UN COLLOQUIO DI MESSORI CON BALTHASAR
di Vittorio Messori da:
www.papalepapale.com
Il teologo Balthasar
“Mi raccomando – dice congedandoci dopo un lungo colloquio –. Non fate di me una vedette.
Ciò che importa sono i problemi, non la mia persona”. Deve partire,
l’abbiamo trattenuto più del previsto, ma con un tocco che rivela la sua
attenzione alle persone, si informa del nostro programma, vuole darci
alcune indicazioni concrete. “Tenete presente il buffet della stazione:
il prezzo è buono e non si sta male”.
Alto, asciutto, vestito
austeramente di scuro, lucidissimo: a 80 anni il “grande vecchio di
Basilea”,“l’uomo più colto del secolo”, l’autore di quasi settanta libri
che hanno segnato a fondo il nostro tempo (e il recente Premio Paolo VI
lo ha riconfermato), Hans Urs von Balthasar, insomma, è più attivo e
presente che mai.
Per molti, quest’uomo sembra
rappresentare la sintesi vivente di ciò che dovrebbe essere il teologo
secondo lo spirito del Vaticano II. Eppure, fu escluso dai lavori di
quel Concilio per il quale aveva profondamente contribuito a creare un
clima propizio.
Anche nella Roma di Papa Giovanni
si diffidava dì lui e delle sue aperture, della sua attenzione ai sogni
del tempo. Soltanto nel 1969 finiva il suo lungo esilio “ufficiale”,
con la chiamata — fattagli da Paolo VI — alla Commissione teologica
internazionale che affianca la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Pensatore tra i più moderni, e insieme incrollabilmente
radicato nella grande tradizione della Chiesa, il destino di von
Balthasar è stato quello di altri grandi vecchi della teologia
cattolica, da Maritain al suo amico e maestro De Lubac in odore di
“progressismo” prima del Vaticano II, in sospetto di “moderatismo”
dopo, stando almeno alle lobbies che controllano e manipolano gran
parte dell’attuale informazione ecclesiale. Nessuno però, né prima né
dopo, ha mai messo in discussione la sua straordinaria statura teologica
e, quel che più conta, spirituale. I molti volumi di Gloria, la
sua opera maggiore, sono già tra i classici: ma è ben noto anche il suo
coinvolgimento nella teoria e nella pratica della mistica in cui vede il
vertice dell’esperienza religiosa.
Balthasar giovane studente di germanistica nella Vienna del 1927
Nella Arnold Böcklin-Strasse
di quella Basilea che da secoli è un crogiuolo di teologia, di
filosofia, di avventure del pensiero, la casetta di von Balthasar ha la
grazia modesta e schiva deIIa Svizzera tedesca. Un cancello che dà su un
giardinetto — poco più che un’aiuola – una scala, il vecchio professore
che accoglie, guidando in uno studio foderato di libri. Entrando, si
sbirciano le pareti, a cogliere i“segni” di chi abita qui. Ecco
infatti, subito nell’ingresso, due ritratti esemplari: santa Teresa di
Lisieux e la maschera funebre di Ignazio di Loyola (von Balthasar fino
al ‘48 fu gesuita passando poi, per un suo preciso disegno di
apostolato, tra il clero diocesano).
Lo studio è dominato da una grande statua
in legno della Vergine mentre, proprio sopra la porta, è collocata
quella tragica Crocifissione di Grunewald davanti alla quale Dostoewskij
cadde nel delirio epilettico: forse l’immagine pittorica più consona a
illustrare il “Gesù in agonia alla fine del mondo” di cui parlò
quell’altro grande, Blaise Pascal, carissimo a von Balthasar. Assieme
alla Trinità, a Maria, alla Chiesa, al centro della sua riflessione vi è
da sempre“il caso serio” della Croce che giudica ogni ottimismo umano
troppo facile e superficiale.
Sulla scrivania, sotto una piccola foto di Giovanni Paolo II, è aperta la Basel Zeitung,
uno dei tanti giornali del mondo che hanno pubblicato l’ultima,
furibonda aggressione di Hans Kung al Papa e ai suoi diretti
collaboratori.
Iniziando il colloquio, viene
spontaneo chiedergli se ha già letto il testo di quel suo collega nato,
come lui, nel cantone di Lucerna. Scuote il capo, come rattristato,
parla a voce bassa, guardando fisso negli occhi:
***
Kung non è più cristiano da un pezzo
Molti
lo ignorano, ma Hans Kung, lo stravagante strepitatore più o meno
teologico, è un prete. Qui una rarissima foto in abiti clericali, lui
giovanissimo. Fonte: popscreencdn.com
“Sono almeno dieci anni che quest’uomo
ripete sempre le stesse cose. Il solo fatto nuovo è il crescere del tono
polemico. In realtà, sin dai tempi del suo libro ‘Essere
cristiani’, Hans Kung non è più cristiano”.
Vorrà dire non più cattolico.
No, non è più cristiano. Basta leggere i
suoi ultimi libri, anche quello recentissimo sulle altre religioni:
Kung non è più cristiano. Per lui, Gesù non è altro che un profeta; il
problema, dunque, si riduce a una discussione se sia stato o no un
profeta maggiore di Budda, di Confucio, di Maometto. Non a caso è stato
invitato da Khomeini in Iran per delle conferenze, dove ha ribadito che
c’è un solo Dio e tanti profeti. Ormai, per lui — lo dice chiaro,
appunto, in quel suo libro non ancora tradotto in italiano — il
cristianesimo è una via di salvezza tra le tante.
Se davvero è così, è inutile attardarsi in quel “dialogo” che pur pretende con toni tanto urlati dalla gerarchia cattolica.
“Kung si situa ormai fuori per sua scelta, dalla Chiesa: dunque, non ha più nulla da
dire ai vescovi. In realtà, non ha più nulla da dire neanche ad altri, a
cominciare dai protestanti. In effetti, da quando il suo Istituto di
teologia ecumenica non è più riconosciuto come cattolico, Kung
rappresenta solo sé stesso. Forse, anche per questa situazione in cui si
è trovato, ha spostato il discorso dall’ecumenismo tra cristiani a
quello con le religioni non cristiane”.
Eppure, si ha l’impressione che
continui ad esercitare una notevole influenza: tutti i grandi quotidiani
borghesi del mondo opulento hanno dedicato pagine e pagine alla sua
requisitoria contro il Papa e Ratzinger.
Balthasar
“Il settore che rappresenta è quello di
una certa intelligencija, ma con sempre minor peso: in Germania ha
perso influenza ed è di rado invitato per conferenze, soprattutto nelle
università. Così, viaggia all’estero: è conosciuto come un buon oratore
e, soprattutto, come un nemico di Roma. Questo gli attira molte
simpatie, in certi ambienti”.
La virulenza dell’attacco all’attuale
prefetto della Congregazione per la Fede ha stupito anche coloro che
conoscevano i suoi rapporti tesi con il professor Ratzinger, quando
entrambi insegnavano a Tubinga.
“Credo che sia esasperato anche dalla
progressiva perdita di ascolto. Tra l’altro, è una menzogna l’accusa a
Ratzinger di essere cambiato da quando ‘ha fatto carriera’, come dice
lui. Io conosco Ratzinger da sempre e sempre è stato così, sempre l’ha
pensata così. In ogni caso, non è Ratzinger ma Kung che attacca il
Vaticano II giudicandolo ancora ‘clericale’, angusto, insufficiente,
chiedendo dunque un Vaticano III. Ratzinger è fedele al Concilio e il
suo ‘Rapporto sulla fede’ lo dimostra”.
Ratzinger ha ragione su tutto
Lo stile del gran teologo: il prof. Ratzinger
L’edizione tedesca è uscita da poche settimane. L’ha già letta?
“Certo che l’ho letta. Che ne penso? C’è
poco da dire: Ratzinger ha ragione. Qualcuno chiama pessimismo quello
che non è che realismo: chi ha il coraggio della verità deve
riconoscerlo. Nessuno parla di questa immensa, spaventosa defezione di
preti e di suore: se ne sono andati, e continuano ad andarsene a
migliaia”.
Dunque, Lei si riconosce nella lettura data da Ratzinger di questi ultimi vent’anni?
“Ci si può chiedere se la colpa di ciò
che è successo è del Concilio (e Ratzinger l’esclude) o se c’erano già
prima le condizioni che avrebbero provocato lo scatenarsi della crisi. È
certo che Giovanni XXIII (quello autentico, non quello di un certo mito
creato dopo la sua morte) non si aspettava che le cose sarebbero andate
in questo modo”.
Il
controverso libro di Balthasar, che negli anni ’50 gli valse una non
immotivata diffidenza ed emarginazione da parte della gerarchia
cattolica
Eppure, Lei è tra coloro che
prepararono il clima che avrebbe portato al Concilio. Il suo libro
“Abbattere i bastioni” è del 1952 e le procurò grossi problemi con
Roma.
“C’è stato un equivoco attorno a quel
libro. Io volevo che si ‘abbattessero i bastioni’ non certo perché si
scappasse dalla Chiesa, ma per permettere alla Chiesa stessa di essere
sempre più missionaria, di annunciare con ancor maggiore efficacia il
Vangelo”.
Anche l’intenzione primaria dei Padri
conciliari era missionaria ma si ha l’impressione che, invece di
proiettarsi ad extra, ci si sia ripiegati ad intra, in una interminabile
discussione tra noi a uso interna.
“Ma sì, tutti questi documenti che
nessuno legge, questa carta che io stesso sono costretto ogni giorno a
cestinare, tutte queste strutture, questi uffici delle nostre conferenze
episcopali e delle nostre diocesi! Gli stessi che chiedevano lo
snellimento della Curia romana hanno contribuito a creare una miriade di
mini-curie alla periferia della Chiesa”.
La burocrazia clericale che soffoca la missione cristiana
1936,
l’ordinazione sacerdotale di Balthasar, avvenuta in Baviera per mano
del cardinale Faulhaber, lo stesso che 20 anni dopo consacrò il giovane
Ratzinger
Dunque, lei concorda anche con le
denunce del pericolo che la Chiesa con lo sviluppo ipertrofico delle
strutture clericali si trasformi in un’enorme burocrazia fine a sé
stessa.
“Certo. Rileggiamoci anche qui il
Vangelo: Gesù ha sempre designato a un servizio delle persone, mai delle
istituzioni. Della struttura fondante della Chiesa fanno parte le
persone dei vescovi, non gli uffici burocratici. Niente di più grottesco
che pensare a un Cristo che volesse istituire delle commissioni!
Dobbiamo riscoprire una verità cattolica: nella Chiesa, tutto è
personale, niente deve essere anonimo. Sono invece delle strutture
anonime quelle dietro le quali si nascondono ora tanti vescovi.
Commissioni, sottocommissioni, gruppi e uffici di ogni tipo… Si lamenta [sic!]
che mancano i preti, ed è vero; ma migliaia di ecclesiastici sono
addetti alla burocrazia clericale. Documenti, carte che non sono lette e
che comunque non hanno alcuna importanza per la Chiesa viva. La fede è
ben più semplice di tutto questo”.
Ma perché, a suo avviso, questo avviene?
“Forse, hanno l’impressione di
fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e
allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è
arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche
della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che,
oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e
deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di
mille superficiali registrate dal computer”.
Una rarissima foto di Balthasar con i paramenti sacerdotale mentre celebra. Prediligeva i contesti e i vestiti laici
Secondo molti il problema più urgente
oggi è quello della crisi del concetto autenticamente cattolico di
Chiesa. Dicono che occorrerebbe parlarne al Sinodo.
“Forse, il Vaticano II si è fermato troppo a parlare della struttura della Chiesa. La Lumen gentium
di cui parla la Costituzione conciliare non è la Chiesa, è Cristo. È
certo che, con una lettura parziale del Vaticano II, si è fatta della
Chiesa più un gruppo sociale che non misterico, sacramentale. Vediamo
invece che sin dagli inizi la comunità cristiana ha una struttura, una
gerarchia, volute dal Cristo e basate sul collegio apostolico. Certa,
quello che la genie d’oggi cerca è il Cristo non la Chiesa, che nel suo
volto visibile non sembra credibile a molti che ne sono all’esterno.
Nella nostra predicazione, occorre mettere più che mai in rilevo
l’unicità di Gesù, la sua persona: è Lui che attira gli uomini di
sempre. Ma poi come ricorda giustamente il Vaticano II, non dobbiamo
dimenticare che non c’è Cristo senza la Chiesa e quindi dobbiamo
mostrarne l’assoluta necessità”.
Oltre a questo tema dell’ecclesiologia, quale argomento vedrebbe volentieri al centro dei lavori del prossimo Sinodo straordinario?
“Ci si potrebbe ricordare di quanto
diceva il mio amico Karl Barth, il grande teologo protestante che, in
una conferenza alla radio nei suoi ultimi anni ammonì: ‘Cattolici, non
fate le betises, le sciocchezze, che noi protestanti abbiamo fatto a partire da un secolo fa!’”
Scegliendo tra queste betises, quale, secondo Lei, la più urgente da sottoporre all’attenzione del Sinodo?
“Forse, è il problema di cui si è
parlato molto al recente convegno romano su Adrienne von Speyr. Il
problema cioè dello studio della Bibbia, dell’esegesi cosiddetta
‘scientifica’. Questi specialisti hanno fatto molto lavoro, ma è un
lavoro che non nutre la fede dei credenti. Bisogna riscoprire una
lettura più semplice della Scrittura, mettere l’esegesi ‘scientifica’ in
equilibrio con quella ‘spirituale’, non tecnica, della grande
tradizione patristica. Non credo che il Sinodo potrebbe risolvere questo
problema: potrebbe però fare un auspicio in tal senso”.
Rifare catechismo
Nella sua biblioteca a Basilea
Non si può, peraltro, impedire con un decreto il lavoro degli esegeti.
“Infatti non dico questo. C’è però il
dramma degli stessi specialisti, spesso cristiani buoni e pii, che
devono però fare un lavoro al livello di quelle università in cui sono
inseriti. E’ una condizione non sempre facile da vivere. C’è infatti il
diritto degli studiosi a guardare la Scrittura come a un vecchio libro
tra tanti e quindi da studiare con le stesse tecniche impiegate per gli
altri testi. Ma la Scrittura che conta per la fede non è questa: ciò che
conta è la Bibbia vista come il luogo dove lo Spirito Santo parla del
Cristo, in modo nuovo, a ciascuna generazione”.
L’approccio “scientifico” alla Scrittura sembra avere un fall-out, una ricaduta sconcertante nella pastorale quotidiana.
La rivista che fondò insieme a Ratzinger e ad altri, in risposta alle derive progressiste della teologia postconciliare
“In effetti le ipotesi degli specialisti
giungono diluite se non deformate ai preti, ai laici, e fanno dei
guasti. Anche di recente ho ascoltato un’omelia dove un parroco spiegava
l’incontro dei discepoli col Cristo, sulla via di Emmaus, sentendosi in
dovere di avvertire i suoi ascoltatori che non si tratta di un episodio
‘storico’. Questo dubbio coinvolge persino la realtà, la materialità
della radice stessa della fede: il racconto della Risurrezione”.
Forse, questo sconcerto tra la gente
comune è aggravato dal fatto che molti non sono più raggiunti dalla
catechesi. C’è qualche insegnante che segnala come molti laici affollino
i suoi corsi di teologia senza però conoscere la base. E cioè, il
catechismo.
“Sì, bisogna tornare a dei catechismi
seri, autentici. Anche qui Ratzinger ha ragione, dobbiamo ritrovare la
struttura ineliminabile di ogni vera catechesi: il Credo, il Pater, i
Sacramenti, il Dio creatore, il Dio redentore, lo Spirito che vive nella
Chiesa. Non è più ammissibile che ciascuno si faccia un testo a suo
gusto: da noi, nell’area germanica, ne circolano a centinaia. Spesso non
sono neppure autenticati dai. vescovi”.
TdL. Gesù per loro non è che un profeta fallito
S.Giovanni
Paolo II che, in un viaggio in America Latina, pubblicamente ammonisce
Ernesto Cardenal, prete, ministro e esponente delle TdL… a braccio
armato
Ma ci sono catechismi ufficiali (come Pierres Vivantes
in Francia) che sono stati approvati da tutta intera la Conferenza
episcopale nazionale. Eppure sono stati criticati da Roma e si è dovuto
rivederli.
“Torniamo qui al discorso sulle
strutture anonime: spesso sono delle anonimità, degli uffici, delle
commissioni. non dei vescovi con nome e cognome che danno quelle
approvazioni. E poi, temo proprio che presso certi vescovi vi sia come
paura per certe minoranze aggressive. Si dice che quattro o cinque
persone padroneggino intere conferenze episcopali, e tra le più
importanti e numerose”.
Occorre pur riconoscere che i
problemi di fronte ai quali si trovano certe Conferenze sona talmente
spinosi da rendere difficile l’unanimità. La Conferenza episcopale
brasiliana, per esempio, deve gestire un caso complicato come quello di
Leonardo Boff.
“Leonardo Boff, come Hans Kung, non è più cristiano”.
Quello che lei dice è grave. ‘
“Non lo dico io, Io dice lui. Nel suo libro, ‘Passione di Cristo, passione del cristiano’,
decima edizione, ammette di non credere alla divinità di Gesù. Sostiene
quanto già sosteneva, agli inizi del secolo, Albert Schweitzer. Come
lui, Boff dà per scontato che la divinizzazione di Gesù sia stata fatta
dai discepoli dopo la Passione. Dunque, Gesù non era che un profeta che
predicava il Regno imminente. Il Regno non è venuto, lo
scacco è stato totale. In questa luce, il grido sulla croce (‘Dio mio,
perché mi hai abbandonato?’) esprime la disperazione di un uomo che ha
fallito”.
Wojtyla aveva grande stima di Balthasar, tant’è che lo volle cardinale
Anche questo revival di vecchie tesi
del liberalismo della Belle Époque europea potrebbe confermare il
sospetto di molti: certe teologie della liberazione come esportazione
verso il Terzo Mondo di prodotti ormai démodés di intellettuali
occidentali.
“C’è del vero. Il nocciolo di quelle
teologie della liberazione viene dall’Europa ma certa elaborazione in
senso violento è poi stata concepita sul posto. Uno dei padri della
teologia della liberazione, il tedesco J.B. Metz, ha fatto conferenze in
America latina, ma a molti, laggiù, è sembrato troppo astratto: le sue
teorie volevano trasformarle in rivoluzione armata. Credo che il
documento della Congregazione per la Fede abbia ragione: non ci si può
servire delle analisi marxiste solo come una sorta di ‘strumento’
tecnico”.
Si discute anche del vero influsso
sul popolo di certe teologie della liberazione: alcuni affermano che si
tratta ancora di un fenomeno elitario.
In età matura
“Molti pensavano che la rivoluzione
marxista si sarebbe realizzata in pochi anni. Questo non è avvenuto, ma
ora si indottrina il popolo, ‘coscientizzandolo’ con delle pubblicazioni
al cui centro c’è il Cristo libertadòr, il ‘sovversivo
nazareno’. Ratzinger ha dato la precedenza a questo fenomeno perché qui
si toccano i punti decisivi della fede. É urgente che laggiù si faccia
qualcosa. I teologi non devono più improvvisarsi sociologi ed
economisti. Mi sembra che tutte le teologie della liberazione
dimentichino che l’essenziale del Nuovo Testamento è la carità: non
occorre altro, basta viverla”.
Ma molti le obietterebbero che carità è proprio aiutare i poveri a fare la rivoluzione.
“Anche il Papa ha detto che bisogna
privilegiare i poveri (questo è Vangelo), ma a Puebla ha ribadito anche
chiaramente che il cristiano deve rifuggire dalla violenza, che il clero
non deve in alcun modo mescolarsi con una politica di parte. I ‘poveri
di Jahvè’ della Bibbia non sono affatto il proletariato di Marx”.
I problemi sono tali e tanti che
qualcuno, basandosi anche su quanto avviene in questi mesi, teme che la
Chiesa possa divenire ingovernabile da Roma.
“Il Vaticano II impiega il termine di
‘comunione gerarchica’ per indicare la comunione di tutti i vescovi con
Roma, simbolo visibile dell’unità. C’è da chiedersi se certi episcopati
abbiano ancora con il Papa quella ‘comunione nell’amore’ di cui parla,
ad esempio, un san Cipriano”.
Lefebvre e i suoi non sono i “veri cattolici”
Il suo discorso ritorna così alle Conferenze episcopali.
“Ad esse, il Concilio dedica una piccola
frase. Alcuni ne hanno fatto invece il centro di tutto. Quando la
struttura diventa troppo pesante, il vescovo finisce con l’essere
paralizzato“.
Qual è il suo giudizio sullo stato attuale della liturgia?
“Se giudico dall’area germanica, ho
l’impressione che sia sobria e che, se fatta bene, (cioè in modo davvero
pio rispettosa del sacro [sic!] ) sia ben accetta alla maggioranza di quelli che vanno ancora in chiesa.
Una risposta che conforta perché
replica a certi ambienti integristi che della riforma liturgica hanno
fatto il loro cavallo di battaglia. E il centro del movimento
lefebvriano è proprio qui, in Svizzera. Si dimentica troppo spesso che
attacchi durissimi al Papa e a Ratzinger continuano a giungere proprio
da quella direzione.
“Monsignor Lefebvre e i suoi non sono i
veri cattolici. L’integrismo di destra mi sembra ancor più
incorreggibile del liberalismo di sinistra. Credono di sapere già tutto,
di non avere nulla da imparare. D’altro canto è contraddittoria la loro
conclamata fedeltà ai Papi, ma solo a quelli che gli danno ragione. Ma
questo attacco a tenaglia, su due fronti, è tipico di ogni fase dopo un
Concilio“.
La Chiesa è femmina: Maria viene prima di Pietro
Col
confratello tedesco ex gesuita come lui, Otto Karrer (1888-1976), che
lasciò la Compagnia nel 1933 dandosi a esperimenti di ecumenisco, che
chiaramente risultarono vacue e inutili, dannose anche
Girando tra Europa e America del Nord
si ha l’impressione che le religiose, le suore, siano tra le più
sconcertate da certa predicazione, magari le più sofferenti davanti alla
crisi
“Per una giusta risposta ai problemi
della donna nella Chiesa bisogna ridare il posto che merita a una
mariologia molto sobria e insieme molto buona. Bisognerebbe ricordare a
tutti i cattolici – a cominciare dalle donne – che, nella Chiesa, Maria
ha un posto ancor più alto che quello di Pietro. La Chiesa è una realtà
femminile ed è posta davanti ai successori, maschi, degli apostoli: il
principio-Maria (dunque, il principio femminile) è più importante di
quello gerarchico stesso, affidato alla componente maschile. Alcune
suore – spinte spesso da certa teologia di uomini – non vedono che i curés,
i preti, pensano cosi che l’ordinazione sacerdotale rappresenti il
massimo del potere nella Chiesa. Ma questo è clericalismo. Maria – e non
si tratta di fare del sentimentalismo – è il cuore della Chiesa. Un
cuore femminile, che dobbiamo rivalutare come merita, in equilibrio con
il servizio di Pietro. Questo non è devozionismo: questa è teologia
della grande tradizione cattolica”.
Dunque, la devozione mariana così
singolare di Giovanni Paolo II ha anche un significato teologico
preciso?
“È così. Il Papa sa che il perno
nascosto della Chiesa non è lui, è Maria; non è a caso che abbia voluto
‘Totus Tuus’ come motto del suo pontificato. Non c’è bisogno, forse, di
proclamare nuovi dogmi mariani, ma dobbiamo riscoprire la ricchezza di
quelli che già ci sono e che sono essenziali all’equilibrio delia fede
autentica”.
Tornare al modello tridentino di seminario
Balthasar in una curiosa immagine
Le suore sono spesso in crisi. Ma anche il disagio dei preti non è stato e non è da poco. Quali sono le cause principali?
“È spesso estremamente duro essere
inviati in parrocchie scristianizzate, dove il curato non conta più
nulla. Una volta era il centro di tutto, ora deve correre dietro a
qualcuno per cercare di trattenerlo. Ma per fronteggiare e sopportare
questa situazione occorrerebbe un’altra formazione dei preti.
Che intende dire?
Bisogna tornare al modello tradizionale, direi ‘tridentino’, seppur prudentemente aggiornato, di seminario. Io sarei d’accordo di non permettere alla maggior parte dei giovani seminaristi di studiare
nelle università, come attualmente avviene. Devono studiare in seminari
autentici, che siano seri, ‘clericali’: che li formino, cioè, ad essere
‘clero’, che li preparino al loro sempre più duro servizio. Le
università esterne non possono fare questo. Il vescovo deve avere la
possibilità di ricreare i seminari secondo le indicazioni date da Roma e
nominarvi professori di sua fiducia. Ma spesso, anche se volesse farlo,
ne è impedito da tutte le strutture che gli sono state create intorno”.
Con don Giussani
Il suo bilancio del post-Concilio sembra a chiazze: zone di luce e zone di ombra. Come, in effetti, sembra essere in realtà.
“Dopo ogni Concilio c’è stato il caos.
Bisogna mettere nel bilancio anche certe cose che stanno nascendo e che
sono come pianticelle; piccole per ora ma già vigorose, i cui semi sono
stati piantati dal Vaticano II. Oggi, sulle cattedre di teologia, giunge
una generazione che aveva 18-20 anni nel ’68 e che spesso porta nel suo
insegnamento uno spirito liberale, di contestazione. Intanto, i grandi
teologi di un tempo non ci sono più. Ma c’è anche una generazione nuova
che si sta formando, giovani che si ribellano a certo conformismo, che
intendono fare una teologia che sia insieme aperta alla Scrittura e alla
grande tradizione cattolica. Anche tra i teologi già in cattedra, ci
sono persone solide che stanno ripensando in modo nuovo l’intera fede.
Un buon lavoro in questo sento è stato fatto anche dal teologo
Ratzinger. Lasciamo che Io Spirito lavori: ci sono dei virgulti che
‘spingono’, che stanno nascendo e che non sono certo contro il Concilio
autentico, anzi sono nati da esso”.
Non bisogna ragionare troppo di Chiesa, ma viverla
Tra questi segni di speranza, il prefetto della Congregazione per la Fede mette anche i nuovi movimenti ecclesiali.
“E ha ragione. Essi sono, tra l’altro,
la possibilità per la Chiesa di fare una teologia vivente. Ma in alcuni,
a uno slancio magnifico fa riscontro una tentazione di chiusura. Il
pericolo, per alcuni, è di divenire quasi delle sètte, di chiudersi in
se stessi, mentre occorre più che mai ‘abbattere i bastioni’: essere,
cioè, proiettati nella missione, verso il mondo”.
Non è, forse, un chiudersi istintivo per cercare di salvaguardare un’identità cattolica che sentono minacciata?
“Io cerco di costruire un istituto
secolare al quale intendo comunicare uno spirito molto cattolico,
un’identità precisa di Chiesa. Ma, posta questa base, desidero che sia
aperto al massimo, a tutti. La casa va sorvegliata e tenuta in ordine,
ma le porte devono restare spalancate a chiunque voglia entrare”.
Il teologo assiste a una messa, anni ’80, in un raduno degli amici di Communio
Lei si è formato e ha lavorato per
molti decenni nella Chiesa pre-conciliare. Ha poi vissuto, sempre come
teologo, questo ventennio di post-Concilio. Che differenze avverte tra
le due fasi?
‘Ha ragione il mio amico e maestro De
Lubac e ha ragione Ratzinger quando rifiutano di parlare di Chiesa ‘pre’
o ‘post’ conciliare. C’è una sola chiesa. Vedo i pregi e i difetti del
prima e del dopo ma ciò che mi è sempre importato è vivere il centro
della Chiesa: questo non cambia e non cambierà mai. Non bisogna
ragionare troppo sulla Chiesa: bisogna innanzitutto viverla. Essendo al
contempo consapevoli che essa sempre è stata — e sempre sarà — un
piccolo gregge”.
L’ultima
foto del teologo, due settimane prima della morte, appena ricevuta la
notizia della sua creazione cardinalizia. Ma morì tre giorni prima di
ricevere la berretta
Sul suo tavolo c’è una foto del Papa.
Questo mi conferma quanto è ben noto: la sua amicizia, la sua stima
profonda per Giovanni Paolo II. E si sa che i suoi sentimenti sono
ricambiati.
“Sì, amo molto questo Papa. Ma in fondo,
non è questo che importa. Importante per tutta la Chiesa è piuttosto il
fatto che quest’uomo vive di preghiera. Quando torna da quei suoi
viaggi massacranti, tutto il suo seguito — dai prelati ai giornalisti — è
stordito dalla fatica. Lui no, lui è raggiante: è la preghiera che Io
nutre. Quando è venuto qui in Svizzera, qualcuno a Einsiedeln lo ha
ingiuriato. Lui ha taciuto e poi, non si sa come, è sparito. Dopo un po’
Io hanno ritrovato: era in una cappella, prosternato davanti al
tabernacolo. Al suo ritorno l’ho visto a Roma: era più che mai fresco,
riposato. ‘Santità – gli ho chiesto – come fa a non essere mai stanco?’.
Mi ha risposto ridendo: ‘Questo viaggio in Svizzera non è stato che un
allenamento per prepararmi alla visita in Olanda’ [dove infatti la
contestazione clerico-progressista arrivò al paradosso dei domenicani
che lanciavano sassi contro il papa. Ndr]. Il suo segreto è l’orazione
in cui è continuamente immerso”.
Il cristianesimo non è “anonimo”, come vorrebbe Rahner
Il confratello gesuita tedesco, Rahner
Tra le cose che sembrano più
preoccupare il Papa, nei suoi viaggi al di fuori dell’Europa, sembra
esservi soprattutto la caduta della tensione missionaria verso i non
cristiani.
“Sì, e di questa caduta è responsabile
anche una certa versione, diluita e forse mal digerita, della teologia
di Karl Rahner, con la sua teoria del ‘cristianesimo anonimo’. Rahner ha
forse fornito l’occasione a certi teologi di esprimere ciò che essi
avevano latente: secondo loro, in ogni uomo, qualunque sia la sua
credenza (o la sua non credenza) c’è già la grazia, compito del
cristiano sarebbe solo quello di fortificarlo nelle sue convinzioni.
Poi, c’è stata un’attenzione esclusiva, in ogni caso eccessiva, per la
promozione socioeconomica: è il Vangelo, in realtà, la prima ricchezza
che dobbiamo donare ai poveri. Non si può rimandare l’annuncio del
Cristo morto e risorto a quando saranno stati risolti i problemi
economici”.
Dialogare, senza illusioni
Il confratello gesuita francese De Lubac, grande amico di Balthasar, chiamati contemporaneamente al cardinalato
Come svizzero di lingua tedesca, lei è
da sempre molto attento ai problemi dei rapporti tra le varie
confessioni cristiane. Che giudizio dà dell’attuale momento ecumenico?
“Purtroppo, il dialogo si è rivelato un
fantasma, una chimera. Non è possibile dialogare con le Chiese che non
hanno quel centro di unità visibile, concreto, che è il Papato. Le
Chiese protestanti sono talmente frantumate in tante denominazioni e
divise poi al loro stesso interno, che ci si può intendere con una
persona, con un teologo; ma tutto si ferma lì perché certamente altri
verranno a dire che non la pensano allo stesso modo. Ne ho avuto
esperienza personale con Karl Barth: con molti incontri, con molto
lavoro ci sembrava di essere giunti a una possibile base di accordo. Ma
quando l’abbiamo resa pubblica, ecco insorgere subito un altro
professore di teologia di Zurigo, e poi un altro e un altro ancora,
anch’essi protestanti ma in completo disaccordo con quanto diceva Barth.
E ciò vale per tutto il mondo nato dalla Riforma; nessuno, ad esempio,
potrà mai far sì che
l’anglicanesimo sia una Chiesa, diviso com’è da sempre in vari tronconi”.
Karl Barth, il teologo luterano grande amico di Balthasar
In esclusiva per Papalepapale
la versione più o meno integrale del libro-intervista scomparso e messo
al bando trent’anni fa. Ossia la controversa intervista di Vittorio Messori ad Hans Urs von Balthasar,
dove il grande teologo svizzero fa una critica serrata alla Chiesa
post-conciliare, al progressismo (ma non risparmia i lefebvriani), ma
soprattutto, dopo aver preso le distanze dall’”oracolo” Karl Rahner, e
ventilato una riforma “tridentina” dei seminari, riduce un budino Hans
Küng. La cui reazione fu violentissima. Fino alla messa al bando del
libro, quasi subito ritiraro e mandato al macero, fino alla damnatio memoriae e
alla congiura del silenzio finali. Ma colpisce ancora di più il fatto
che sembra fatta appena ieri: la situazione non è mutata. Vi
riproponiamo qui, dunque, questo testo non raro, ma introvabile.
Donatoci direttamente dall’autore, Vittorio Messori, con licenza di
pubblicarlo.
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una presentazione di
Antonio Margheriti Mastino
Me dovreste aringrazià!
Me dovreste aringrazià sì,
invece de lamentavve sempre e dì “il mastino è così il mastino è colà,
il mastino è stronzo e scrive pure le parolacce”[e fra l’altro è una
calunnia]. Sciocchi. Massì, perché vi porto in dono una cosa che non
avreste immaginato, data per perduta, e più che altro dimenticata,
persino dal suo autore.
Sto parlando di un libricino edito
intorno al settembre 1985, quasi trent’anni fa. Che neppure fece in
tempo ad arrivare nelle librerie e fu subito ritirato e mandato al
macero. Per ordine dell’editore, che a sua volta aveva avuto ordine da Avvenire,
che a sua volta l’aveva avuto dal Vaticano, che a sua volta l’aveva
avuto dai teologi progressisti tedeschi, che a loro volta l’avevano
avuto dal demonio loro dottore. Su questo libro è caduta la damnatio memoriae, tant’è che neppure nelle bibliografie dei tanti studi su Hans Urs von Balthasar, il teologo della bellezza, e il teologo tra i più grandi dell’ultimo secolo, se ne fa cenno alcuno: è stato dato un colpo di spugna definitivo ovunque.
von Balthasar, acquerello
Sì, perché sto parlando proprio di lui, Balthasar,
della lunga intervista che a ridosso del Sinodo Straordinario dell’85
rilasciò a colui – Vittorio Messori – che poco prima era stato l’autore
di un’altra bomba ecclesiale: “Rapporto sulla fede”, in cui era per la
prima volta un prefetto del Sant’Uffizio – Ratzinger – a dire la sua, e
più che altro suonare il campanello della “ricreazione finita” al
postConcilio delirante e contestatore, che nel frattempo s’era anche
armato, con la TdL. E scoppiò un finimondo planetario, alla
pubblicazione.
E bomba è questa pure,
che memori di quell’altra, fu immediatamente disinnescata dalla
reazione a catena delle lobbies teologiche. Lo stesso Balthasar ne fu
spaventato, sino a smentirla sui giornali tedeschi. Purtroppo per lui,
era registrata. Ma rieccola qui, tirata fuori dall’oblio trent’anni
dopo, con il consenso di Messori.
Mi è corso un brivido di esaltazione
lungo la schiena quando ho letto Balthasar che riduce praticamente un
budino Hans Küng, dipingendolo con una maestria rara come un mendicante
della teologia senza alcun credito presso i teologi seri, ma semmai con
debiti da saldare… vendendo le sue mutevoli opinioni da teologia da
salotto ai rotocalchi. E durissimo va sulle teologie della liberazione,
sulla contestazione clericale, sul postConcilio che ha centuplicato le
strutture invece di semplificarle soffocando così fede e vescovi. E poi
enuncia tutto il suo amore appassionato per la Chiesa Cattolica
Apostolica e Romana, “contro ogni complesso antiromano”.
Ma prima di proporvi l’intervista,
vorrei raccontarvi con “parola argute” e aneddoti vari, come andò
quella volta, e come mi ritrovo questo pezzo raro tra le mani. Se non ve
ne frega niente della mia premessa, significa che non siete all’altezza
della situazione, dunque saltate pure più giù, all’intervista
Messori-Balthasar.
Vi racconto come è andata
Balthasar
Vittorio Messori è uno scrittore professionista di… “long-seller”,
ossia non solo libri che all’uscita registrano il tutto esaurito
scalando le classifiche com’è per i best-seller; ma libri destinati a
restare in catalogo per decenni, forse per sempre, ciclicamente
ristampati. È l’apice del successo per uno scrittore, la vera sola
consacrazione definitiva. Va da sé è anche l’occasione più ricercata,
ambita e rara, per chi vive di penna. Un vero miracolo, se quello
scrittore è anche un giornalista cattolico, che per giunta di cose
cattoliche scrive. Pensate che ad oggi, in Italia, questa vetta spetta a
Umberto Eco, certo, ma a pari numeri, se non di più, a Vittorio
Messori. Curioso che per entrambi l’argomento di fondo fosse uno: la
fede cattolica. Eco per tentare di sputtanarla; Messori per difenderla.
Diciamo che stanno pari e patta. Solo che Eco si può smentire
facilmente. Basta aver studiato. Anche perché il suo solo vero libro, Il Nome della Rosa,
è appunto un romanzo, fantasia dunque, ideologica quanto vi pare, come
ha anche ammesso quell’autore “mosso dalla necessità di ammazzare un
monaco”, ma fantasia. Perversa magari. E ciò non toglie sia bellissimo
libro quello.
Non solo long-seller, ma long-seller premeditati
quelli di Messori. Cioè, lui li scrive consapevole che taluni di essi
lo saranno: naso sopraffino, certo; ma anche esperienza, anni e anni
passati a La Stampa, negli anni ’70, a curare (e allora la cosa era
seria e di successo) l’allegato settimanale di quell’antico quotidiano, Tuttolibri.
A Torino c’era un tempo la casa editrice di Piero Gribaudi,
altro tipo di cattolico di cui varrebbe la pena parlare. Il Gribaudi
era comunque un vero esperto di editoria religiosa. Una sera a cena
nella casa torinese di Messori, suscitò l’ilarità dello scrittore,
perché posò la forchetta , lo guardò e: «Vedi Messori, nella mia lunga
vita di editore tu sei il solo che io abbia incontrato convinto di star
scrivendo un best-seller come primo libro e che lo abbia scritto
davvero». Naso certamente, esperienza certo, ma anche realismo, avere
perfettamente il quadro della situazione e dei tempi.
Vittorio Messori
E allora non stupisce che sia stato lui l’intervistatore
di quel futuro papa (altro colpo) che era Ratzinger, l’allora tanto
contestato “Panzerkardinal”, il prefetto dell’ex Sant’Uffizio, il
“Grande Inquisitore” come lo intitolavano i più indecenti e traviati
esponenti del progressismo “cattolico” ma anche i più moderati. Non
stupisce soprattutto che Messori abbia “premeditato” quel libro sicuro
che fosse una bomba. Una bomba che infatti esplose in tutto l’Orbe
cattolico con reazioni a catena di proteste rancorose da parte dei
peggiori “contestatori” clericali, e che fece di Ratzinger il mostro
della “reazione” agli occhi dei progressisti, divenuti nel frattempo non
solo marxisti a scoppio ritardato, ma pure guerriglieri rossi mitra
alla mano; e di Messori un bersaglio mobile (su consiglio della polizia
dovette rifugiarsi in un luogo segreto, perché minacciato di morte da
“cattolici dialoganti” e “democratici”, va da sé “non-violenti”),
colpevole non solo di aver intervistato il “Grande Inquisitore”, ma
persino di avergli dato ragione.
Ne chiedo qualche dettaglio “inedito” al Messori stesso, sulla genesi di quel best-long-seller che fu Rapporto sulla fede. E sì, c’era davvero premeditazione.
«Mi era chiarissimo quel che volevo fare
e prevedevo anche i risultati. Ratzinger, no, nella sua innocenza. E
non riusciva a capire che cosa volessi fare. Tanto che quando gli portai
il manoscritto, come da accordi, mi ricevette affannato: “Ho le visita ad limina e tante altre cose. Lo darò a don Clemens perché veda lui”.
Che era poi il segretario — l’unico prete che abbia mai conosciuto nato
e ordinato a Berlino, capitale di quella Prussia che, per Donoso Cortes
(che vi fu ambasciatore) “ha per padre il diavolo”. Io di fronte al
sottogamba del Prefetto sbalordii: “Ma Eminenza, mi permetta di insistere. Lo guardi Lei e con molta attenzione. Susciterà molte polemiche, in tutto il mondo”. Lui mi guardò con quegli occhi azzurri, spalancati, da eterno bambino: “Polemiche? Warum?”. Perché? Riuscii a convincerlo a leggerlo, mi restituì in pochi giorni il testo quasi senza correzioni: “Alcune delle cose che Lei mi fa dire [Messori in genere non registrava, prendeva appunti a mano. Ndr] non
le ho dette. Ma ha fatto bene ad attribuirmele perché se non le ho
dette, e proprio in quel modo, è perché mi ero dimenticato…”. E,
lealmente, mi difese pubblicamente quando si cercò di disinnescare la
bomba dicendo che quella non era la Chiesa secondo Ratzinger ma secondo
Messori, quel fazioso che era riuscito a plagiare un serio ma disarmato
teologo». Così nasce un best-long-seller premeditato.
E aggiunge anche dell’altro Messori:
«Non so se ha l’ultimo volume, uscito in
appendice, del Fliche e Martin, la più vasta storia della Chiesa. Vi è
un teologo olandese che, invelenito, dice che il giorno di uscita di
quel libro va ricordato nel lutto perché sancisce la fine del
postConcilio, pieno di speranze e di prospettive entusiasmanti.
Ma proprio questo volevo: fare fischiare dal Custode stesso
dell’ortodossia la fine della ricreazione». Che bene o male, ancora
continua, e in taluni casi, molti “studenti” hanno proprio abbandonato
la scuola, qualcuno sospeso.
Il
giornalista cattolico e il Prefetto dell’Ortodossia, ai tempi di
“Rapporto sulla Fede”. Come vedete due mostri sanguinari, o almeno così
sembrarono ai progressisti. Che nel frattempo si erano muniti di mitra
per giocare ai rivoluzionari
Uno scrittore che non conosce “fallimenti”
nella sua fortunatissima carriera editoriale. Siccome con me è molto
paziente, anche perché un po’ lo diverto, e mi diverto anche io perché
ne sa sempre una più del diavolo, certe volte lo stuzzico. Per esempio
sarebbero dovuti uscire libri-intervista di Messori a Del Noce (e
sarebbe diventato un altro long-seller, un classico imprescindibile), ad
Andreotti, al card. Brandumuller, a von Balthasar, ma niente s’è visto.
Naturalmente le ragioni me le ha spiegate e nessuna colpa è imputabile
allo scrittore, che è ampiamente giustificato, e comunque tutti quanti
abbiamo perso grandi occasioni con questi libri mai nati: ma ve lo
immaginate un libro-intervista tra il grande scrittore cattolico,
Messori, e il grande politico cattolico, Andreotti? Sul papato?!
Purtroppo Andreotti fece di testa sua e pubblicò da sé, con risultati
finali piuttosto irrilevanti, quantunque la proposta di quel libro a
quattro mani venisse proprio dal Divo. Tutto questo lo so, ma provoco
ugualmente Messori, buttando lì, certissimo di una sua reazione, un
“progetti velleitari”. Restandone fulminato: io non lui.
E infatti dovevo arrossire di brutto quando
mi ha spiazzato con una risposta che è – per uno come me che si spaccia
per “esperto” di tutta la produzione messoriana – agghiacciante: mi
precisava infatti che in realtà il libro-intervista a Balthasar, per
quanto piccolo e scarno fosse, era stato pubblicato eccome, ed era stato
pure ritirato dal commercio, solo che io tutto questo lo ignoravo. Un
affronto! Una vera figura da coglione, roba da far ridere i polli.
E infatti mi sfotte: «Dunque: per un “messoriano” (ahimé,
la perversione umana supera ogni fantasia) non sapere che il libro
intervista con Balthasar l’ho fatto, eccome, è grave». E come finale mi
ci infila pure un «eh, no, può dirmi di tutto ma non di essere un
velleitario. Forse talvolta pigro ma rodomonte dal “partiam, partiam!”
no… ». E così mi ha sistemato per bene. Ma a pensarci col senno di poi, è
stata una fortuna.
Il sen. Gian Guido Folloni, allora direttore di Avvenire
Infatti, non appena che mi era passata la voglia
di “stuzzicare”… a chi la sa troppo più lunga di me, appena che avevo
messo la coda da mastino tra le gambe, balbetto qualcosa… tipo “ma io
non l’ho mai mai mai incrociato da nessuna parte quel libro, giuro! Mai
sentito dirne: che avesse intervistato il gran teologo, sì, ma che ne
fosse stato tratto un libricino no: lo andrò a cercare, su Amazon, Ebay,
Maremagnum… ovunque!”.
Come suo costume, Messori, dopo
che ti ha steso ti dà una mano a rialzarti, da quel generoso che è,
anche se non sembra. Infatti offre qualcosa: «Se non lo trova, siccome è
molto esile glielo faccio fotocopiare e lo invio. Ammesso che io pure
riesca a trovarlo tra i miei libri… La damnatio memoriae ha funzionato persino con l’autore…».
Damnatio memorie? Ma a cosa allude? Glielo domando, e scopro che c’è tutta una storia rognosa dietro.
«Ne uscirono polemiche tanto grandi che l’editore
– mi pare fosse l’Ancora – ritirò dal commercio l’opuscolo. Soprattutto
perché Balthasar diceva che Hans Küng non solo non era più cattolico ma
non era più cristiano. Ne nacque una bagarre, con un Küng con la bava
alla bocca. E lo stesso von Balthasar si spaventò, disse che non lo
aveva detto ma io avevo accanto come testimone Folloni, allora direttore
di Avvenire. Sia Avvenire che l’Editore decisero di
considerare il libro (che poi era solo una piccola brochure) come un
fatto spiacevole non avvenuto. Accidenti, quante cose avremmo da
raccontare noi vecchi…».
Ma come, il più grande e colto dei teologi
del post-concilio e del secolo tutto, ormai vecchio per giunta, che si
spaventa all’abbaiare di quel cane randagio da teologia da rotocalco che
è Küng? Di quel malato di egocentrismo e di fatturati? Ebbene sì, ma
non solo di lui, in realtà: di tutto il gotha teologante di lingua
tedesca di allora, quello svizzero specialmente: ultraprogressista e di
fatto post-cattolico, era molto violento, intollerante, aggressivo,
conformista, rivelando l’animo più profondo del teutonico (non c’è
niente da fare: scava scava, a lasciagli il predominio su qualcosa, vien
fuori..), ossia il barbaro mai morto, che cova in loro sotto le ceneri
del perbenismo borghese il quale prima o poi fa divampare sempre un
Hitler, un Bismark, una Merkel… l’Attila intramontabile.
ritratto a carboncino di Balthasar
Mi precisa ancora Messori, di quell’affaire teologico-internazionale:
«Comunque, Balthasar ci fece una
figura meschina, e tra le più imbarazzanti. Non avendo visto
registratori si era pentito e spaventato di quel che aveva detto e
sperava di incastrarmi, dicendo che NON aveva detto che Küng non era
neanche più cristiano. Ma a Basilea mi aveva portato Guido Folloni il
quale, annusando le polemiche, si era messo il registratore in tasca e
il microfono all’occhiello, mascherato da non so quale stemma. Forse
quello della Reggiana AC di cui era tifoso. Sperando comunque di pararsi
il lato B almeno nei Paesi germanofoni, senza dirmi nulla von
Balthasar mi smentì come un manipolatore in una intervista sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung.
Ovviamente, lo venni subito a sapere e gli mandammo per corriere copia
dei nastri. Farfugliò scuse, continuò a parlare di equivoco, anche se
per ben tre volte aveva ripetuto, sbattendo il pugno sul tavolo, nel suo
bel chalet di Basilea: “Ich wiederhole, meine Herren: Kueng ist nicht mehr christlich!”». Küng non è più cristiano.
Intanto si era mobilitata la lobby dei
teologi amici di Küng, anche Folloni si spaventò (la sintesi
dell’intervista era apparsa prima su Avvenire), intervennero gerarchi
vari e le traduzioni furono bloccate mentre l’originale era ritirato
dalle librerie. L’editore lo ritirò istigato “dal Vaticano”, malgrado
l’entusiasmo di Giovanni Paolo II che lo aveva fatto tradurre in fretta
in polacco, e che se ne era procurate diverse copie che distribuiva
personalmente ai suoi visitatori.
Messori fa spallucce e la prende con filosofia:
«Vabbé, come sa sono abituato a non prendermela, forse perché non mi
prendo troppo sul serio, e ancora una volta mi misi a ridere e lasciai
perdere. Peggio per loro…».
Detto così, e dopo avergli convertito
in formato word quell’antico testo, mi fa una concessione per
Papalepapale: «Questo testo io stesso l’avevo dimenticato e l’ho
recuperato per Sua istigazione. Del testo faccia ovviamente quel che
crede, se vuole lo pubblichi pure sul suo sito».
Ed eccoci qui, con questa, diciamo così, esclusiva.