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sabato 27 febbraio 2016

Da: http://www.corriere.it/salute/sportello_cancro/articoli/2006/01_Gennaio/31/fegato_embrione_zebrafish.shtml
Milano: L’embrione, almeno in certi momenti ben precisi del suo sviluppo, produce una serie di proteine che sembrano in grado di bloccare le cellule staminali “cattive” responsabili di alcune forme di tumore, spingendole a differenziarsi in una forma non pericolosa. La scoperta, che apre le porte a un innovativo approccio terapeutico, arriva dopo oltre vent’anni di ricerche eseguite da Pier Mario Biava, un medico del lavoro (è primario all’ospedale di Sesto San Giovanni, vicino a Milano) prestato all’oncologia. Biava e altri colleghi, fra cui Luigi Frati, preside della facoltà di medicina all’università La Sapienza di Roma, hanno sperimentato su 179 malati di carcinoma al fegato in fase avanzata una miscela di queste proteine a basso peso molecolare, estratte dall’embrione dello Zebrafish (un pesce tropicale). I pazienti, per i quali non era più possibile effettuare altre terapie, sono stati suddivisi in due gruppi: al primo sono stati somministrati gli estratti embrionali, mentre il secondo gruppo ha ricevuto una terapia conservativa. Dopo quattro anni, l’analisi dei dati ha mostrato che la terapia con i fattori embrionali era stata in grado di migliorare sensibilmente la sopravvivenza, di indurre una risposta o una regressione della malattia in un paziente su cinque e un arresto della progressione nel 16 per cento dei casi trattati. La spiegazione di questi risultati positivi va cercata, secondo Biava, nella capacità che le proteine estratte dall’embrione (in termine tecnico, i fattori di differenziazione) hanno di spingere le cellule staminali del tumore a “prendere una strada” diversa, riducendo, o perdendo del tutto, la loro pericolosità. I risultati della ricerca sono stati appena pubblicati sulla rivista Oncology Research.
Biava ha cominciato i suoi studi, come medico del lavoro, esaminando gli effetti delle sostanze cancerogene sui feti di animali da laboratorio. «Mi ero accorto – racconta – che, in un animale gravido, molte sostanze dannose causavano un tumore nel feto solo se somministrate dopo che i suoi organi si erano formati (cioè dopo la cosiddetta “organogenesi”), ma non prima. Sembrava insomma che ci fosse qualcosa nel feto che, pur non potendo impedire lo sviluppo di altre malformazioni, riusciva a bloccare l’insorgenza del cancro». Biava e la sua équipe hanno “setacciato” per anni le sostanze presenti nell’embrione dello Zebrafish e di altri animali, selezionando una serie sempre più precisa di proteine che apparivano in grado di possedere un effetto anticancro. «Siamo poi andati a verificare – aggiunge Biava – se questa particolare miscela di proteine potesse agire anche sulle cellule umane, e abbiamo avuto una sorpresa positiva: l’estratto di embrione di Zebrafish funzionava su almeno otto tipi di tumori umani diversi, e ogni volta, a seconda delle caratteristiche della neoplasia, con meccanismi differenti». Tutto questo, secondo Biava, va letto alla luce delle teorie sulla complessità: ad una malattia complessa occorre rispondere con una terapia complessa. «Qualcosa di simile – spiega Biava – accade con le vitamine: se noi analizziamo l’efficacia di un’arancia, troviamo una serie di effetti che la vitamina C, da sola, non è in grado di riprodurre. Ciò è dovuto al fatto che l’arancia contiene anche una serie di sali e di altre componenti attive uniche, che nessun estratto puro può sostituire. Anche nel caso dei fattori di differenziazione cellulare, siamo in presenza di una miscela di elementi (tra i quali, probabilmente, anche piccoli frammenti di materiale genetico con funzione regolatoria, i cosiddetti micro RNA) che sono in grado di intervenire su certi enzimi, sulla codifica di alcune proteine, sulla loro trasformazione dopo che sono state sintetizzate, sugli oncogeni, sulla morte cellulare e così via, a seconda delle caratteristiche del tumore e dello stadio della malattia. E’ per questo che funziona in casi molto diversi, ed è per questo che non ha senso pensare di isolare un singolo principio attivo, come si fa di solito nella farmacologia tradizionale». Tra l’altro, aggiunge Biava, la conservazione di questi fattori durante l’evoluzione permette di estrarli dai pesci o comunque da animali ovipari, che si riproducono cioè tramite la deposizione di uova e che perciò devono «fornire» al feto tutte le difese che gli sono necessarie. Nei mammiferi, invece, gli stessi fattori protettivi sono probabilmente ripartiti tra feto e utero materno, come dimostra il fatto che gli estratti di mammifero risultano molto meno efficaci.
Lo studio clinico appena pubblicato rappresenta il primo passaggio di un lavoro che comunque sarà ancora lungo. «Ora – anticipa Biava – dobbiamo verificare l’efficacia dell’estratto in persone malate di altre forme tumorali, come il glioblastoma, che sembra rispondere bene, ma soprattutto dobbiamo cercare di capire perché non in tutti i malati si hanno effetti positivi. Probabilmente questo dipende da una serie di caratteristiche della malattia, che varia da persona a persona, e del preparato, che potrebbe essere specifico per un tumore ma meno attivo in un altro. Dovremo decodificare meglio i fattori di differenziazione cellulare, contenuti nell’embrione dello Zebrafish, per comprendere con sempre maggiore precisione l’intero meccanismo biologico e poter quindi avere uno strumento più potente con il quale affrontare le diverse forme tumorali».

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