“Fuori dal buio”, la dolorosa storia di una bambina cresciuta con un padre gay
***
giugno 27, 2012
Benedetta Frigerio
La canadese Dawn Stefanowicz ha
pubblicato la sua biografia: «Anche se avrei potuto stare zitta e non
rivelare i nostri segreti familiari. Ma ho deciso di difendere i bambini
dalle leggi ingiuste di questo paese».
«La mia speranza è che, leggendo la mia storia, tutti i lettori,
e in particolare quelli che occupano posizioni influenti o autorevoli,
siano meglio informati e guidati nell’assumere decisioni che possono
incidere profondamente sulle nostre famiglie e sui nostri bambini, che
sono il futuro e la speranza delle prossime generazioni». A parlare è
Dawn Stefanowicz, che ha scelto coraggiosamente di scrivere un libro
sulla sua vita di ragazzina cresciuta con un padre omosessuale. Fuori dal Buio, la mia vita con un padre gay
(edizioni Ares, 240 pagine, 14 euro) è una storia che condanna
l’omosessualità in quanto pratica accettata come normale e che al tempo
stesso critica non solo coloro che ne parlano come di una tendenza
innocua, ma anche chi la considera solo come una scelta da condannare e
non un disagio da alleviare. Per l’autrice questi due atteggiamenti sono
entrambi facce della stessa medaglia. Quella di chi non vuole
affrontare il problema, accontentandosi di un sentimento superficiale:
«Non conosco molti omosessuali o ex omosessuali che sceglierebbero una
Chiesa come il luogo più confortevole e accogliente in cui aprirsi»,
scrive infatti la donna, che ugualmente condanna chi per cercare
consensi o «bisogno di fondi è deciso a negoziare sui princìpi
fondamentali».
Sfogliando il libro si capisce il perché e si rimane impressionati dal coraggio dell’autrice che ha messo sul piatto una storia di sofferenze indicibili «per difendere i bambini innocenti che non possono difendersi da soli», come scrive nella dedica del volume, e per lottare, come si legge nella prefazione, «contro una nuova, inaudita forma di abusi sui minori, legalizzata e promossa dagli Stati che hanno abbracciato un’ideologia del tutto falsa, per la quale ogni tipo di vissuto e ogni forma di convivenza vengono considerati leciti ed equivalenti». Dawn, infatti, racconta di un’infanzia che le rovinerà per sempre la vita, in cui «senza un attaccamento sicuro a lui (il padre, ndr) non riuscii per anni a relazionarmi a nessun uomo (…), a non ricordare nulla di alcune spiegazioni; mi ritrovai del tutto incapace di gestire la tensione quotidiana, sia a scuola sia a casa».
La ragazza descrive poi un’adolescenza fatta di «doppi sensi in tutte le amicizie. Vivevo una situazione familiare tanto incerta che davo per scontato e insieme temevo che sessualmente avrei dovuto fare esperienze diverse per scoprire quale fosse la mia identità (…). Non riuscii a legare con nessuno, maschio o femmina (…). Con papà, naturalmente, non c’era scampo: se uscivo con le femmine diceva che ero lesbica (…), la promiscuità mi sembrava la cosa più normale». Crescendo la ragazza si accorge di avere «un’autostima bassissima, e avevo cominciato a non mangiare (…) volevo essere libera e indipendente da qualsiasi legame affettivo». Essere in compagnia di papà aumentava i miei conflittuali sensi di curiosità e di colpa in campo sessuale (…), i suoi occhi (del padre, ndr) erano alla continua ricerca di qualcosa in più da possedere e da toccare mentre io cercavo solo il suo amore (…). Ciò che importava era stare insieme a papà, nonostante tutti gli ambienti degradanti nei quali mi portava e verso i quali mi toglieva sensibilità». Perché anche «se ne vede e se ne sente abbastanza di qualsiasi cosa, si finisce per crederci e accettare tutto come parte della convenzione». Ma a peggiorare le cose fu «l’audacia di papà nella sua condotta omosessuale sempre più evidente», dovuta al fatto che «non c’era più nessuno a cui sentiva di dover rendere conto (…) una nuova aria di permissivismo permeava la società».
Ma come può l’omosessualità portare a tutte queste conseguenze negative, che hanno segnato profondamente anche i fratelli dell’autrice? Per Dawn la società preferisce «fermarsi all’apparenza». Invece la frustrazione profonda del padre che «cercava di colmare con i rapporti omosessuali», era enorme, «sebbene quella che presentava al mondo fosse un’immagine di sicurezza, intelligenza, efficienza e benessere economico». «Era una persona insicura», perché l’omosessuale, spiega l’autrice raccontando dei tantissimi incontrati con il mondo gay, è come suo padre: «Narcisista, concentrato su se stesso e tanto bisognoso di conferme e di affetto da parte di altri uomini». Infatti, «lui portava dentro una grandissima rabbia irrisolta, che ribolliva e traboccava in scene spaventose». Anche se «riteneva di avere sempre ragione. Il problema era sempre di qualcun altro, non suo». «Di tanto in tanto – scoprirà la Stefanowicz – lottava anche contro la depressione e qualche volta pensava al suicidio (…). Viveva una vita tormentata, il suo modo di affrontare il proprio disagio era seppellirsi negli straordinari di lavoro e poi la sera e nei fine settimana, fuggire verso attività sessuali compulsive».
L’autrice racconta anche dei tanti uomini del padre, «molti dei quali si suicidarono» perché incapaci di colmare «la frustrazione che vivevano quando lui li lasciava» e dello psichiatra del padre che peggiorò le cose spronandolo a continuare per la sua strada di «automedicazione». L’autrice parla di due incontri che le hanno donato speranza. La sua vicina di casa, da cui spesso si rifugiava da piccola e che «mi aiutò a discernere». La donna, infatti a differenza di tutti gli adulti che «in nome dell’ideologia politically correct fingevano di non vedere (…), parlava delle cose così com’erano, non come apparivano», spiegando alla piccola che «il papà fa delle cose che non dovrebbe fare perché sono sbagliate». Il secondo incontro di Dawn è con la famiglia di un altro vicino di casa, che la aiutò durante gli anni della adolescenza in cui viveva stati depressivi importanti: «Conoscendo i suoi genitori ebbi finalmente un’idea di quello che dovesse essere una famiglia», intuendo che l’amore eterosessuale era possibile, non era una chimera.
Oggi se Dawn Stefanowicz è sposata lo deve «alla fede in Dio», che si è palesata nella sua vita in modo affascinante («gli affidai la vita»), grazie anche «all’incontro con mio marito», un pastore protestante. Anni di analisi, invece, l’hanno aiutata a sentirsi finalmente donna e ad avere due figli e, grazie alla fede, Dawn è riuscita anche a perdonare il padre, convertitosi prima di morire di Aids: «L’inferno che vivo è molto reale (…) Gesù è tutto quello di cui ho bisogno. Lui ha spezzato le mie catene e mi ha liberato». Leggendo questo libro non si trova un filo di rancore o di odio (anzi si parla di perdono e di riscatto), ma solo il tentativo di spiegare a «chi governa» che è necessario «fare del bene ad altri bambini che hanno subìto famiglie come la mia». Purtroppo, come è successo ai suoi fratelli, troppo spesso i figli hanno paura di parlare e semplicemente «sopportano per anni la tensione di non dire praticamente niente a nessuno (…). Anche ora mi sento in colpa come se tradissi i miei genitori e i miei fratelli rivelando a tutti i nostri segreti familiari. Ma ho ponderato le conseguenze del mio voler dire la verità, ponendole sul piatto della bilancia di un obiettivo più alto: quello di mostrare a tutti quanto le strutture parentali e familiari possano incidere negativamente sullo sviluppo dei bambini».
Sfogliando il libro si capisce il perché e si rimane impressionati dal coraggio dell’autrice che ha messo sul piatto una storia di sofferenze indicibili «per difendere i bambini innocenti che non possono difendersi da soli», come scrive nella dedica del volume, e per lottare, come si legge nella prefazione, «contro una nuova, inaudita forma di abusi sui minori, legalizzata e promossa dagli Stati che hanno abbracciato un’ideologia del tutto falsa, per la quale ogni tipo di vissuto e ogni forma di convivenza vengono considerati leciti ed equivalenti». Dawn, infatti, racconta di un’infanzia che le rovinerà per sempre la vita, in cui «senza un attaccamento sicuro a lui (il padre, ndr) non riuscii per anni a relazionarmi a nessun uomo (…), a non ricordare nulla di alcune spiegazioni; mi ritrovai del tutto incapace di gestire la tensione quotidiana, sia a scuola sia a casa».
La ragazza descrive poi un’adolescenza fatta di «doppi sensi in tutte le amicizie. Vivevo una situazione familiare tanto incerta che davo per scontato e insieme temevo che sessualmente avrei dovuto fare esperienze diverse per scoprire quale fosse la mia identità (…). Non riuscii a legare con nessuno, maschio o femmina (…). Con papà, naturalmente, non c’era scampo: se uscivo con le femmine diceva che ero lesbica (…), la promiscuità mi sembrava la cosa più normale». Crescendo la ragazza si accorge di avere «un’autostima bassissima, e avevo cominciato a non mangiare (…) volevo essere libera e indipendente da qualsiasi legame affettivo». Essere in compagnia di papà aumentava i miei conflittuali sensi di curiosità e di colpa in campo sessuale (…), i suoi occhi (del padre, ndr) erano alla continua ricerca di qualcosa in più da possedere e da toccare mentre io cercavo solo il suo amore (…). Ciò che importava era stare insieme a papà, nonostante tutti gli ambienti degradanti nei quali mi portava e verso i quali mi toglieva sensibilità». Perché anche «se ne vede e se ne sente abbastanza di qualsiasi cosa, si finisce per crederci e accettare tutto come parte della convenzione». Ma a peggiorare le cose fu «l’audacia di papà nella sua condotta omosessuale sempre più evidente», dovuta al fatto che «non c’era più nessuno a cui sentiva di dover rendere conto (…) una nuova aria di permissivismo permeava la società».
Ma come può l’omosessualità portare a tutte queste conseguenze negative, che hanno segnato profondamente anche i fratelli dell’autrice? Per Dawn la società preferisce «fermarsi all’apparenza». Invece la frustrazione profonda del padre che «cercava di colmare con i rapporti omosessuali», era enorme, «sebbene quella che presentava al mondo fosse un’immagine di sicurezza, intelligenza, efficienza e benessere economico». «Era una persona insicura», perché l’omosessuale, spiega l’autrice raccontando dei tantissimi incontrati con il mondo gay, è come suo padre: «Narcisista, concentrato su se stesso e tanto bisognoso di conferme e di affetto da parte di altri uomini». Infatti, «lui portava dentro una grandissima rabbia irrisolta, che ribolliva e traboccava in scene spaventose». Anche se «riteneva di avere sempre ragione. Il problema era sempre di qualcun altro, non suo». «Di tanto in tanto – scoprirà la Stefanowicz – lottava anche contro la depressione e qualche volta pensava al suicidio (…). Viveva una vita tormentata, il suo modo di affrontare il proprio disagio era seppellirsi negli straordinari di lavoro e poi la sera e nei fine settimana, fuggire verso attività sessuali compulsive».
L’autrice racconta anche dei tanti uomini del padre, «molti dei quali si suicidarono» perché incapaci di colmare «la frustrazione che vivevano quando lui li lasciava» e dello psichiatra del padre che peggiorò le cose spronandolo a continuare per la sua strada di «automedicazione». L’autrice parla di due incontri che le hanno donato speranza. La sua vicina di casa, da cui spesso si rifugiava da piccola e che «mi aiutò a discernere». La donna, infatti a differenza di tutti gli adulti che «in nome dell’ideologia politically correct fingevano di non vedere (…), parlava delle cose così com’erano, non come apparivano», spiegando alla piccola che «il papà fa delle cose che non dovrebbe fare perché sono sbagliate». Il secondo incontro di Dawn è con la famiglia di un altro vicino di casa, che la aiutò durante gli anni della adolescenza in cui viveva stati depressivi importanti: «Conoscendo i suoi genitori ebbi finalmente un’idea di quello che dovesse essere una famiglia», intuendo che l’amore eterosessuale era possibile, non era una chimera.
Oggi se Dawn Stefanowicz è sposata lo deve «alla fede in Dio», che si è palesata nella sua vita in modo affascinante («gli affidai la vita»), grazie anche «all’incontro con mio marito», un pastore protestante. Anni di analisi, invece, l’hanno aiutata a sentirsi finalmente donna e ad avere due figli e, grazie alla fede, Dawn è riuscita anche a perdonare il padre, convertitosi prima di morire di Aids: «L’inferno che vivo è molto reale (…) Gesù è tutto quello di cui ho bisogno. Lui ha spezzato le mie catene e mi ha liberato». Leggendo questo libro non si trova un filo di rancore o di odio (anzi si parla di perdono e di riscatto), ma solo il tentativo di spiegare a «chi governa» che è necessario «fare del bene ad altri bambini che hanno subìto famiglie come la mia». Purtroppo, come è successo ai suoi fratelli, troppo spesso i figli hanno paura di parlare e semplicemente «sopportano per anni la tensione di non dire praticamente niente a nessuno (…). Anche ora mi sento in colpa come se tradissi i miei genitori e i miei fratelli rivelando a tutti i nostri segreti familiari. Ma ho ponderato le conseguenze del mio voler dire la verità, ponendole sul piatto della bilancia di un obiettivo più alto: quello di mostrare a tutti quanto le strutture parentali e familiari possano incidere negativamente sullo sviluppo dei bambini».
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