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sabato 23 novembre 2013

VIVERE LA FEDE

VIVERE LA FEDE

***

Incontro con i Seminaristi della Sicilia

27 ottobre 2013

Francesco Ventorino

  1. 1.    Cinismo o mendicanza
George Steiner un grande pensatore contemporaneo, un ebreo che si autodefinisce agnostico, parla di “un punto di non ritorno” cui l’uomo si è avvicinato, nei campi della morte che hanno contraddistinto il secolo scorso:
Morendo di sete, un prigioniero guarda il suo tormentatore versare lentamente per terra un bicchiere di acqua fresca: «Perché lo sta facendo?». Il boia rispose: «Non c’è “perché” qui», manifestando con una concisione e una lucidità provenienti dall’inferno, il divorzio fra umanità e linguaggio, fra ragione e sintassi, fra dialogo e speranza. Parlare e scrivere erano diventati, in quel baratro della storia, un’espressione dell’assurdo e del disastro. Non rimaneva niente, stricto sensu, da dire (G. Steiner, Grammatiche della creazione, Garzanti, Varese 2003, p. 258).
Questo processo che ha portato l’uomo moderno dalla luce della fede al buio della ragione, là dove è impossibile distinguere il bene dal male, è stato descritto mirabilmente nella enciclica Lumen fidei di papa Francesco:
2. Nell’epoca moderna si è pensato che una tale luce [quella della fede] potesse bastare per le società antiche, ma non servisse per i nuovi tempi, per l’uomo diventato adulto, fiero della sua ragione, desideroso di esplorare in modo nuovo il futuro. In questo senso, la fede appariva come una luce illusoria, che impediva all’uomo di coltivare l’audacia del sapere. Il giovane Nietzsche invitava la sorella Elisabeth a rischiare, percorrendo «nuove vie…, nell’incertezza del procedere autonomo». E aggiungeva: «A questo punto si separano le vie dell’umanità: se vuoi raggiungere la pace dell’anima e la felicità, abbi pur fede, ma se vuoi essere un discepolo della verità, allora indaga». Il credere si opporrebbe al cercare. A partire da qui, Nietzsche svilupperà la sua critica al cristianesimo per aver sminuito la portata dell’esistenza umana, togliendo alla vita novità e avventura. La fede sarebbe allora come un’illusione di luce che impedisce il nostro cammino di uomini liberi verso il domani.
3. In questo processo, la fede ha finito per essere associata al buio. Si è pensato di poterla conservare, di trovare per essa uno spazio perché convivesse con la luce della ragione. Lo spazio per la fede si apriva lì dove la ragione non poteva illuminare, lì dove l’uomo non poteva più avere certezze. La fede è stata intesa allora come un salto nel vuoto che compiamo per mancanza di luce, spinti da un sentimento cieco; o come una luce soggettiva, capace forse di riscaldare il cuore, di portare una consolazione privata, ma che non può proporsi agli altri come luce oggettiva e comune per rischiarare il cammino. Poco a poco, però, si è visto che la luce della ragione autonoma non riesce a illuminare abbastanza il futuro; alla fine, esso resta nella sua oscurità e lascia l’uomo nella paura dell’ignoto. E così l’uomo ha rinunciato alla ricerca di una luce grande, di una verità grande, per accontentarsi delle piccole luci che illuminano il breve istante, ma sono incapaci di aprire la strada. Quando manca la luce, tutto diventa confuso, è impossibile distinguere il bene dal male, la strada che porta alla mèta da quella che ci fa camminare in cerchi ripetitivi, senza direzione (Lumen fidei, nn. 2; 3).
Ma l’uomo moderno è definito nello stesso tempo da una struggente domanda di significato e di eterno. Anche nel nostro contesto culturale, infatti, tante persone sono alla ricerca del senso ultimo e della verità definitiva sulla loro esistenza e sul mondo, come ha scritto Benedetto XVI nella Porta fidei:
La stessa ragione dell’uomo, infatti, porta insita l’esigenza di “ciò che vale e permane sempre” Tale esigenza costituisce un invito permanente, inscritto indelebilmente nel cuore umano, a mettersi in cammino per trovare Colui che non cercheremmo se non ci fosse già venuto incontro (Porta Fidei, n. 10).
Questa posizione è efficacemente espressa in poemetto di Pascoli, Il cieco, un testo che si può considerare il più “definitivo” rispetto al pensiero del poeta. In esso si immagina un mendicante, un girovago cieco guidato dal cane. Ma il cane muore e allora l’uomo rimane nel buio assoluto di fronte a qualcuno la cui presenza però sente e ammette.
Ma forse uno m’ascolta; uno mi vede,
invisibile. Sé dentro sé cela.
Sogghigni? piangi? m’ami? odii? Siede
in faccia a me. Chi che tu sia, rivela
chi sei: dimmi se il cuor ti si compiace
o si compiange della mia querela!
Egli mi guarda immobilmente, e tace.
O forse una mi vede, una m’ascolta,
invisibile. È grande, orrida: il vento
le va fremendo tra la chioma folta.
Siede e mi guarda. O tu che ignoro e sento,
dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!
dimmi ove sono! Ed essa è là, col mento
sopra la palma, che mi guarda, e tace.
Chi che tu sia, che non vedo io, che vedi
me, parla dunque: dove sono? Io voglio
cansar l’abisso che mi sento ai piedi…
di fronte? a tergo? Parlami. Il gorgoglio
n’odo incessante; e d’ogni intorno pare
che venga; ed io qui sto, come uno scoglio,
tra un nero immenso fluttuar di mare».
Così piangeva: e l’aurea sera nelle
rughe gli ardea del viso; e la rugiada
sopra il suo capo piovvero le stelle.
Ed egli stava, irresoluto, a bada
del nullo abisso, e gli occhi intorno, pieni
d’oblìo, volgeva; fin ch’ – io so la strada –
una, la Morte, gli sussurrò – vieni! –[1]
«Ed egli stava, irresoluto, a bada / del nullo abisso», della realtà senza senso. «O tu che ignoro e sento, / dimmi se guerra hai tu negli occhi o pace!», «Chi che tu sia, [...] parla dunque».
Il Verbo si è fatto carne, Dio ha parlato e ha detto: «Misericordia, Pietà, Amore»; il grido profetico del genio ha avuto risposta: venne fra i suoi e i suoi non se ne sono accorti. Ma l’uomo senza quella risposta rimane nella vita ultimamente irresoluto, anche se febbrilmente pieno di iniziative, a guardia del nullo abisso. Perché, realmente, non c’è una terza possibilità fra ciò che è accaduto duemila anni fa e la tragica e magnifica immagine dell’uomo di questo bellissimo poemetto.
Il grido di Pascoli di fronte alla enigmaticità ultima del reale non può essere evitato se non nel caso che l’uomo incontri colui che ha parlato. Al di fuori dell’incontro con Cristo questo è l’unico atteggiamento interamente umano. In questo non si ravvisa una negazione religiosa; anzi si esprime la verità del cuore dell’uomo. La mendicanza è, dunque, la dinamica obbligatoria della natura umana quando prende coscienza di se stessa. Si tratta, infatti, di una fedeltà alla originalità della propria natura. In questa drammatica impossibilità coscientemente riconosciuta di risposte esaurienti che la ragione possa dare si ravvisa una inconsapevole profezia dell’imprevedibile avvenimento di Cristo.
  1. 2.    L’incontro cristiano svela la verità su Dio e sull’uomo
Benedetto XVI ha scritto nella sua prima Enciclica, Deus caritas est:
All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con un Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò una  direzione decisiva (Deus caritas est, n.1.).
La fede incomincia, dunque, con un fatto che ha la forma di un incontro, l’incontro con una persona che si riconosce come eccezionale, cioè corrispondente al proprio cuore come nessun altro, che stupisce e che porta a chiederci: “Chi è costui?”.
È l’eccezionalità e quindi la corrispondenza al cuore che si sperimenta nell’incontro con Cristo che porta a fidarsi di lui, anche a causa della grandezza inestimabile del suo messaggio o della dottrina divina che egli rivela.
Questa esperienza costituisce la verifica della sua affidabilità, verifica che dà fondamento ragionevole all’atto della libertà con la quale poi a lui ci si affida e si accoglie la verità che egli rivela. La libertà, infatti, è la capacità di volere il bene, cioè la pienezza della soddisfazione del desiderio del cuore, quella soddisfazione che si pregusta nello stare con lui.
Questa è l’esperienza che hanno fatto i primi che si sono incontrati con Gesù. Due persone, Giovanni e Andrea, che dopo essere stati un pomeriggio a casa sua, ne escono con la convinzione di avere incontrato il Messia (Gv 1, 35-51). E da lì una serie di inviti fra di loro e di incontri con Lui. “Persone che senza esserselo mai immaginato seguono per curiosità quell’uomo, stanno con lui fino a sera, dimenticando persino di andare a lavorare, rimangono così impressionate che riportano come vera un’affermazione fatta forse da lui stesso che rispondeva a tutte le attese del loro tempo” (L. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 56): “Abbiamo trovato il Messia”.
Nel tempo e nella convivenza con quell’uomo l’intuizione di quella eccezionalità diventa una certezza profonda: “Nel Vangelo dunque viene documentato che il credere abbraccia la traiettoria della convinzione in un successivo ripetersi di riconoscimenti, cui occorre dare uno spazio e un tempo perché avvengano” (Ibid., p. 59). Il miracolo delle nozze di Cana si impone agli inizi di questa progressiva auto rivelazione di Gesù (Gv 2, 1-12).
Nel tempo e nella convivenza con Gesù i suoi discepoli hanno fatto la scoperta di un uomo senza paragone. “Le cose, il tempo e lo spazio gli obbediscono senza alcun apparato «magico». Egli ottiene ciò con una manipolazione della realtà del tutto «naturale», come di chi è padrone della realtà stessa. Il Vangelo nota che giungeva a sera «stanco di guarire», avendo cioè senza interruzione esercitato il suo potere sulla realtà fisica” (Ibid., p. 60). (Lc 5, 17-26).
La sua intelligenza, inoltre, sventava ogni tentativo di metterlo in fallo, come nel caso del tributo a Cesare o della donna colta in flagrante adulterio (Mt 22, 15-22; Gv 8, 1-11); ma il miracolo più grande, da cui i discepoli erano colpiti ogni giorno, “era uno sguardo rivelatore dell’umano cui non ci si poteva sottrarre. Non c’è nulla che convinca l’uomo come uno sguardo che riconosca ciò che esso è, che scopra l’uomo a se stesso” (Ibid., p. 62). Come nel caso della Samaritana o nell’incontro con Zaccheo. (Gv 4, 1-12; Lc 19, 1-10). “La capacità di cogliere il cuore dell’uomo è il miracolo più grande, il più persuasivo” (Ibid.,p. 63).
Ma in Gesù i suoi testimoni hanno potuto vedere non solo quello sguardo potente e intelligente, ma anche uno sguardo buono. “È difficile che una persona potente sia veramente buona” (Ibid., p. 63). È commovente il suo incontro con la vedova di Naim e quello con la peccatrice nella casa di un fariseo (Lc 7, 11-17; Lc 7, 36-50).
Tu non puoi dire: “Questo uomo è Dio”. Non puoi vedere tu se uno è Dio o no; ma dalla eccezionalità dell’esperienza di rapporto con questo uomo, tu trai la conseguenza che ti devi fidare di questo uomo: “Se non mi fido di questo uomo non mi fido più neanche dei miei occhi. È impossibile che questo uomo menta”.
La ragione, dunque, non può dimostrare la divinità di Cristo, perché la divinità in quanto personalmente presente in una realtà umana non è oggetto proprio della ragione. La ragione può soltanto arrivare a riconoscere che si trova di fronte a qualcosa di eccezionale. Non può arrivare a definire chi è Gesù Cristo; ma proprio l’eccezionalità di quella presenza è la ragione per la quale si può facilmente credere a lui quando parla della sua divinità.
Il cristianesimo è, dunque, la conoscenza attraverso un testimone umano di una cosa che umanamente non si può sapere, cioè la conoscenza del mistero di Cristo e attraverso di lui del mistero di Dio e del mistero dell’uomo, del senso e del destino della nostra esistenza.
La fede ‒ scriveva san Tommaso d’Aquino ‒ è in noi l’inizio della vita eterna, in quanto ci introduce alla conoscenza di Dio[2]. La fede cristiana è, infatti, quella grazia che soccorre l’indigenza costitutiva dell’uomo, per la quale egli non riesce da sé a soddisfare l’esigenza della propria ragione, cioè conoscere l’essenza misteriosa della causa ultima di sé e della realtà tutta. In questo senso, la fede è l’inizio gratuito della risposta a quel desiderio naturale di vedere Dio posto nel cuore dell’uomo quasi come una promessa del suo compimento.
Il cristianesimo si rivolge, dunque, a questa esigenza di verità che è nella natura del cuore dell’uomo: la verità sulla propria origine e sul proprio destino. La Chiesa ha da dire a tutti una parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia. L’annuncio cristiano del Verbo fatto carne, morto e risorto, realizza quello che nella coscienza di ogni uomo emerge talora come presentimento o profezia. Cristo risorto conclama che tutto nella storia è redimibile, che non si perde nulla nel vortice degli eventi.
In una intervista rilasciata nel 1983 ad una televisione svizzera, il mio grande amico don Luigi Giussani lanciava questa provocazione:
Quello che persuade me come credente è soprattutto una sfida che il punto di vista della fede lancia a tutti gli uomini. Quale punto di vista, ma diciamo il termine scientifico, quale ipotesi di lavoro colloca in una posizione tale da abbracciare, senza dimenticare e rinnegare nulla, tutti i fattori che compongono, che tramano l’esperienza? Vale a dire, è un realismo ultimo quello che giustifica l’ipotesi della fede.
Bisogna riconoscere, infatti, che solo nel volto di Gesù crocifisso, morto e risorto si manifesta pienamente il destino dell’uomo e della storia in modo totalmente corrispondente, e quindi accettabile, alla ragione e al cuore. Egli solo è la parola definitiva sulla vita e sulla morte, sul significato del mondo e della storia, la risposta a quella esigenza profonda di verità e di giustizia che costituisce il cuore dell’uomo.
Cristo è vivo e presente nella sua Chiesa. In forza di questa sua contemporaneità, è possibile incontrarlo oggi. L’incontro con Lui dà alla vita l’orizzonte e la direzione decisiva, perché Egli è la verità che l’uomo cerca: la verità è un uomo! Quale forma ha preso per noi l’incontro cristiano? Come ne siamo stati illuminati e convinti? Sono domande che vengono prima di quelle che riguardano la nostra vocazione particolare se non vogliamo di rischiare di diventare dei preti senza fede.
Tommaso d’Aquino ha scritto che «al loro destino di felicità gli uomini sono ricondotti attraverso l’umanità di Cristo»[3] e per questo «la grazia prima ha colmato la sua umanità e da lì è derivata a noi»[4].
La scoperta di Cristo come centro del cosmo e della storia elimina la paura e fa sentire all’uomo una capacità di contatto dominatore su tutto: «Omnia vestra sunt, vos autem Christi, Christus autem Dei (Tutto è vostro, voi poi siete di Cristo e Cristo è di Dio)»[5].
  1. 3.    Il definitivo nel presente
Scusatemi se mi servo ancora di un testo di don Luigi Giussani:
Dice l’inizio del diciassettesimo capitolo del Vangelo di san Giovanni, che contiene l’ultima preghiera di Gesù prima di andare al Getsemani: «È venuta l’ora, glorifica il Figlio tuo come il Figlio tuo ha glorificato Te. Tu gli hai dato nelle mani il potere su ogni uomo [su tutti gli uomini], affinché dia la vita eterna a coloro che Tu gli hai dato nelle mani. E la vita eterna è questa: che conoscano Te solo vero Dio e Colui che hai mandato, Cristo». È venuta l’ora. E da allora questa frase indica ogni giornata della storia che passa, perché la definitività del tempo è incominciata con la glorificazione di Cristo che risorge. La morte e la risurrezione di Cristo iniziano l’era nuova che noi possiamo riconoscere e godere come una caparra – dice la liturgia – in attesa della manifestazione finale. Ma una caparra è della stessa natura della promessa intera. Per questo la vita del cristiano è come il grande realizzarsi dell’avvenimento di Cristo, ed è morte e risurrezione[6].
Ogni cristiano, ogni battezzato, porta in sé il destino cui sono destinati tutti, ma è stato scelto per incominciare a “comprendere” Cristo dentro il tempo e lo spazio. La consapevolezza di questa scelta genera gratitudine e affezione, e quindi una flessione della vita che ad essa si conforma.
Ogni cristiano, dunque, anticipa in sé l’“eschaton”, perché la fine della storia si avrà nel riconoscimento da parte di tutti proprio di questo, che Cristo è l’unico Signore del mondo. Il battezzato è colui che è chiamato ad anticipare nel tempo questo giudizio finale, questo riconoscimento finale. Ecco il significato del vivere “escatologicamente”, cioè del vivere nel presente l’“eschaton”, vivere nel presente il fine della storia. Questo riconoscimento di Cristo, ripeto, ha dentro di sé una gratitudine per essere stati scelti: “Perché io? Perché hai scelto me?”.
Da questa gratitudine e da questa affezione nasce la morale. La moralità è una tendenza della nostra vita a conformarsi, per gratitudine e per affetto, a Colui che ci ha scelti. È proprio dell’incontro con una presenza eccezionale il desiderio di una imitazione. L’eccezionale, infatti,  è ciò che corrisponde al cuore e pertanto, se lo vedo realizzato in qualcuno, desidero essere come lui.
Siamo chiamati ad anticipare il destino di tutti: è la grazia di poter vivere il definitivo nel presente, la grazia di non perdere tempo dietro ciò che non rimane, di poter consumare la vita per ciò che resta, per il vero Signore, Colui che è il  salvatore della mia umanità. Il cristiano, in definitiva, è colui che è chiamato a conoscere e a vivere già nel presente la realtà: Cristo è la realtà della storia e della vita; la realtà!
Ecco perché la fede non è un sentimento. La fede non è neanche uno stato d’animo. La fede è una intelligenza. Nel Battesimo è stata collocata dentro il nostro essere una potenzialità di intelligenza nuova. La fede è una luce.
È ciò che viene insistentemente affermato nella Lumen fidei di papa Francesco:
È urgente perciò recuperare il carattere di luce proprio della fede, perché quando la sua fiamma si spegne anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore. La luce della fede possiede, infatti, un carattere singolare, essendo capace di illuminare tutta l’esistenza dell’uomo. Perché una luce sia così potente, non può procedere da noi stessi, deve venire da una fonte più originaria, deve venire, in definitiva, da Dio. La fede nasce nell’incontro con il Dio vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore, un amore che ci precede e su cui possiamo poggiare per essere saldi e costruire la vita. Trasformati da questo amore riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c’è una grande promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede, che riceviamo da Dio come dono soprannaturale, appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel tempo. Da una parte, essa procede dal passato, è la luce di una memoria fondante, quella della vita di Gesù, dove si è manifestato il suo amore pienamente affidabile, capace di vincere la morte. Allo stesso tempo, però, poiché Cristo è risorto e ci attira oltre la morte, la fede è luce che viene dal futuro, che schiude davanti a noi orizzonti grandi, e ci porta al di là del nostro “io” isolato verso l’ampiezza della comunione. Comprendiamo allora che la fede non abita nel buio; che essa è una luce per le nostre tenebre. Dante, nella Divina Commedia, dopo aver confessato la sua fede davanti a san Pietro, la descrive come una “favilla, / che si dilata in fiamma poi vivace / e come stella in cielo in me scintilla”. Proprio di questa luce della fede vorrei parlare, perché cresca per illuminare il presente fino a diventare stella che mostra gli orizzonti del nostro cammino, in un tempo in cui l’uomo è particolarmente bisognoso di luce (Lumen fidei, n. 4).
Con la fede, dunque, inizia una nuova vita dentro la vita di prima, una nuova chiamata, una vocazione dentro ogni altra precedente, come ci mostra questo passo decisivo della prima lettera ai Corinti:
Per il resto, a ciascuno come il Signore ha dato in sorte, ciascuno come Dio ha chiamato, così cammini. Così dispongo in tutte le comunità. Uno è stato chiamato circonciso? Che non si tiri il prepuzio. Uno è stato chiamato col prepuzio? Che non si faccia circoncidere! La circoncisione è nulla e il prepuzio è nulla […]. Ciascuno rimanga nella chiamata in cui fu chiamato. Sei stato chiamato schiavo? Non preoccupartene. Ma se puoi diventare libero, piuttosto fa uso. Chi è stato chiamato schiavo nel Signore, è un libero nel Signore. Allo stesso modo, chi è stato chiamato libero, è schiavo del messia [7]
Giorgio Agamben ha fatto giustamente notare che il senso della Klesis (chiamata) paolina «indica la particolare trasformazione che ogni stato giuridico e ogni condizione mondana subiscono per il fatto di essere posti in relazione con l’evento messianico. Non di indifferenza escatologica si tratta, quindi, ma della mutazione, quasi dell’intimo spostamento di ogni singola condizione mondana in virtù del suo essere “chiamata”». Il suggerimento di rimanere nella propria condizione non esprime indifferenza, ma «il suo essere essenzialmente e innanzi tutto, una chiamata della chiamata. Per questo essa può aderire a qualunque condizione; ma per la stessa ragione, essa la revoca e mette radicalmente in questione nell’atto stesso in cui vi aderisce»[8].
Per far comprendere meglio questo concetto Agamben fa riferimento ad una altro passaggio della prima ai Corinti, dove Paolo dà «la definizione più rigorosa della vita messianica»:
Questo vi dico, fratelli: il tempo si è contratto; il resto è affinché gli aventi donna come non aventi siano e i piangenti come non piangenti e gli aventi gioia come non aventi gioia e i compranti come non possedenti e gli usanti il mondo come non abusanti. Passa infatti la figura di questo mondo. Voglio che siate senza cura[9].
E così lo commenta:
Hos me, «come non»: questa è la formula della vita messianica e il senso ultimo della klesis. La vocazione chiama a nulla e verso nessun luogo: per questo essa può coincidere con la condizione fattizia in cui ciascuno si trova chiamato; ma, proprio per questo, essa la revoca da cima a fondo. La vocazione messianica è la revocazione di ogni vocazione. In questo senso, essa definisce la sola vocazione che mi sembra accettabile. Che cos’è, infatti, una vocazione, se non  la revocazione di ogni concreta vocazione fattizia? Non si tratta, naturalmente di sostituire una vocazione più vera a una meno autentica: in nome di che cosa si deciderebbe per l’una piuttosto che per l’altra? No, la vocazione chiama la vocazione stessa, è come un’urgenza che la lavora e scava all’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa. Questo ‒ e nulla di meno che questo ‒ significa avere una vocazione, vivere nella klesis messianica[10].
La vocazione messianica, dunque,  è «la revocazione di ogni vocazione», non nel senso che si sostituisce alla altre, ma nel senso che la vocazione a seguire Cristo diventa il vero significato di ogni altra vocazione: «è come una urgenza che la lavora e scava dall’interno, la nullifica nel gesto stesso in cui si mantiene in essa, dimora in essa». Pensate alla vocazione al matrimonio: solo nella sequela di Cristo essa diviene vera nel dono reciproco fino al sacrificio supremo che è quello di morire per la salvezza dell’altro. E la sequela di Cristo la scava dentro, in profondità, e la libera da ogni incrostazione mondana nel concepire e nel vivere l’amore dei coniugi e con i figli.
Infatti, più avanti l’autore fa notare che l’hos me paolino si conclude con una frase: «passa infatti la figura, il modo di essere di questo mondo»[11], che così commenta: «tendendo ogni cosa verso se stessa nel come non, il messianico non la cancella semplicemente ma la fa passare, ne prepara la fine. Esso non è un’altra figura, un altro mondo: è il passaggio della figura di questo mondo»[12].
Vivere la vocazione messianica ‒ conclude Agamben ‒ significa fare uso di questo mondo senza mai farne oggetto di proprietà. La «nuova creatura» non è che l’uso della vecchia: «se uno è nel messia, nuova creatura: le cose vecchie sono passate accanto, ecco sono diventate nuove»[13].
Questo è il compito del cristiano nel mondo: la trasfigurazione di tutte le cose, usandole non come proprie, ma perché esse manifestino il potere che Cristo ha di sottomettere a sé tutto[14]. La vocazione cristiana è una chiamata ad anticipare in qualche modo la fine della storia, quando sarà chiaro chi è il vero signore del mondo secondo la profezia mirabile contenuta nella seconda lettera ai Tessalonicesi:
E allora sarà rivelato il senza legge (ànomos), che il Signore abolirà col soffio della sua bocca e renderà inoperante con l’apparizione della sua presenza . (parousìa)[15].
Dare testimonianza a Cristo: questo è il senso della vita cristiana, o della vocazione messianica, come la chiama Agamben. Nella Lumen fidei troviamo riaffermata questa urgenza per il nostro tempo:
La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti. Ma se fosse così, se Dio fosse incapace di agire nel mondo, il suo amore non sarebbe veramente potente, veramente reale, e non sarebbe quindi neanche vero amore, capace di compiere quella felicità che promette. Credere o non credere in Lui sarebbe allora del tutto indifferente. I cristiani, invece, confessano l’amore concreto e potente di Dio, che opera veramente nella storia e ne determina il destino finale, amore che si è fatto incontrabile, che si è rivelato in pienezza nella Passione, Morte e Risurrezione di Cristo[16]
Dare testimonianza a Cristo! Questo è possibile in qualunque condizione. Spesso l’amore alla forma che nella nostra vita deve prendere la gloria di Cristo ci fa dimenticare questo scopo. Spesso siamo più attaccati a questa forma che a Lui.
La forma vocazionale non la scegli tu. Questa è un’affermazione di importanza grandissima e, da qualunque parte vi venisse un altro suggerimento sarebbe un tradimento della vostra vita. La vocazione te la dà Cristo.
Diceva il Papa ai seminaristi, ai novizi e alle novizie, nel discorso che abbiamo già citato:
Diventare sacerdote, religioso, religiosa non è primariamente una scelta nostra. Io non mi fido di quel seminarista, di quella novizia, che dice: “Io ho scelto questa strada”. Non mi piace questo! Non va! Ma è la risposta ad una chiamata e ad una chiamata di amore. Sento qualcosa dentro, che mi inquieta, e io rispondo di sì. Nella preghiera il Signore ci fa sentire questo amore, ma anche attraverso tanti segni che possiamo leggere nella nostra vita, tante persone che mette sul cammino[17].
Se veramente volete vivere quello che Cristo vi chiede, dovete preoccuparvi solo di mantenere il cuore disponibile a quello che Lui vorrà da voi. Il vero atteggiamento di chi si prepara a ciò cui Cristo l’ha chiamato è la domanda che Lui gli faccia vedere e realizzare quello che ha pensato per la sua vita. La vocazione non si identifica con una forma immaginata da noi. La vocazione non è un’immagine che piace, ci può essere anche quella, ma non è determinante; essa è ciò che decide Cristo per noi.



[1] G. PASCOLI, Il cieco, in ID., Poesie, Garzanti, Milano 1994.
[2]  «Fides est habitus mentis, qua inchoatur vita aeterna in nobis» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologica¸II-II, 4, 1, c.). Anche altrove la fede viene da lui definita come «praelibatio futurae visionis» (In III Sententiarum, 23, 2, 1, ad 4); o «inchoatio quaedam vitae aeternae» (De Veritate, I 14, 2, c).

[3] TOMMASO D’AQUINO, Summa theologiae, III, 9, 2, c.
[4] Ibid, I-II, 108, 1, c.
[5] I Cor 10, 31.
[6] L. GIUSSANI, “Fede ieri e oggi”, Tracce, febbraio 2008, p. 1.
[7] I Cor 7, 17-24.
[8] G. AGAMBEN, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 28.
[9] I Cor, 7, 29-32.
[10] G. AGAMBEN, op. cit., p. 29.
[11] I Cor 7, 31.
[12] G. AGAMBEN, op. cit. p. 30.
[13] 2  Cor 5, 17.
[14] Fil 3, 21.
[15] 2 Tess. 2, 8.
[16] FRANCESCO, Lumen fidei,  17.
[17] ID, Incontro con i seminaristi, i novizi e le novizie, Aula Paolo VI, 6 luglio 2013.

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