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sabato 2 novembre 2013

L’ultima poesia di Pasolini, intitolata “Saluto e augurio”, in dialetto friulano, è però dedicata ad un giovane fascista.

L’ultima poesia di Pasolini, intitolata “Saluto e augurio”, in dialetto friulano, è però dedicata ad un giovane fascista.
***
 Ed è una sorta di testamento, come se Pasolini avesse previsto che non ne avrebbe scritte altre.
A è quasi sigùr che chista
a è la me ultima poesia par furlàn;
e i vuèj parlàighi a un fassista
prima di essi (o ch’al sedi) massa lontàn.
(È quasi sicuro che questa è la mia ultima poesia in friulano: e voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani)
Al è un fassista zòvin,
al varà vincia un, vincia doi àins:
al è nassùt ta un paìs,
e al è zut a scuela in sitàt.
(È un fascista giovane, avrà ventuno, ventidue anni: è nato in un paese ed è andato a scuola in città.)
Al è alt, cui ociàj, il vistìt
gris, i ciavièj curs:
quand ch’al scumìnsia a parlàmi
i crot ch’a no’l savedi nuja di politica
(È alto, con gli occhiali, il vestito grigio, i capelli corti: quando comincia a parlarmi, penso che non sappia niente di politica)
e ch’al serci doma di difindi il latìn
e il grec, cuntra di me; no savìnt
se ch’i ami il latin, il grec – e i ciavièj curs.
Lu vuardi, al è alt e gris coma un alpìn.
(e che cerchi solo di difendere il latino e il greco contro di me; non sapendo quanto io ami il latino, il greco – e i capelli corti. Lo guardo, è alto e grigio come un alpino.)
“Ven cà, ven cà, Fedro.
Scolta. I vuèj fati un discors
ch’al somèa un testamìnt.
Ma recuàrditi, i no mi fai ilusiòns
(“Vieni qua, vieni qua, Fedro. Ascolta. Voglio farti un discorso che sembra un testamento. Ma ricordati, io non mi faccio illusioni)
su di te: jo i sai ben, i lu sai,
ch’i no ti às, e no ti vòus vèilu,
un còur libar, e i no ti pos essi sinsèir:
ma encia si ti sos un muàrt, ti parlarài.
(su di te: io so, io so bene, che tu non hai, e non vuoi averlo, un cuore libero, e non puoi essere sincero: ma anche se sei un morto, io ti parlerò.)
Difìnt i palès di moràr o aunàr,
in nomp dai Dius, grecs o sinèis.
Moùr di amòur par li vignis.
E i fics tai ors. I socs, i stecs.
(Difendi i paletti di gelso, di ontano, in nome degli Dei, greci o cinesi. Muori d’amore per le vigne. Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.)
Il ciaf dai to cunpàins, tosàt.
Difìnt i ciamps tra il paìs
e la campagna, cu li so panolis,
li vas’cis dal ledàn. Difìnt il prat
(Per il capo tosato dei tuoi compagni. Difendi i campi tra il paese e la campagna, con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato)
tra l’ultima ciasa dal paìs e la roja.
I ciasàj a somèjn a Glìsiis:
giolt di chista idea, tènla tal còur.
La confidensa cu’l soreli e cu’ la ploja,
(tra l’ultima casa del paese e la roggia. I casali assomigliano a Chiese: godi di questa idea, tienila nel cuore. La confidenza col sole e con la pioggia,)
ti lu sas, a è sapiensa santa.
Difìnt, conserva prea. La Repùblica
a è drenti, tal cuàrp da la mari.
I paris a àn serciàt, e tornàt a sercià
(lo sai, è sapienza sacra. Difendi, conserva, prega! La Repubblica è dentro, nel corpo della madre. I padri hanno cercato e tornato a cercar)
di cà e di là, nass’nt, murìnt,
cambiànt: ma son dutis robis dal passàt.
Vuei: difindi, conservà, preà. Tas:
la to ciamesa ch’a no sedi
(di qua e di là, nascendo, morendo, cambiando: ma son tutte cose del passato. Oggi: difendere, conservare, pregare. Taci! Che la tua camicia non sia)
nera, e nencia bruna. Tas! Ch’a sedi
’na ciamesa grisa. La ciamesa dal siun.
Odia chej ch’a volin dismòvisi
e dismintiàssi da li Paschis…
(nera, e neanche bruna. Taci! che sia una camicia grigia. La camicia del sonno. Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque…)
Duncia, fantàt dai cialsìns di muàrt,
i ti ài dita se ch’a volin i Dius
dai ciamps. Là ch’i ti sos nassùt.
Là che da frut i ti às imparàt
(Dunque, ragazzo dai calzetti di morto, ti ho detto ciò che vogliono gli Dei dei campi. Là dove sei nato. Là dove da bambino hai imparato)
i so Comandamìns. Ma in Sitàt?
Scolta. Là Crist a no’l basta.
A coventa la Gl’sia: ma ch’a sedi
moderna. E a coventin i puòrs.
(i loro Comandamenti. Ma in Città? Là Cristo non basta. Occorre la Chiesa: ma che sia moderna. E occorrono i poveri)
Tu difìnt, conserva, prea:
ma ama i puòrs: ama la so diversitàt.
Ama la so voja di vivi bessòj
tal so mond, tra pras e palàs
(Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità. Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo, tra prati e palazzi)
là ch’a no rivi la peràula
dal nustri mond; ama il cunfìn
ch’a àn segnàt tra nu e lòur;
ama il so dialèt inventàt ogni matina,
(dove non arrivi la parola del nostro mondo; ama il confine che hanno segnato tra noi e loro; ama il loro dialetto inventato ogni mattina,)
par no fassi capì; par no spartì
cun nissùn la so ligria.
Ama il sorel di sitàt e la miseria
dai laris; ama la ciar da la mama tal fì.
(per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria. Ama il sole di città e la miseria dei ladri; ama la carne della mamma nel figlio)
Drenti dal nustri mond, dis
di no essi borghèis, ma un sant
o un soldàt: un sant sensa ignoransa,
un soldàt sensa violensa.
(Dentro il nostro mondo, dì di non essere borghese, ma un santo o un soldato: un santo senza ignoranza, o un soldato senza violenza.)
Puarta cun mans di sant o soldàt
l’intimitàt cu’l Re, Destra divina
ch’a è drenti di nu, tal siùn.
Crot tal borghèis vuàrb di onestàt,
(Porta con mani di santo o soldato l’intimità col Re, Destra divina che è dentro di noi, nel sonno. Credi nel borghese cieco di onestà,)
encia s’a è ’na ilusiòn: parsè
che encia i parons, a àn
i so paròns, a son fis di paris
ch’a stan da qualchi banda dal momd.
(anche se è un’illusione: perché anche i padroni hanno i loro padroni, e sono figli di padri che stanno da qualche parte nel mondo.)
Basta che doma il sintimìnt
da la vita al sedi par diciu cunpàin:
il rest a no impuàrta, fantàt cun in man
il Libri sensa la Peràula.
(È sufficiente che solo il sentimento della vita sia per tutti uguale: il resto non importa, giovane con in mano il Libro senza la Parola.)
Hic desinit cantus. Ciàpiti
tu, su li spalis, chistu zèit plen.
Jo i no pos, nissun no capirès
il scàndul. Un veciu al à rispièt
(Hic desinit cantus. Prenditi tu, sulle spalle, questo fardello. Io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo. Un vecchio ha rispetto)
dal judissi dal mond; encia
s’a no ghi impuarta nuja. E al à rispièt
di se che lui al è tal mond. A ghi tocia
difindi i so sgnerfs indebulìs,
(del giudizio del mondo: anche se non gliene importa niente. E ha rispetto di ciò che egli è nel mondo. Deve difendere i suoi nervi, indeboliti,)
e stà al zoùc ch’a no’l à mai vulùt.
Ciàpiti su chistu pèis, fantàt ch’i ti mi odiis:
puàrtilu tu. Al lus tal còur. E jo ciaminarai
lizèir, zint avant, sielzìnt par sempri
(e stare al gioco a cui non è mai stato. Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi odii: portalo tu. Risplende nel cuore. E io camminerò leggero, andando avanti, scegliendo per sempre)
la vita, la zoventùt.
(la vita, la gioventù”.).
L’analisi migliore di questa poesia è senz’altro di Marcello Veneziani. Eccola:
(…) La più significativa in questo senso è proprio l’ultima poesia di Pasolini, scritta in friulano e intitolata “Saluto e augurio”.
E’ rivolta a un giovane fascista: “Voglio parlare a un fascista, prima che io, o lui, siamo troppo lontani” scrive quasi presago della fine imminente.
Dice di amare i suoi capelli corti (Pasolini detestava i capelloni che imperversavano in quegli anni tra i ranghi dei suoi compagni).
Il ragazzo fascista, dice Pasolini, “vuol difendere il latino e il greco contro di me”, ma “non sa quanto io ami il greco e il latino”.
Poi gli rivolge parole inattese: “Vieni qua, Fedro” dice Pasolini evocando il personaggio del dialogo platonico, il “Simposio”, dedicato all’Amore “ascolta.
Voglio farti un discorso che sembra un testamento.
“Parola che non lascia indifferenti, se si considera che è davvero la sua ultima espressione poetica.
Rimprovera al ragazzo di non avere un cuore libero, ma poi lo invita a difendere le vigne, i fichi negli orti, i casali, il capo tosato dei suoi camerati, le campagne, la confidenza col sole e con la pioggia.
E lo esorta a continuare a sognare perché “la Destra divina è dentro di noi, nel sonno”.
Odia quelli che vogliono svegliarsi, e dimenticarsi delle Pasque.
Lo invita poi ad amare i poveri, la loro diversità, a non essere borghese, ma santo e soldato, anche se “santo senza ignoranza” e “soldato senza violenza”.
E gli indica un compito: “Difendi, conserva, prega.”

Un precetto da “reazionario”.
“Prenditi tu sulle spalle questo fardello” dice Pasolini al fascista “io non posso: nessuno ne capirebbe lo scandalo.”
Un vecchio, aggiunge Pasolini, ha rispetto del mondo; invece un giovane, come il fascista, può prendere sulle spalle questo peso.
C’è probabilmente il gusto pasoliniano dello scandalo, l’assoluta inettitudine del poeta a vedere la realtà,e forse persino l’attenzione amorosa di un omosessuale verso un giovane dai capelli corti che esibisce la sua mascolinità.
Ma non c’è solo questo.
Ed è ben strano che Pasolini rivolga il suo testamento a un fascista, “tu ragazzo che mi odii”, e che a lui, e non a un compagno, affidi il suo “fardello”.
Un fardello in cui c’è l’essenza di Pasolini: il pauperismo ma anche la difesa della tradizione, delle radici, dell’ambiente, della religione (“difendi, conserva, prega”).

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