Il Timone
La morte di Giordano Bruno? Smontiamo ancora una volta la leggenda anticlericale
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La morte di Giordano Bruno? Smontiamo ancora una volta la leggenda anticlericale
Il 17 febbraio scorso alcuni hanno celebrato l’anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno in piazza Campo de’ Fiori, un episodio (si veda Sergio Luzzato, già noto per le sue crociate contro il crocifisso appeso ai muri dei luoghi pubblici) che sarebbe l’emblema della tirannia della Chiesa sul libero pensiero.
Eppure chi ha studiato per quasi quarant’anni le carte del processo, come il celebre e laicissimo storico Luigi Firpo, filosofo del diritto e della morale, ha spiegato che questa lettura degli eventi è storicamente infondata. La vicenda di Bruno fa parte della retorica anticlericale da parecchio tempo ma è molto più complessa per essere liquidata secondo i facili schemi ideologici, senza contestualizzare i fatti nell’intricato groviglio di problematiche storiche, politiche, teologiche, filosofiche, scientifiche, epistemologiche, giuridiche di allora.
Nel suo famoso libro, “Il processo di Giordano Bruno” (Edizioni Scientifiche Italiane, 1949) lo storico Firpo ha innanzitutto smontato la leggenda di un Giordano Bruno filosofo e razionale, spiegando che in realtà era affascinato dall’«arte del successo, dall’oscuro fascino che avvince le anime e le fa strumenti del dominatore, fidava nei segreti di un’arte magica capace di operare sulle coscienze piegandole alla propria volontà, sentiva inoltre che la grande fede poteva trascinare l’inerzia della materia e del senso e compiere miracoli. Studiando e professando fervidamente in quegli anni l’arte divinatoria e magica, accostandosi con invincibile curiosità alla un tempo disprezzata astrologia, egli crede di procacciarsi gli strumenti del dominio» (p. 8). L’obiettivo di Bruno era sovvertire il Pontefice all’arte magica e rifondare il cristianesimo nominandosi nuovo profeta, tanto che Firpo parla dell’«immaturità stessa del Bruno all’impresa, quella sua cieca fede in arti occulte di cui non aveva la minima esperienza, la sua stessa condizione di straniero, ignoto se non sospetto, palesemente inadeguato a dare l’avvio a sì gran flusso di eventi. Ma sopratutto l’intima debolezza del proposito, tanto fervido quanto indeterminato, fluttuante fra l’estremismo della “setta di Giordanisti”, nuova religione naturalistica che avrebbe avuto nel Nolano il suo profeta-legislatore, ed un assai più moderato disegno di riforma interiore del Cristianesimo» (p. 8).
Per questo motivo ritornò in Italia nell’agosto del 1591, ma venne denunciato dal suo amico Giovanni Mocenigo. Nel 1591 iniziò il processo che si concluderà nel 1593 con un sostanziale “non luogo a procedere”. A seguito di nuove denunce e testimonianze vi fu una seconda fase del processo, che durò dal 1593 fino al rifiuto della ritrattazione e all’esecuzione capitale nel febbraio del 1600. Firpo descrive anche il periodo trascorso nel carcere dell’Inquisizione durante il processo, dove venne trattato con tutto rispetto: «letto e tavola, con lenzuola, tovaglie e asciugamani da mutarsi due volte la settimana, veniva di sovente condotto davanti la Congregazione per riferire in merito alle sue necessità materiali, aveva comodità di barbiere, bagno, lavanderia e rammendatura, provvista di capi di vestiario, vitto non scadente e financo il vino» (p. 29). Al contrario di quanto scrive qualcuno, in nessuna occasione venne torturato.
Dopo diversi interrogatori vennero confermate le accuse di eresia mossegli dai testimoni chiamati a deporre, tuttavia più volte si tentò di archiviare il processo invitando l’accusato a respingere semplicemente tali accuse. Come ha spiegato Firpo «la sua risposta avrebbe avuto valore decisivo nella risoluzione della causa, poiché, non essendo egli relapsus, l’impenitenza lo votava a quella morte certa, che l’abiura escludeva in modo altrettanto sicuro: le otto proposizioni significavano l’aut aut fra il rogo ed una detenzione di non molti anni» (p. 68). Si evidenzia anche che l’intervento nel processo del card. Roberto Bellarmino (santificato dalla Chiesa) è circondato da «una specie di leggenda» tanto da che «fu assunto dalla storiografia ottocentesca a simbolo della reazione intransigente e fanatica contro l’araldo dei nuovi tempi». Purtroppo, ha proseguito lo storico, «nessuno si è curato di render ragione a un apologeta del santo Cardinale, che aveva giustamente rilevata la data assai tarda del suo ingresso nella Congregazione rispetto alla lunga vicenda del processo bruniano» (p. 68), oltretutto cercando anche lui di salvare l’accusato.
Tuttavia Bruno – definito «dogmatico e intransigente, commisto di orgoglio sprezzante, litigiosità, volgarità, volubile mutevolezza», (p. 87) -non solo non volle approfittare delle tante occasioni offertegli di ritrattazione e respingimento delle accuse, ma aggravò volontariamente la sua situazione giustificando l’irriverenza verso il Pontefice, «le orrende bestemmie, i gesti insultanti, le affermazioni perturbatrici del sentimento cristiano delle anime pie», gli insulti a Cristo («ingannatore e mago, e che a buon diritto fu impiccato», disse, p. 79) ai cristiani e alla loro fede. Nel dicembre 1595 «il consesso operò un estremo tentativo ed impose ai due più autorevoli confratelli del Nolano, il generale Beccaria e il procuratore Isaresi, di recarsi nella cella dell’ostinato per convincerlo, mostrargli i suoi errori, chiarirgli le enunciazioni ch’egli avrebbe dovuto abiurare, indurlo a penitenza» ma «Giordano respinse ogni raccomandazione» (p. 77), convalidando così «la massa ingente delle testimonianze» (p. 79). Bruno venne consegnato al braccio secolare e al Governatore di Roma, comunque sempre accompagnato da «visite quotidiane di teologi e confortatori» (p. 80).
In conclusione lo storico laico critica la leggenda nera creatasi attorno a Giordano Bruno, «le belle favole degli eroi, costruzioni siffatte si reggono solo fin quando il fermo dato analitico non sopravviene a dissipare l’alone poetico e v’è financo il pericolo, quando ciò accade, che anche l’intima verità che s’era vestita di quei colori leggendari venga frettolosamente negletta» (p. 81). I dati storici hanno anche smentito «in maniera apparentemente inoppugnabile il mito del Bruno “eroe del pensiero”». «E’ tempo ormai», scrisse ancora, «che la lunga polemica sul suo nome si plachi e ch’egli non sia più idolo di ottuse venerazioni né vittima di avvelenate calunnie». Ricordando anche: «il processo fu condotto secondo il rispetto della più stretta legalità, senza acredine preconcetta, semmai con accenni di tollerante comprensione per l’eccezionale personalità dell’inquisito. Fare del caso del Bruno un punto di partenza per mettere sotto inchiesta l’istituto complesso dell’Inquisizione implicherebbe un capovolgimento del problema talmente arbitrario da pregiudicare ogni ragionevole soluzione, basti riconoscere alla Chiesa facoltà di legiferare nel suo campo con sanzioni che rispondono alle concezioni ed agli usi dei tempi, constatare la situazione veramente drammatica della cattolicità nell’ultimo decennio del ‘500».
Nonostante questo concordiamo con Firpo sul fatto che «Bruno rimane la vittima di una intolleranza» ed infatti nel febbraio 2000 il segretario di Stato Vaticano, Angelo Sodano, ha parlato di «triste episodio della storia cristiana moderna», di Bruno «sembra acquisito che il cammino del suo pensiero, svoltosi nel contesto di un’esistenza piuttosto movimentata e sullo sfondo di una cristianità purtroppo divisa, lo abbia condotto a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana». «Resta il fatto che i membri del Tribunale dell’Inquisizione lo processarono con i metodi di coazione allora comuni, pronunciando un verdetto che, in conformità al diritto dell’epoca, fu inevitabilmente foriero di una morte atroce. Non sta a noi esprimere giudizi sulla coscienza di quanti furono implicati in questa vicenda. Quanto emerge storicamente ci dà motivo di ritenere che i giudici del pensatore fossero animati dal desiderio di servire la verità e promuovere il bene comune, facendo anche il possibile per salvargli la vita. Oggettivamente, tuttavia, alcuni aspetti di quelle procedure e, in particolare, il loro esito violento per mano del potere civile non possono non costituire oggi per la Chiesa – in questo come in tutti gli analoghi casi – un motivo di profondo rammarico. Il Concilio ci ha opportunamente ricordato che la verità “non si impone che in forza della verità stessa” (Dignitatis humanae 1). Essa va perciò testimoniata nell’assoluto rispetto della coscienza e della dignità di ciascuna persona».
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