La carità, non la filantropia. Federico Ozanam, professore di speranza cristiana alla Sorbona
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Cos’è per lui la carità? Egli la distingue da una semplice filantropia: «La carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni, rendiconti, memorie; a meno d’un anno d’esistenza posseggono già grossi volumi di verbali. La filantropia è un’orgogliosa per cui le buone azioni sono una specie d’ornamento e che si compiace di guardarsi nello specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica la sua bellezza per il suo amore».
di Daniele Premoli
Già
prima dei continui appelli di papa Francesco a «toccare la carne di
Cristo» e a uscire dalle chiese, da alcuni visti come una colossale
novità nella bimillenaria storia della Chiesa; ebbene, già prima di
questi, alcuni figli obbedienti della Chiesa hanno preso sul serio
l’esercizio della carità. La Chiesa è piena di tali esempi, e qui vorrei
presentare una di queste figure, sconosciuta ai più: il Beato Federico
Ozanam, fondatore delle Conferenze di san Vincenzo de Paoli. Ben più
noto è certamente un “figlio spirituale” del Beato Ozanam, membro della
Conferenza di San Vincenzo a Torino: il (beato anch’egli) Piergiorgio
Frassati!
1 Apologetica e carità: gemelle siamesi legate dal cuore
Federico Ozanam nacque a Milano
il 23 aprile 1813 da Jean Antoine, medico ed ex-ufficiale dell’esercito
napoleonico, e da Maria Nantas, figlia di un commerciante lionese. È
nella famiglia che Federico apprenderà a servire Dio mediante la carità
ai più poveri: la madre organizzerà a Lione una “Societé des Veilleuses”,
per sostenere le ragazze in difficoltà, operaie, vedove, inferme. Il
padre, invece, che era medico, visita i poveri nelle loro soffitte; e fu
proprio lì che, nel maggio 1837, verrà trovato morto.
Nel 1831, dopo la maturità classica,
Federico parte per Parigi: frequenterà il corso di Diritto alla
Sorbona, per obbedire al padre che lo vorrebbe avvocato. La sua passione
tuttavia è quella letteraria, tanto che è conservata una lunga lettera
scritta ad un cugino in sette lingue (latino, greco, francese, tedesco e
spagnolo, italiano ed ebraico). Nel 1839 è dottore in Diritto e – per
assecondare la sua passione – in lettere.
Il soggiorno a Parigi, tuttavia, sarà per lui una grande “croce”: «Quanto
a me, potrei stare meglio? Una bella camera, una buona tavola, una
piacevole società, delle conversazioni quasi sempre istruttive e spesso
divertenti con il mio ospite… Ebbene, mi credi felice? Oh no, non lo
sono poiché si è creata in me una solitudine immensa, un grande
malessere. Separato da coloro che amavo non posso mettere radici su
questo suolo straniero. E Parigi mi disgusta perché non vi è vita, fede,
amore, dove la freddezza mi gela e la corruzione mi uccide». La
Francia del tempo, infatti, è ancora intrisa degli ideali della
rivoluzione francese: ideali laicisti e anticlericali. Un professore
universitario, Emmanuel Bailly, per rispondere alle sfide degli
anticlericali, decide di riunire intorno a sé alcuni studenti cattolici
per discutere argomenti di storia, di diritto, di letteratura, di
filosofia: sono le conferenze di storia. In esse, Federico diventa leader indiscusso… Ma accade un imprevisto.
Una sera, alcuni studenti atei attaccano quelli cattolici. Ascoltiamo la stessa descrizione di Federico: «”Voi
che vi vantate di essere cattolici, cosa fate concretamente? Dove sono
le opere che dimostrano la vostra fede e che possono farla da noi
accettare e rispettare?”. Essi avevano ragione. In verità noi pensammo
che in questo rimprovero vi fosse purtroppo del vero, perché non
facevamo nulla. Fu allora che noi dicemmo a noi stessi: ebbene,
all’opera! E che le nostre azioni siano in accordo con la nostra fede.
Ma cosa fare? Che cosa fare per essere veramente cattolici, se non fare
quello che più piace Dio? Soccorriamo dunque il nostro prossimo come
faceva Gesù Cristo, e mettiamo la nostra fede sotto la protezione della
carità».
2 Due estranee: carità e filantropia
In quegli anni, operava a Parigi una suora,
della congregazione delle Figlie della Carità fondate da San Vincenzo
dei Paoli. Suor Rosalie – questo era il suo nome – era diventata a 29
anni superiora del convento di Parigi, dove aveva fondato un
dispensario, una scuola, una farmacia, un asilo nido, una casa di
assistenza per le giovani operaie. Ma soprattutto visitava e faceva
visitare dai suoi figli spirituali i poveri, lì dove essi abitavano. Al
suo seguito, Federico e alcuni suoi compagni iniziarono le visite ai
poveri. Il 23 aprile 1833, con altri cinque amici, fondò la Conferenza
della carità, che volle intitolare a San Vincenzo de Paoli. Scrive: «Bisognava
formare un’associazione di mutuo incoraggiamento per i giovani
cattolici, dove si trovasse amicizia, sostegno, esempi. Ora il legame
più forte, il principio di una vera amicizia, era carità e la carità non
può esistere senza spandersi all’esterno; è un fuoco che si spegne in
mancanza di elementi e l’alimento della carità sono le opere buone. Se
noi ci diamo appuntamento sotto il tetto di poveri, serve più a noi che a
loro, per diventare migliori e più amici».
Cos’è per lui la carità? Egli la distingue da una semplice filantropia: in una lettera a Léonce Curnier, del 23 febbraio 1835, dice: «La
carità non deve mai guardare dietro di sé, ma sempre davanti, perché il
numero delle suo beneficenze passate è sempre troppo piccolo e perché
infinite sono le miserie presenti e future che deve lenire. Guardate le
associazioni filantropiche: non sono che assemblee, relazioni,
rendiconti, memorie; a meno d’un anno d’esistenza posseggono già grossi
volumi di verbali. La filantropia è un’orgogliosa per cui le buone
azioni sono una specie d’ornamento e che si compiace di guardarsi nello
specchio. La carità è una tenera madre che tiene gli occhi fissi sul
bimbo che porta alla mammella, e non pensa più a se stessa e dimentica
la sua bellezza per il suo amore».
E, in un altro passo: «La
sapienza della Chiesa e la sincerità del suo amore per i poveri
risplendono precisamente nel fatto che essa conosce troppo l’estensione
dei loro mali ed è troppo compenetrata dei loro dolori per credere di
riuscir mai a mettervi fine. Ecco perché riabilita una condizione che
non spera di sopprimere, ecco perché circonda la povertà col rispetto
della terra e le promesse del cielo».
3 Una vita per i ricchi
Ma l’apostolato di Federico non si indirizzava
esclusivamente ai poveri. Lo abbiamo lasciato laureato in diritto e
lettere; lo ritroviamo ora, a pochi mesi dalla laurea, docente di
diritto commerciale all’università di Lione. Il 9 ottobre 1840 è
nominato professore di letteratura straniera alla Sorbona, incarico che
manterrà sino alla primavera del 1852. Le sue lezioni, seguitissime,
vengono così descritte: «quelli che non hanno udito l’Ozanam
professore, non conoscono ciò che vi è di personale nel suo ingegno.
Preparazioni laboriose, ostinate ricerche nei testi, erudizione
accumulata con grandi sforzi, e poi uno splendido improvvisatore, una
parola affascinante e colorita, tale e quale era suo insegnamento.
Preparava le sue lezioni come un benedettino e le pronunziava come un
oratore: una doppia fatica nella quale si logorò la sua ardente
costituzione che finì per spezzarsi». Così dirà nella sua ultima lezione: «È
proprio sulla cattedra che logoriamo la nostra salute e consumiamo le
nostre energie. Io non mi rammarico di ciò perché la nostra vita vi
appartiene, noi ve la dedichiamo fino all’ultimo respiro e ve la stiamo
donando. Quanto a me, signori, se muoio io sarò contento di farlo vostro
servizio».
Tentiamo di capire perché Federico tenga
tanto all’insegnamento. Egli intende annunciare gli ideali cristiani ai
suoi studenti. Nel suo ultimo discorso, citato prima, afferma: «Non
so se ci ritroveremo un altro anno. Ma quale che sia la durata del mio
insegnamento, delle mie forze, della mia vita, non avrò perduto il mio
tempo se vi avrò fatto credere al progresso attraverso il cristianesimo;
se in tempi difficili, avrò saputo rianimare nelle vostre giovani anime
la speranza, che non è soltanto l’ispiratrice del bello, ma il
principio del bene, che non ci fa soltanto produrre belle opere, ma
compiere grandi doveri. Necessaria all’artista per guidare la sua penna o
i suoi pennelli, la speranza non lo è meno al giovane padre che fonda
una famiglia o al lavoratore che getta il suo grano nel solco, per la
celeste parola di colui che ha ordinato: Seminate!».
Svolge così un vero apostolato culturale, articolato sia nella ricerca scientifica e nella docenza universitaria che nella educazione alla gioventù: «La
verità non ha bisogno di me, ma io di lei. La causa della scienza
cristiana e la causa della fede, è quello in cui credo nel profondo del
mio cuore; e in qualunque umile modo l’avrò saputo servire, avrò
impegnato degnamente gli anni che mi sono concessi sulla terra». Per
lui, la verità coincide con la fede cattolica. La cattedra
universitaria diveniva così un pulpito di apologia della fede ed esempio
pratico di carità.
«Voi avete dei discepoli ricchi.
Quale utile lezione per fortificare i cuori immobili, quale benefico
spettacolo per mostrare loro dei poveri, mostrare loro nostro Signore
Gesù Cristo non solo in immagini dipinte dai più insigni maestri, o su
altari risplendenti d’oro e di luce; ma mostrar loro Gesù Cristo e le
sue piaghe nelle persone dei poveri! Spesso abbiamo parlato della
debolezza, della frivolezza, della nullità di uomini anche cristiani
nella nobiltà di Francia e Italia. Ma io sono certo che sono così perché
una cosa è mancato nella loro educazione: una cosa che loro non si è
affatto insegnata, una cosa che essi conoscono soltanto di nome e che
occorre aver visto soffrire dagli altri per imparare a soffrirla quando
presto o tardi verrà. Questi giovani signori devono sapere che
cos’è la fame, la sete, un granaio spoglio. Bisogna che essi vedano dei
miserabili, dei genitori malati, dei bimbi piangenti. Bisogna che li
vedano e li amino. Tale vista risveglierà qualche palpito nel loro
cuore, altrimenti questa generazione è perduta».
4 Politica: potenza dell’oro, potenza della disperazione
Il 1848, in tutta Europa è l’anno delle rivolte.
È anche l’anno che ci mostra il Federico politico. Un politico
dichiaratamente cattolico. A febbraio fonda con altri intellettuali
cattolici un giornale intitolato L’Ere Nuovelle, per «introdurre lo spirito cristiano nelle istituzioni repubblicane». In un articolo scritto a settembre, Federico indirizza alla gente dabbene queste parole: «si
è detto alle persone dabbene che erano state loro a salvare la Francia:
avete cancellato la rivolta, ma rimane un nemico che non conoscete
abbastanza, del quale non vi piace sentir parlare e del quale ci siamo
decisi a parlar di oggi: la miseria».
Si rivolge al clero: «Voi vi
accogliete caritatevolmente l’indigente che bussa alla vostra porta; ma è
venuto il tempo di occuparsi di più di quegli altri poveri che non
mendicano, che vivono ordinatamente del loro lavoro e ai quali non si
assicurerà mai il diritto al lavoro ed il diritto all’assistenza». Ai ricchi, agli industriali e ai banchieri: «riaprite le fonti di quel credito di cui accusate l’esaurimento. Fate l’elemosina del lavoro e fate anche quella dell’assistenza». Ai politici: «non
pensate di aver fatto abbastanza avendo votato dei sussidi che
finiscono per esaurirsi, avendo regolamentato le ore di lavoro, quando
il lavoro è ancora soltanto un sogno».
Scrive al fratello: «dietro
la questione della Repubblica che interessa a pochi, se non alle
persone colte, ci sono le questioni che interessano il popolo, e per le
quali si è armato: le questioni dell’organizzazione del lavoro, del
riposo, del salario. Non bisogna credere che si possa sfuggire a questi
problemi. Se pensiamo che soddisferemo il popolo dandogli delle
assemblee primarie, dei consigli legislativi, dei nuovi magistrati, dei
consoli, un presidente, ci sbagliamo di grosso. E fra 10 anni, e forse
anche prima, ci sarà da ricominciare». Anni prima aveva esposto lo stesso pensiero: «La
questione che divide gli uomini dei nostri giorni, non è una questione
di forme politiche, è una questione sociale: si tratta di sapere chi
avrà la meglio, se lo spirito di egoismo o lo spirito di sacrificio; se
la società non sarà altro che un grande sfruttamento a profitto dei più
forti o la consacrazione di ciascuno al bene di tutti. Si sta preparando
una lotta e questa lotta minaccia di essere terribile: da una parte la
potenza dell’oro, dall’altra la potenza della disperazione. Tra questi
due eserciti nemici dobbiamo precipitarci noi, se non per impedire,
almeno per attenuare lo scontro».
Nell’aprile 1848, pressato dei suoi concittadini lionesi,
e Federico tenta l’impegno politico e si candida per l’assemblea
nazionale. Il suo è un grande programma di riforme: sostegno ai diritti
del lavoro, misure per la disoccupazione, salario minimo, promozione
delle associazioni tra operai imprenditori, sistema di imposte
progressivo, impulso ai lavori di pubblica utilità, libertà di parola,
d’insegnamento, di culto. Ma il suo è un programma troppo audace e non
viene eletto, pur ottenendo 15.000 voti.
5 Finire di pregare e di vivere
Tutto questo, tuttavia, non fece bene
alla salute di Federico. Dal 1850 la sua vita è un viaggio continuo tra
Parigi e i luoghi con un clima più mite, come la sua amata Italia. A
conclusione di questa presentazione vorrei sottolineare la grande vita
di fede di Federico. Lo animava un grande amore per l’Eucarestia, per la
Liturgia, per la Chiesa. Sua moglie ci assicura di non averlo mai visto
svegliarsi o addormentarsi senza pregare. Pregava in ginocchio prima di
andare a tenere le sue lezioni. Consacrava ogni giorno mezz’ora alla
meditazione. Assisteva alla messa durante la settimana il più spesso
possibile e, negli ultimi anni della sua vita, tutti i giorni. Egli
viveva senza interruzione alla presenza di Dio. Il giorno dei suoi
quarant’anni, il 23 aprile 1853, egli scrive il suo testamento: «rimetto
la mia anima a Gesù Cristo, mio Salvatore, spaventato dai miei peccati,
ma fiduciosa nella divina misericordia. Ho conosciuto i dubbi del
secolo presente, ma tutta la mia vita mi ha convinto che non c’è riposo
per lo spirito e il cuore se non nella fede della Chiesa e sotto la sua
autorità. Se assegno qualche valore ai miei lunghi studi, è perché mi
permettono di supplicare quelli che amo a restare fedeli a una fede
nella quale ha trovato la luce e la pace».
In una lettera scritta al suo medico, così afferma: «so
che il mio male è grave, ma non disperato, che ci vorrà molto tempo per
guarire e che posso anche non guarire, ma mi sforzo di abbandonarmi con
amore alla volontà di Dio e dico, sfortunatamente più con le labbra che
col cuore: voglio quello che tu vuoi, voglio come tu vuoi, voglio per
il tempo che tu vuoi, voglio perché tu vuoi» Di lì a pochi mesi, Federico morirà: è l’8 settembre 1853.
Nel 1997, durante la GMG di Parigi, Giovanni Paolo II beatifica Federico Ozanam, presentandolo con queste parole: «uomo
di pensiero e di azione, Federico Ozanam è per gli universitari del
nostro tempo, professori e studenti, un modello di impegno coraggioso
capace di far udire una parola libera ed esigente nella ricerca della
verità e della difesa della dignità di ogni persona umana. Sia per loro
anche un appello di santità».
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