Questa
generazione che non vuol crescere mai
***
di
PIETRO CITATI
|
UN
TEMPO, si diventava adulti prestissimo.
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Non
voglio ricordare le epoche lontane della storia umana, quando a
ventun anni Alessandro posava il piede sul suolo dell'Asia, a
ventiquattro veniva riconosciuto figlio di Dio, a venticinque
sconfiggeva Dario e conquistava l'impero persiano, a trentadue
moriva, carico del peso di cento vite. Penso a un uomo del
Settecento, dell'Ottocento, o anche a un figlio del nostro secolo.
A venticinque anni i generali napoleonici attraversavano
vittoriosamente
l'
Europa, coi loro cavalli furibondi e i grandi pennacchi colorati:
a ventuno, senza essere mai uscito di casa, Leopardi aveva letto
tutti i libri e scriveva
L'
Infinito, conoscendo con la mente le cose pensabili e impensabili.
….
Alessandro
aveva come precettore Aristotele: qualche giovane europeo del 1793
aveva come precettore Holderlin. Immagino cosa dovesse
significare, per un ragazzo desideroso di apprendere, avere ogni
giorno accanto a sé il più grande filosofo o poeta del proprio
tempo.
Allora
l' infanzia, che noi amiamo tanto, non possedeva una vera
esistenza. Bisognava attraversarla con la velocità di una
folgore: consumarla, bruciarla, non indugiare nei giochi
infantili, apprendere rapidamente, e diventare adulti. Il bambino
contemplava appena ciò che aveva attorno a sé: guardava oltre,
lontano, verso i re che avevano conquistato il mondo, e i poeti
antichi e moderni che avevano composto l' Odissea e le
Metamorfosi. Non c' era nessun indugio: nessuna pigrizia; nessuna
tenerezza verso se stessi e le proprie immaginazioni infantili. A
tutti i costi, versando lacrime di sangue, sopportando dolori
indicibili, un ragazzo diventava maturo.
A
diciotto anni, imparava a conoscere chi era, abbandonando le
personalità secondarie, che aveva indossato nella giovinezza:
scopriva quell'adamantino nucleo di sé, che l' accompagnava sino
alla morte. Conquistare la maturità era una rinuncia: la
rinuncia. Di colpo, con un gesto ascetico, il ragazzo si lasciava
alle spalle tutti i sogni impossibili, tutte le illusioni che
avevano accompagnato la mente umana: tutte le speranze di restare
immortali, come lo si è sempre nella giovinezza. Il giovane
accettava la realtà: la durezza, complessità e compattezza della
realtà, l' impossibilità di ridurla a un desiderio o a un
progetto. Se fino allora era stato Achille e aveva spezzato ogni
limite, ora diventava Ulisse: un uomo che impara a sopportare e
torna nella sua isola, dove avrà, forse, una vecchiaia felice.
Accettava la morte: il pensiero che tutti i nostri attimi sono
intessuti di morte e che la morte è la misura naturale della
nostra vita. Come diceva Shakespeare: "Gli uomini debbono
aspettare pazientemente la loro uscita da questo mondo - come la
loro venuta. La maturità è tutto".
Appena
diventava maturo, l' uomo innalzava delle altissime mura attorno a
se stesso. Cosa importava ciò che rimaneva al di là delle mura:
possibilità dell'io che non si erano realizzate, terre lontane,
donne amate, nuvole di tenerezza? Dentro e dietro le mura, viveva
coscientemente la propria maturità, lavorando con attenzione
scrupolosa e meticolosa il suo piccolo campo. Conosceva
mirabilmente le proprie forze reali: ciò che voleva e poteva fare
e ciò che non era suo; diventava superbamente oggettivo verso se
stesso, trattando il suo io come fosse un altro; sapeva
organizzare, costruire, contrapporre, raggiungendo il massimo
effetto con il minimo sforzo. Così l' io diventava una perfetta
officina artigianale, che fabbricava ogni giorno una determinata
quantità di materiale. Quanto splendido materiale è uscito da
queste grandi officine virili, in special modo nel secolo scorso.
E che bellissimi esempi di maturità, che si avviavano
dignitosamente verso la vecchiaia e la morte, con appena un' ombra
di malinconia verso le cose incompiute o impossibili.
Ma
conosco esempi di maturità prematura. Molti esseri umani sono
diventati adulti troppo presto: uccidendo in sé la giovinezza,
irrigidendosi e difendendosi, evitando le possibilità aperte
all'orizzonte, accelerando un processo che avrebbe dovuto essere
più lento e sinuoso. Nulla è più rischioso, nelle cose umane,
dell'eccesso di volontà e di chiarezza. Nulla è più pericoloso
che conoscere sino in fondo, con l' occhio inflessibile
dell'adulto, tutte le forme e gli svolgimenti del proprio futuro,
e conquistarli con la violenza e la coercizione. Allora si diventa
prigionieri della maturità: stiamo lì, soffocati, inariditi,
vittime delle mura che abbiamo alzato, delle leggi e delle
convenzioni che abbiamo stabilito una volta per tutte.
Come
scriveva giorni fa Alberto Ronchey, conosciamo i giovani e gli
adolescenti di oggi. A differenza dei loro nonni, non vogliono
diventare maturi. Quanto tempo indugiano sui campi della
giovinezza: guardano le cose, attraversano il mondo, contemplano
se stessi con una curiosità e una tenerezza infinite. Giocano.
Rallentano il tempo della crescita. Non desiderano entrare nella
cosiddetta vita, che forse li impaurisce. La scuola è lentissima;
ed essi aumentano questa lentezza tardando a laurearsi, tardando
ad uscire dalla casa paterna, rinviando o aggirando il matrimonio,
proiettando sempre più lontano il momento del lavoro. Non sanno
chi sono. Forse non vogliono saperlo: si chiedono sempre quale sia
il loro io, e non lo identificano in un carattere stabilito, ma in
un complesso quasi inesauribile di possibilità. Non smettono mai
di conoscersi: spostano l' oggetto della loro ricerca, sempre
altrove, sempre più lontano, perché in realtà non desiderano
avere nessun volto. Studiano gli altri esseri umani, cercando di
ritrovare se stessi negli altri, o di prolungare negli altri se
stessi. Forse ciò che prediligono è l' esperienza: per amore
dell'esperienza, e non dei suoi risultati. Perciò coltivano tanto
l' arte del viaggio: un viaggio che presto viene sostituito da un
altro viaggio, e da un altro ancora, e poi da un altro ancora, al
fondo del quale non c' è nessuna Itaca. Come amano indugiare!
Come amano la protrazione e l' indecisione! Non dire mai sì e mai
no: sostare sempre davanti a una soglia che, forse, non si aprirà
mai. Se compiono un lavoro, non si impegnano volentieri in uno
solo: ne fanno contemporaneamente un altro, o immaginano di farlo.
Non rinunciano a niente, perché non vogliono accettare la morte.
Non hanno volontà: non desiderano agire; preferiscono aderire,
accogliere, lasciar affiorare in se stessi la voce degli altri,
della vita e del destino. Preferiscono restare passivi,
comportandosi in modo sinuoso e informe come l' acqua,
trasformandosi in tutto ciò che viene loro proposto. Vivono
avvolti in un misterioso torpore. Non amano il tempo. L' unico
loro tempo è una serie di attimi, che non vengono legati in una
catena o organizzati in una storia.
In
generale, la mia generazione di moribondi settantenni disprezza
questi casi di adolescenza troppo prolungata. Sostiene che bisogna
- a tutti i costi - diventare maturi. E, certo, siamo circondati
da una moltitudine di cinquantenni giovanissimi, di quarantenni
adolescenti, di trentenni appena nati: i quali proiettano attorno
a se stessi l' alone di un immenso narcisismo, chiedono, chiedono,
non amano la realtà, si lagnano sempre, non sopportano nessuna
contrarietà e dolore.
Quanto
a me, questi eterni adolescenti mi piacciono: mi piacciono i loro
indugi, le loro lentezze, la loro passività, e i lunghi sguardi
contemplativi. Continuare a serbare nell'occhio la freschezza
dello sguardo giovanile: diventare maturi e poi vecchi quasi per
caso: non disegnare mai il proprio io: concepire la propria vita
come un gioco indefinito di possibilità, che può portare a
moltissimi volti; rallentare, rallentare, non costruire e non
irrigidirsi mai dietro mura...
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"La Chiesa è il luogo dove tutte le verità si incontrano"................. Gilbert Keith Chesterton
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giovedì 15 maggio 2014
Questa generazione che non vuol crescere mai PIETRO CITATI
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