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domenica 24 novembre 2013

Bergoglio: rispetto per i gay, ma la famiglia è altra cosa

Bergoglio: rispetto per i gay, ma la famiglia è altra cosa
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a di Massimo Introvigne16-11-2013
Argentina, matrimonio gay
Tutte le volte che chi scrive, e tanti altri amici, manifesta in pubblico la sua opposizione alla legge liberticida sull’omofobia e ai progetti di legge sul «matrimonio» omosessuale, si alza sempre la manina di un oppositore che ci accusa di essere «contro il Papa», citando – non sempre con le parole esatte – la sua famosa frase, nell’intervista sull’aereo che lo riportava a Roma dal Brasile, secondo cui se una persona omosessuale «cerca il Signore e ha buona volontà, ma chi sono io per giudicarla?». A prescindere da qualunque valutazione e opinione sulla modalità di comunicazione e i rischi delle interviste, l’affermazione è coerente con il «Catechismo della Chiesa Cattolica», che del resto Papa Francesco aveva richiamato – come fa spesso – nella frase seguente di quello stesso dialogo con i giornalisti.
Alle persone in quanto persone, comprese quelle omosessuali, si applica l’evangelico «Non giudicate per non essere giudicati» (Mt 7,1), che non è certo un’invenzione di Papa Francesco. Lo stesso Gesù che invita a non giudicare, di fronte a chi si macchia di peccati che scandalizzano anche i bambini, esclama: «È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» (Lc 17, 1). Certamente Gesù non è in contraddizione con se stesso. Non lo è la Chiesa e non lo è il Papa, quando da una parte invita a non giudicare le persone omosessuali come persone, dall’altra richiama al «Catechismo», il quale insegna che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» e «in nessun caso possono essere approvati» o fondare riconoscimenti giuridici (n. 2357). E si tratta dello stesso «Catechismo» che al n. 2358 ammonisce che le persone omosessuali «devono essere accolte con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione».
Contraddizione? No. Qui c’è, al contrario, l’essenza stessa dell’annuncio cristiano, che da una parte applica il «Non giudicate» del Vangelo alle persone in quanto tali, dall’altra giudica gli atti e le loro conseguenze sociali. La Chiesa accoglie con compassione e delicatezza la donna che ha abortito, ma condanna l’aborto. Accoglie nella comunità – lo ha spiegato tante volte Benedetto XVI – i divorziati risposati, ma condanna il divorzio. È la gloria e la grandezza, ma anche il carattere esigente e difficile, del cristianesimo.
Va ringraziato dunque il vaticanista Sandro Magister per avere attirato l’attenzione, in relazione a polemiche recenti, su una lettera che il cardinale Bergoglio indirizzò il 5 luglio 2010 – tre anni fa – al dottor Justo Carbajales, Direttore del Dipartimento dei Laici della Conferenza Episcopale Argentina, il quale aveva organizzato per il 13 luglio una Marcia per la Vita e la Famiglia che voleva opporsi alla legge sul «matrimonio» omosessuale, poi sventuratamente approvata dal Parlamento argentino. Magister fornisce un link al testo pubblicato dall’agenzia dei vescovi argentini in lingua spagnola. Il testo non è mai stato tradotto in italiano, e ne propongo quindi la traduzione integrale:
«Caro Justo,
La Commissione Episcopale per i Laici della Conferenza Episcopale Argentina, nell’esercizio della libertà propria di tutti i cittadini, ha preso l’iniziativa di organizzare una manifestazione contro la possibile approvazione di una legge sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, riaffermando nel contempo la necessità che ai bambini sia riconosciuto il diritto ad avere un padre e una madre, necessari per la loro crescita ed educazione. Con questa lettera dedidero dare il mio appoggio a questa espressione di responsabilità del laicato.
So, perché me lo avete detto, che non sarà un evento contro nessuno, perché non vogliamo giudicare quanti pensano e sentono in modo diverso. Senza dubbio, più che mai, di fronte al bicentenario [dell’Argentina] e con la certezza di costruire una nazione che deve includere la pluralità e la diversità dei suoi cittadini, sosteniamo chiaramente che non si può considerare uguale quello che è diverso e che in una convivenza sociale è necessario accettare le differenze.
Non si tratta di una questione di semplice terminologia o di convenzioni formali relative a una relazione privata, ma di un vincolo di natura antropologica. L’essenza dell’essere umano tende all’unione dell’uomo e della donna come realizzazione reciproca, come attenzione e cura, come cammino naturale verso la procreazione. Questo conferisce al matrimonio la sua elevatezza sociale e il suo carattere pubblico. Il matrimonio precede lo Stato ed è la base della famiglia, che è cellula della società precedente a ogni legislazione e precedente perfino alla Chiesa. Da questo deriva che l’approvazione del progetto di legge in discussione significherebbe un reale e grave regresso antropologico.
No, il matrimonio di un uomo e di una donna non è la stessa cosa dell’unione di due persone dello stesso sesso. Distinguere non è discriminare, al contrario è rispettare. Differenziare per discernere è valutare in modo propio, non è discrimimare. In un’epoca in cui si insiste tanto sulla ricchezza del pluralismo e della diversità culturale e sociale, è davvero contraddittorio minimizzare le differenze umane fondamentali. Un padre e una madre non sono la stessa cosa. Non possiamo insegnare alle future generazioni che è la stessa cosa prepararsi a un progetto di famiglia assumendo l’impegno di una relazione stabile tra uomo e donna e convivere con una persona dello stesso sesso. Stiamo attenti a che, cercando di mettere davanti un preteso diritto degli adulti che lo nasconde, non ci capiti di lasciare da parte il diritto prioritario dei bambini – gli unici che devono essere privilegiati – a fruire di modelli di padre e di madre, ad avere un papà e una mamma.
Ti affido un incarico: da parte vostra, nel linguaggio ma anche nel cuore, non ci siano aggressività e violenza contro nessun fratello. I cristiani si comportano come servitori di una verità, non come suoi padroni. Prego il Signore che con la sua mansuetudine – quella mansuetudine che chiede a tutti noi – vi accompagni nell’evento. Ti chiedo per favore di pregare e far pregare per me. Che Gesù ti benedica e che la Vergine Santa ti custodisca».

Fin qui la lettera dell’allora cardinale Bergoglio. Essa mostra con perfetta chiarezza il pensiero dell’attuale Pontefice, che è quello della Chiesa e del «Catechismo». Da una parte, «non vogliamo giudicare quanti pensano e sentono in modo diverso». Dall’altra, abbiamo il diritto e il dovere come cattolici e come cittadini di giudicare gli atti – non possiamo sostenere e insegnare che l’unione stabile dell’uomo e della donna «è la stessa cosa» rispetto allo stare insieme di due persone dello stesso sesso – e di giudicare le leggi, opponendoci fermamente a quelle che manifestano un «reale e grave regresso antropologico».
Il Papa c’insegna uno stile, che ancora una volta è quello richiamato dal «Catechismo»: «mansueto» nell’evitare toni urlati o volgari e nel non giudicare le persone in quanto tali, fermo nel difendere una verità in cui è in gioco l’essenziale della questione antropologica. È lo stile della nostra battaglia, e del nostro sì alla famiglia.

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