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lunedì 12 agosto 2013

Il Grossman liberato

Il Grossman liberato


Sequestrato nel ’61 dal Kgb, riappare il manoscritto di “Vita e destino”. Per l’Urss era “come un’atomica” 

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“Perché sequestrarlo se è un libro dove non c’è menzogna, né calunnia, mentre c’è verità, dolore, amore per gli altri?”, domandava un affranto Vasilij Grossman all’allora segretario del Partito comunista Nikita Kruscev. Il grande scrittore sovietico morirà senza neppure sapere che fine avesse fatto il manoscritto originale del suo “Vita e destino”, il romanzo, secondo George Steiner, destinato a “eclissare tutti i romanzi che in occidente vengono presi sul serio”. Cinquant’anni dopo, quel manoscritto riemerge miracolosamente dagli archivi dell’ex Kgb. Nel corso di una commovente presentazione al ministero della Cultura, i funzionari dei servizi di sicurezza, rappresentati dal direttore Sergei Smirnov, hanno consegnato alla figlia e alla nipote dello scrittore tredici faldoni bianchi contenenti undicimila fogli manoscritti confiscati a Grossman il 14 febbraio 1961. Erano conservati alla Lubianka, il celebre palazzo che ospita i servizi segreti moscoviti.
La sorte di questo romanzo-epopea e del suo autore, autentico Erodoto della Seconda guerra mondiale, è fra le più incredibili del Novecento. Era il giugno 1941 quando Grossman fu chiamato dal Partito comunista, in cui credeva ciecamente, a seguire l’Armata rossa come corrispondente di guerra. A trentasei anni divenne il faro di Krasnaja Zvezda (Stella rossa), il giornale dell’esercito di Stalin. Grossman era il sommo rappresentante del realismo socialista, i suoi scritti apprezzatissimi anche da Maxim Gorkij. Raccontò in presa diretta “le rovine e le ceneri di Gomel, Cernigov, Minsk… il Kreschatik – la strada principale di Kiev – ridotto in polvere, nere colonne di fumo levarsi sopra Odessa in fiamme, Varsavia rasa al suolo…”, e poi la resistenza di Stalingrado, l’arrivo a Berlino. Come testimoniò Viktor Nekrassov, “leggevamo e rileggevamo senza fine i giornali che contenevano le corrispondenze di Grossman, fino a che le pagine non cadevano a brandelli dalle nostre mani”.
All’epoca dei piani quinquennali di Stalin, Grossman credette al punto tale nella costruzione dell’uomo nuovo da abbandonare i cantieri del Donbuss, dove lavorava come chimico, per mettersi a raccontare l’epopea dei militanti bolscevichi, con romanzi edificanti, per esempio, sul dilemma di una donna, commissario politico nell’Armata rossa, divisa nel 1920 tra lotta politica e maternità, mentre sull’Ucraina incombe la controffensiva polacca.

Al seguito dell’Armata rossa, Grossman arriva per primo a Varsavia, facendosi strada fra le macerie del ghetto ebraico, dove dopo l’eroica rivolta trova solo un muro coperto di vetri rotti e migliaia di cadaveri. Poi giunge a Treblinka, nel settembre del 1944, in quell’immensa fabbrica di morte del popolo ebraico. Da lì si spinge quindi oltre l’Oder, sul fronte, per raccontare la controffensiva russa in Germania, con i carri armati che avanzano fra “centinaia di contadini barbuti, con donne, bambini, interi villaggi che da prigionieri avevano dovuto seguire i nazisti invasori e che adesso marciavano verso la liberazione”.
I Grossman erano una famiglia benestante e cosmopolita, avversa allo zarismo, che aveva salutato con favore la Rivoluzione. Così Vasilij – classe 1905 – era uscito nel 1929 dall’Università di Mosca fiero di mettere la sua penna a servizio del mondo nuovo che il comunismo stava edificando. E diventerà uno di quegli “ingegneri dell’anima” che tanto piacevano a Stalin, così bravi nel convincere il popolo della bontà del sistema sociale comunista e della perfidia dei suoi nemici. Un pavido intellettuale che figurerà anche fra i firmatari dell’appello contro il sionismo ordito da Stalin.

Lo scrittore era nato a Berdicev, cittadina ucraina di sessantamila abitanti. Gli ucraini la chiamavano “la capitale degli ebrei”. Almeno fino alla Shoah, che se la inghiottì come un buco nero. Nel XVIII secolo era stata un importante centro del movimento chassidico e nel XIX dell’Haskalah, l’illuminismo ebraico. Qui i soldati della Wehrmacht vennero accolti nel luglio del 1941 come liberatori dal giogo sovietico. Qui due mesi dopo le SS e gli Einsatzgruppen, con il volonteroso sostegno degli ucraini arruolati nella Polizei, fucilarono in tre giorni tutti i trentamila israeliti della città, nella prima operazione di eliminazione degli ebrei sistematicamente pianificata su vasta scala. Alcune tra quelle milioni di ossa appartenevano a Ekaterina Savelyeva, madre di Vasilij Grossman, che proprio alla madre aveva dedicato il manoscritto di “Vita e destino”.
Se oggi siamo in grado di leggere “Vita e destino” nell’elegante edizione Adelphi (ma i primi a pubblicarlo in Italia furono i coraggiosi editori di Jaca Book, Sante Bagnoli e Maretta Campi), lo dobbiamo a un manipolo di uomini e donne che riuscirono a fotografarlo e a portarlo in salvo in occidente. La tesi del libro di Grossman era dinamite per l’epoca: il male si annida ovunque ci sia dell’ideologia, nazismo e comunismo sono due volti della stessa ferocia totalitaria. Fra l’altro, Grossman non nominava mai Stalin e neppure l’Armata rossa, ma soltanto “quei soldati senza nome che hanno combattuto col male”.

Le autorità sovietiche avevano imparato qualcosa dalla vicenda Pasternak (lo scrittore era morto nel 1960), e i responsabili culturali del regime non vollero ripetere l’errore con un altro ostracismo. Vadim Kozhevnikov, caporedattore della rivista Znamja, scelta da Grossman per la pubblicazione di “Vita e destino”, non appena si mise a leggere il manoscritto informò i funzionari politici della bomba che si trovava fra le mani. Interruppe la pubblicazione senza dire nulla all’autore. La rivista sarebbe stata disponibile a rinunciare a tutti gli anticipi corrisposti a Grossman, che ammontavano a 16.587 rubli, una piccola fortuna per l’epoca.
Il 14 febbraio 1961, alle 11.40 del mattino, il Kgb arrivò nell’appartamento di Grossman sulla Begovaja per “prendere in custodia” le copie del libro. Per la prima volta nella storia sovietica era stato deciso di “arrestare” un manoscritto, ma non il suo autore. E anche il tipografo che doveva stampare il volume venne bastonato. La perquisizione a casa Grossman diede il via all’èra dei samizdat, letteralmente “edizione in proprio”. Ovvero, per proteggere i loro scritti dal Partito, gli autori facevano affidamento su amici e parenti, in modo da non consentire la distruzione dell’intera opera. Alexander Solgenitsin dirà di essere stato ossessionato dalle copie del “Primo cerchio”, perché “sapevo come il romanzo di Grossman era stato prelevato”.

Dalle grinfie degli ascari di Kruscev non si salvarono neppure gli appunti, la carta carbone e i nastri della macchina per scrivere che Grossman aveva usato per “Zhizn’ i sud’ba”, “Vita e destino” in russo. Gli ideologi sovietici avevano riconosciuto subito in quel libro un testo ben più temibile del “Dottor Zivago” di Pasternak e persino degli scritti di Solgenitsin.
Grossman non si arrende, e protesta. Scrive una lettera al segretario del Partito Kruscev per chiedere una riparazione. Non sa che Kruscev cova un’autentica antipatia nei suoi confronti sin dai tempi gloriosi e tragici di Stalingrado, quando l’allora commissario in capo del Partito per l’intero teatro delle operazioni Kruscev si aspettava che Grossman lo intervistasse, invano. Così, per quattro mesi, nessuna risposta, finché lo scrittore non viene ricevuto da Michail Suslov, il potente capo della sezione ideologica del Partito, che a nome del Comitato centrale gli comunica che non è il caso di pubblicare il romanzo e men che meno di restituirgli il manoscritto: “Il suo libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni”. E ancora: “Perché mai alle bombe atomiche dei nostri nemici dovremmo aggiungere il suo libro?”. Nel 1964, mentre si trovava ormai morente in ospedale, Grossman confiderà alla sua cara amica Anna Berzer di sentirsi come “sepolto vivo” (zamurovan).
Prima del blitz in casa, comunque, lo scrittore aveva affidato due copie dattiloscritte a persone fidate, Semen Lipkin e Viaceslav Ivanovic Loboda. Quest’ultimo lo conserva nella sua casa di Malojaroslavec, centocinquanta chilometri da Mosca. Quando Ivanovic muore in un incidente stradale, la custodia del dattiloscritto passa a sua moglie Vera Ivanovna, che lo nasconde in cantina. Oggi quella copia è conservata alla Houghton Library dell’Università di Harvard. Gli amici più intimi di Grossman lo avevano messo in guardia dal consegnare copie del libro ai parenti, perché anche loro avrebbero potuto lavorare come informatori (in Unione sovietica si faceva leva sulla debolezza delle persone). 

Dopo la morte di Grossman, Lipkin, che ha la seconda copia dattiloscritta, si lancia nell’impresa di portare clandestinamente il romanzo in occidente. Vengono realizzati due microfilm: il primo dallo scrittore dissidente Vladimir Voinovich, il secondo da Andrei Sacharov, celebre scienziato e oppositore politico, e da sua moglie Elena Bonner. Questi ultimi copiano “Vita e destino” nel laboratorio clandestino che hanno allestito nel gabinetto della loro casa di Mosca. Siamo negli anni in cui anche il solo possesso di un mimeografo porta alla condanna a tre anni di carcere. Il regime non voleva che esistessero macchine fotocopiatrici. Nel 1978, Rosemarie Ziegler, ricercatrice austriaca in slavistica, passa il confine nascondendo i microfilm in una scatola non più grande di un pacchetto di sigarette. A Parigi il tesoro viene consegnato a Efir Etkind, un filologo cacciato per aver aiutato Alexander Solgenitsin. Ma nessuno in Francia vuole pubblicare l’ennesimo “romanzo di guerra” (anche in Italia è stato a lungo snobbato). Il manoscritto arriva in Svizzera, dove l’editore serbo di Losanna Vladimir Dimitrijevic si getta anima e corpo nel lavoro di pubblicazione del libro. Impiega mesi per decifrare le oltre mille pagine ma alla fine, nel 1980, l’Age d’Homme, la casa editrice di Dimitrijevic, pubblica la prima edizione di “Vita e destino”. I dirigenti sovietici rimangono scioccati quando vedono il libro alla fiera di Francoforte.
In questo magistrale affresco corale in cui vivono medici, ingegneri, negozianti, lacchè, studenti, funzionari di ogni ordine e grado, mercanti di bestiame, mezzane, sacrestani, contadini, operai, calzolai, modelle, orticultori, zoologi, albergatori, guardiacaccia, prostitute, pescatori, cuoche, portieri e ostetriche, svettano le sorelle Saposnikov, Evgenija, sposata con un commissario politico, e Ljudmila, con il loro destino di mogli e di madri, costrette alla coabitazione forzata, alle tessere per i pasti, alle piccole angherie, ai grandi lutti. C’è Strum, il marito di Ljudmila, un celebre fisico teorico, che al culmine delle sue ricerche vede abbattersi su di sé il flagello dell’antisemitismo, col rischio di essere eliminato fisicamente. In Grossman c’è anche la prima, incredibile testimonianza dell’Olocausto, con l’esultanza del portinaio antisemita: “Grazie a Dio per i giudei è la fine”. Giustamente ha scritto François Furet: “Nessun altro scrittore sovietico ha dato fondo come Grossman alla capacità di cogliere la tragedia ebraica e al coraggio di parlarne”.

Sofja Osipovna Levinton, trentadue anni, medico militare, nell’estate del 1942 anche lei salirà su un convoglio piombato infestato di pidocchi, pianti, lamenti, fetori. Attraverso di lei e il piccolo David, un bimbo ebreo che si ritrova fra le braccia, Grossman arriva dentro il lager di Treblinka, seguendo passo dopo passo il calvario di quei corpi nudi pigiati sotto le docce, che ignari e rassegnati entrano nelle camere a gas. Nasce allora “La Madonna a Treblinka”. Composto nel 1955, all’inizio del disgelo, il breve scritto non fu stampato prima del 1989. Si tratta di un testamento d’amore che un intellettuale ateo, ebreo e comunista rivolge alla madre di Gesù. Nella “Madonna Sistina” di Raffaello, che i soldati sovietici portarono a Mosca di ritorno da Dresda, Grossman vede il volto dell’umanità e il mistero cristiano dell’incarnazione. “Mi accorsi che fino a quel momento avevo usato con leggerezza una parola terribile per la sua potenza: immortalità. Questo quadro di Raffaello non morirà finché sarà vivo l’uomo. La sua bellezza è intrecciata, fusa in eterno con quella bellezza che si nasconde, profonda e indistruttibile, dovunque nasce ed esiste la vita, negli scantinati, nelle soffitte, nei palazzi, nelle prigioni”. Un volto che soccorre i contadini uccisi negli anni della carestia, i bottegai ebrei uccisi nel pogrom di Kishinev, i morti nelle cave di pietra, i boscaioli della taiga, i soldati nelle trincee allagate d’acqua e i fratelli e le sorelle di Treblinka. Né Hitler né la collettivizzazione di Stalin hanno potuto sottomettere la vita, perché “anche nelle epoche più terribili la distruzione della vita non significa la sua sconfitta”. Anche “Vita e destino” si chiude su una immagine ottimista, con il simbolo del pane quotidiano, sottolineando “la gioia furiosa della vita”, con una casa che torna a riempirsi di risa e pianti di una famiglia.
A causa di “Vita e destino”, Grossman divenne una “non persona”, i suoi libri furono ritirati dalle biblioteche, i suoi articoli rifiutati. “Mi hanno strangolato sulla soglia di casa”, dirà agli amici. Grossman “il fortunato”, come era nato per essere scampato più volte alla morte a Stalingrado e a Berlino, si spense alle otto di sera del 14 settembre 1964, nell’anniversario della retata in cui a Berdicev le SS si erano portate via la madre. Al funerale lo scrittore Ilya Ehrenburg, per spiegare la sorte di Grossman, disse che “il destino non ama i massimalisti”. Grossman riposa nel cimitero di Troekurovskoe. Ogni tanto qualcuno va a depositare garofani rossi sulla sua tomba. Abbandonato e sconosciuto, anche nella morte. La vita e il destino di Grossman sono racchiusi in una celebre frase che lo scrittore amava citare da Cechov: “E’ giunta l’ora di liberarsi dello schiavo che è in noi”.

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