proposito ad Hannah: «Ho ammesso che il problema è abbastanza reale. Perché, allora, il tuo libro dovrebbe comunicare una sensazione di amarezza e di vergogna così forte che non riguarda il contenuto, bensì l’autore?». Ecco, prosegue Scholem le cui parole nel film vengono messe sulla bocca di Kurt, «nella tradizione ebraica c’è un concetto, difficile da definire e tuttavia abbastanza concreto, che conosciamo come Ahabath Israel: “L’amore per il popolo ebraico”. In te, cara Hannah, non ne trovo traccia».
Comunque sia, questo è il clima che fa da cornice al viaggio di Hannah a Gerusalemme e alle sue corrispondenze e riflessioni sulla Shoah. In definitiva, è un vero peccato che la proiezione in Italia di questo film distribuito da Nexo Digital e Ripley’s Film sia prevista solo nei giorni 27 e 28 gennaio. Dovrebbero poterla ascoltare e vedere tutti la storia di una donna che ebbe contro il mondo perché il mondo pensava che lei, famosa e brillante ebrea in carriera, sarebbe andata a Gerusalemme per scrivere ciò che il mondo si aspettava che lei scrivesse. Spettacolo dell’orrore, indignazione per il mostro, compassione per gli ebrei. Hannah fece molto di più. Guardò in faccia gli autori del male e mostrò che non è difficile essere come loro.
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