Ei fu papista e antigiacobino. Il Napoleone cattolico che non vi hanno mai raccontato
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novembre 10, 2013
Francesco Amicone
Crudele, anticlericale,
superstizioso. Così è stato raccontato Bonaparte. Ora il cardinal Biffi
presenta il memoriale dell’Imperatore, dove emerge un uomo “nuovo”,
affascinato dalla fede come «adesione, non a una teoria, ma a una
persona viva, Gesù»
«Mai
in un uomo si è veduta una simile combinazione di crudeltà, tirannia,
petulanza, dissolutezza, lusso, ed avarizia, come in Napoleone».
Bonaparte aveva la rogna, piangeva come una fanciulla, soffriva di
continui svenimenti, cacciava a pestoni le amanti dal letto, esiliava
gli amici di infanzia, esultava per aver ricevuto una lettera dello Zar.
Era faceto, senza religione ma «estremamente superstizioso», «insolente
e offensivo nelle conversazioni private». Con queste parole, Lewis
Goldsmith, in The Secret History of the Cabinet of Bonaparte (1811)
inaugurò la campagna di delegittimazione pubblica contro l’imperatore
dei francesi.
Se la missione propagandistica fu un fallimento quasi completo, lo si deve al fascino esercitato dalle sue vittorie e anche ai molti memoriali che uscirono a distanza di pochi anni dalla sua morte. Uno dei più interessanti fu pubblicato a Parigi nel 1840 ed è stato recentemente tradotto in italiano. Si tratta di Sentiment de Napoléon sur le christianisme, Conversations religieuses. Le Conversazioni sul Cristianesimo, pubblicato dall’editrice Esd, contiene un estratto del memoriale, le testimonianze degli uomini esiliati con lui, che confermano l’adesione al cattolicesimo di Napoleone, già poeticamente rivelata da Alessandro Manzoni, nella poesia Il Cinque Maggio.
«Quello che esce da queste pagine», scrive il cardinale Giacomo Biffi, che ne ha promosso la pubblicazione, è un cristiano devoto. Per Napoleone «la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a “un segno strano”, alla sua morte sulla croce».
Le testimonianze raccolte dagli uomini della corte riunita sull’isola di Sant’Elena, che condivisero con lui gli ultimi 6 anni di vita, svelano dell’Imperatore l’intimità religiosa. Le conversazioni sono riportate dalle annotazioni dei due medici che l’ebbero in cura e dalle parole del suo esecutore testamentario Charles Tristan De Montholon. All’approssimarsi della morte, il generale corso si faceva trovare in camera con il Vangelo sul tavolino, e parlava tranquillamente del cristianesimo e di Dio. Non lo aveva mai fatto. «Io lo sento, questo Dio, lo vedo, ne ho bisogno, credo in lui», confida a De Montholon.
Bonaparte si dice affascinato da Gesù, dalla sua persuasione, che esercita «con un richiamo al cuore, e non con uno spiegamento sontuoso di logica». «Il suo spirito mi supera, e la sua volontà mi stupisce; tra lui e qualsivoglia altro nel mondo non può esserci un possibile termine di paragone», afferma. Napoleone, nel Vangelo, vede la nascita di Gesù, la storia della sua vita, la profondità del suo dogma come un «mistero insondabile». «Questo mistero – dice – è perennemente sotto i miei occhi, e io non posso né negarlo, né tanto meno spiegarlo. In tutto ciò non c’è niente di umano. Più tento di avvicinarmi, di esaminarlo da vicino, più il mistero mi trascende, e rimane di una grandezza soverchiante; e più medito, più il mistero diventa inafferrabile».
Il suono delle campane
Nel fare sarcastico e paternalistico di Napoleone, anche il bonapartista Antoine Claire Thibaudeau riscontrò una inclinazione al misticismo. Lo rileva nelle sue memorie sul Consolato, in un incontro nella residenza di Malmaison, nei pressi di Parigi, a margine del concordato con cui, nel 1801, Napoleone ristabilì il culto cattolico in Francia. Thibaudeau riporta il colloquio che avvenne tra l’imperatore e un membro del Consiglio di Stato.
Giustificando il Concordato con la Chiesa, e il ripudio delle dottrine sull’Essere Supremo, figlie del giacobinismo, Napoleone dice: «Domenica scorsa ero qui, in questo giardino, in questa solitudine, in questo silenzio della natura. Poco lontano la campana di Rueil risuonò alle mie orecchie: fui commosso; tanto è forte la potenza delle prime abitudini e dell’educazione. Allora dissi a me stesso: che impressione deve fare questo su uomini semplici e creduli! I vostri filosofi, i vostri ideologi rispondano a questo! Abbiamo bisogno di una religione per il popolo».
Grazie a quel Concordato, Napoleone ricevette la consacrazione del Papa Pio VII alla Repubblica e la conferma della vendita dei beni ecclesiastici, sottratti durante gli anni rivoluzionari. In compenso, «onori militari, in favore di Gesù, furono inseriti nel bollettino delle leggi».Nelle conversazioni a Sant’Elena, l’imperatore si sofferma anche su quegli anni e sullo strano rapporto che intrattenne con Pio VII, che fece “rapire” nel 1811 e che liberò soltanto in prossimità della sua fine politica. «Quando il Papa era in Francia», racconta Napoleone a De Montholon, «gli assegnai un palazzo magnifico a Fontainebleau, e 100.000 corone al mese; avevo messo a sua disposizione 15 vetture per lui e per i cardinali, anche se non uscì mai. Il papa era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che il papa smentì pubblicamente».
Non sono battute ironiche. A confermarne la veridicità ci sono gli scritti del Cardinal Bartolomeo Pacca (che Napoleone fece imprigionare), il quale ricorda la contentezza di Pio VII, dopo le visite con il suo persecutore corso. Il vecchio Papa lo chiamava «caro figliolo», «figliolo caparbio». Lo stesso Napoleone confessa ai compagni di Sant’Elena di provare per Pio VII dell’affetto. Lo ritiene un uomo «buono, dolce e bravo», che non ha mai rinunciato alla speranza che si confessasse con lui: «e me lo ha anche più volte ripetuto, con innocente dolcezza, mentre discorrevamo da buoni amici: “Prima o poi, lei lo farà, con me o con qualche altro, e vedrà quale gioia e felicità ne avrà lei stesso”». Napoleone a quella richiesta sempre si sottrasse: «Santità – gli diceva – ora sono troppo occupato; lo farò quando sarò vecchio».
L’educazione religiosa
Bonaparte non fu mai ateo. A Sant’Elena lo ribadisce: era un corso, aveva ricevuto un’educazione religiosa. Aveva vissuto a Parigi negli anni atei rivoluzionari, senza abbracciare alcuna filosofia. Era un guerriero e vedeva nella religione del popolo, la sua religione, tanto da difendere la necessità dell’esistenza di un clero, come riferisce ancora Thibaudeau: «Ci saranno sempre i preti, finché ci sarà senso religioso nel popolo»; a chi gli chiede di abolire la casta, spiega: «Sono andati i tempi buoni», «non c’è più nulla da prendere al clero».
Napoleone, in seguito, cercando di sottrarre Roma al papato subì la scomunica. E da quel momento, la fortuna si rovesciò. In pochi anni, arrivarono sconfitta ed esilio; l’umiliazione e la paura del viaggio che lo portò all’Elba, mentre il popolo lo inseguiva per metterlo a morte, accusandolo di essere il peggiore dei tiranni. Quando giunse in Italia, Bonaparte era spossato e senza speranza. Ma si commosse dell’accoglienza degli isolani. E, al Te Deum, nella chiesa di Porto Ferraio, qualcuno lo vide piangere. Nemmeno quando tornò al potere durante i “cento giorni”, le spie straniere riuscirono a risolvere il mistero di quel comportamento amletico, «commediante», che l’imperatore aveva tenuto durante quei giorni all’Elba.
Sull’isola aveva mangiato la zuppa con i pescatori di Porto Ferraio, giocato a carte con le signorine dell’isola e si era fatto beffe dei cortigiani, infilando pesci nelle tasche. Si era dato alla zappa e alla costruzione della sua nuova “reggia”, immaginando camere, e saloni. Nei momenti di sconforto aveva infilzato il terreno con il bastone. Si era mosso per il suo nuovo piccolo regno a cavallo, intrattenendo conversazioni con i suoi nuovi “sudditi”.
«Sia fatta la volontà di Dio»
Il secondo esilio, a Sant’Elena, definitivo, ormai chiude la sua epoca. Napoleone è consapevole che non rivedrà più la patria e gli onori. Non ha più nulla da nascondere, quando inizia la lunga malattia che lo porterà alla morte, e al Generale Bertrand, che sull’Elba era stato vittima delle sue burle, dice, lasciandolo di stucco: «Se lei non capisce che Gesù Cristo è Dio, ebbene ho sbagliato io a nominarla generale!». Ai cortigiani, almeno inizialmente stupiti di quella devozione, Bonaparte spiega che la causa della conversione è da rintracciarsi nelle opere della madre e del vescovo di Nantes, i quali lo hanno «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo».
Fra una lamentazione e l’altra (sostiene di aver avuto «più traditori di Augusto»), intrattiene discorsi teologici e ordina di costruire un altare per dire Messa. Gli mancano il suono delle campane, la moglie, il figlio. Gli mancano persino i preti, e di tanto in tanto, pensa di crearne uno: «E se io, Imperatore consacrato, vescovo io stesso – dice a De Montholon – ne consacrassi uno qui? Clodoveo e i suoi successori non erano stati consacrati con la formula di Rex Christique sacerdos? Non era quella la vera carica di vescovo?». Alla fine si decide a chiedere allo zio vescovo un prete colto che abbia meno di quarant’anni.
«Avrei desiderato rivedere mia moglie e mio figlio; ma sia fatta la volontà di Dio», con questo sentimento Bonaparte si avvicina alla morte. Stando alle cronache, chiede all’abate Vignali di confessarlo, dà disposizioni sulla camera ardente e si fa somministrare il santo viatico. Muore, il 5 maggio del 1821, secondo testamento, nella religione Cattolica romana e apostolica.
Se la missione propagandistica fu un fallimento quasi completo, lo si deve al fascino esercitato dalle sue vittorie e anche ai molti memoriali che uscirono a distanza di pochi anni dalla sua morte. Uno dei più interessanti fu pubblicato a Parigi nel 1840 ed è stato recentemente tradotto in italiano. Si tratta di Sentiment de Napoléon sur le christianisme, Conversations religieuses. Le Conversazioni sul Cristianesimo, pubblicato dall’editrice Esd, contiene un estratto del memoriale, le testimonianze degli uomini esiliati con lui, che confermano l’adesione al cattolicesimo di Napoleone, già poeticamente rivelata da Alessandro Manzoni, nella poesia Il Cinque Maggio.
«Quello che esce da queste pagine», scrive il cardinale Giacomo Biffi, che ne ha promosso la pubblicazione, è un cristiano devoto. Per Napoleone «la fede e la religione erano l’adesione convinta, non a una teoria o a un’ideologia, ma a una persona viva, Gesù Cristo, che ha affidato l’efficacia perenne della sua missione di salvezza a “un segno strano”, alla sua morte sulla croce».
Le testimonianze raccolte dagli uomini della corte riunita sull’isola di Sant’Elena, che condivisero con lui gli ultimi 6 anni di vita, svelano dell’Imperatore l’intimità religiosa. Le conversazioni sono riportate dalle annotazioni dei due medici che l’ebbero in cura e dalle parole del suo esecutore testamentario Charles Tristan De Montholon. All’approssimarsi della morte, il generale corso si faceva trovare in camera con il Vangelo sul tavolino, e parlava tranquillamente del cristianesimo e di Dio. Non lo aveva mai fatto. «Io lo sento, questo Dio, lo vedo, ne ho bisogno, credo in lui», confida a De Montholon.
Bonaparte si dice affascinato da Gesù, dalla sua persuasione, che esercita «con un richiamo al cuore, e non con uno spiegamento sontuoso di logica». «Il suo spirito mi supera, e la sua volontà mi stupisce; tra lui e qualsivoglia altro nel mondo non può esserci un possibile termine di paragone», afferma. Napoleone, nel Vangelo, vede la nascita di Gesù, la storia della sua vita, la profondità del suo dogma come un «mistero insondabile». «Questo mistero – dice – è perennemente sotto i miei occhi, e io non posso né negarlo, né tanto meno spiegarlo. In tutto ciò non c’è niente di umano. Più tento di avvicinarmi, di esaminarlo da vicino, più il mistero mi trascende, e rimane di una grandezza soverchiante; e più medito, più il mistero diventa inafferrabile».
Il suono delle campane
Nel fare sarcastico e paternalistico di Napoleone, anche il bonapartista Antoine Claire Thibaudeau riscontrò una inclinazione al misticismo. Lo rileva nelle sue memorie sul Consolato, in un incontro nella residenza di Malmaison, nei pressi di Parigi, a margine del concordato con cui, nel 1801, Napoleone ristabilì il culto cattolico in Francia. Thibaudeau riporta il colloquio che avvenne tra l’imperatore e un membro del Consiglio di Stato.
Giustificando il Concordato con la Chiesa, e il ripudio delle dottrine sull’Essere Supremo, figlie del giacobinismo, Napoleone dice: «Domenica scorsa ero qui, in questo giardino, in questa solitudine, in questo silenzio della natura. Poco lontano la campana di Rueil risuonò alle mie orecchie: fui commosso; tanto è forte la potenza delle prime abitudini e dell’educazione. Allora dissi a me stesso: che impressione deve fare questo su uomini semplici e creduli! I vostri filosofi, i vostri ideologi rispondano a questo! Abbiamo bisogno di una religione per il popolo».
Grazie a quel Concordato, Napoleone ricevette la consacrazione del Papa Pio VII alla Repubblica e la conferma della vendita dei beni ecclesiastici, sottratti durante gli anni rivoluzionari. In compenso, «onori militari, in favore di Gesù, furono inseriti nel bollettino delle leggi».Nelle conversazioni a Sant’Elena, l’imperatore si sofferma anche su quegli anni e sullo strano rapporto che intrattenne con Pio VII, che fece “rapire” nel 1811 e che liberò soltanto in prossimità della sua fine politica. «Quando il Papa era in Francia», racconta Napoleone a De Montholon, «gli assegnai un palazzo magnifico a Fontainebleau, e 100.000 corone al mese; avevo messo a sua disposizione 15 vetture per lui e per i cardinali, anche se non uscì mai. Il papa era esausto per le calunnie in base alle quali si pretendeva che io lo avessi maltrattato, calunnie che il papa smentì pubblicamente».
Non sono battute ironiche. A confermarne la veridicità ci sono gli scritti del Cardinal Bartolomeo Pacca (che Napoleone fece imprigionare), il quale ricorda la contentezza di Pio VII, dopo le visite con il suo persecutore corso. Il vecchio Papa lo chiamava «caro figliolo», «figliolo caparbio». Lo stesso Napoleone confessa ai compagni di Sant’Elena di provare per Pio VII dell’affetto. Lo ritiene un uomo «buono, dolce e bravo», che non ha mai rinunciato alla speranza che si confessasse con lui: «e me lo ha anche più volte ripetuto, con innocente dolcezza, mentre discorrevamo da buoni amici: “Prima o poi, lei lo farà, con me o con qualche altro, e vedrà quale gioia e felicità ne avrà lei stesso”». Napoleone a quella richiesta sempre si sottrasse: «Santità – gli diceva – ora sono troppo occupato; lo farò quando sarò vecchio».
L’educazione religiosa
Bonaparte non fu mai ateo. A Sant’Elena lo ribadisce: era un corso, aveva ricevuto un’educazione religiosa. Aveva vissuto a Parigi negli anni atei rivoluzionari, senza abbracciare alcuna filosofia. Era un guerriero e vedeva nella religione del popolo, la sua religione, tanto da difendere la necessità dell’esistenza di un clero, come riferisce ancora Thibaudeau: «Ci saranno sempre i preti, finché ci sarà senso religioso nel popolo»; a chi gli chiede di abolire la casta, spiega: «Sono andati i tempi buoni», «non c’è più nulla da prendere al clero».
Napoleone, in seguito, cercando di sottrarre Roma al papato subì la scomunica. E da quel momento, la fortuna si rovesciò. In pochi anni, arrivarono sconfitta ed esilio; l’umiliazione e la paura del viaggio che lo portò all’Elba, mentre il popolo lo inseguiva per metterlo a morte, accusandolo di essere il peggiore dei tiranni. Quando giunse in Italia, Bonaparte era spossato e senza speranza. Ma si commosse dell’accoglienza degli isolani. E, al Te Deum, nella chiesa di Porto Ferraio, qualcuno lo vide piangere. Nemmeno quando tornò al potere durante i “cento giorni”, le spie straniere riuscirono a risolvere il mistero di quel comportamento amletico, «commediante», che l’imperatore aveva tenuto durante quei giorni all’Elba.
Sull’isola aveva mangiato la zuppa con i pescatori di Porto Ferraio, giocato a carte con le signorine dell’isola e si era fatto beffe dei cortigiani, infilando pesci nelle tasche. Si era dato alla zappa e alla costruzione della sua nuova “reggia”, immaginando camere, e saloni. Nei momenti di sconforto aveva infilzato il terreno con il bastone. Si era mosso per il suo nuovo piccolo regno a cavallo, intrattenendo conversazioni con i suoi nuovi “sudditi”.
«Sia fatta la volontà di Dio»
Il secondo esilio, a Sant’Elena, definitivo, ormai chiude la sua epoca. Napoleone è consapevole che non rivedrà più la patria e gli onori. Non ha più nulla da nascondere, quando inizia la lunga malattia che lo porterà alla morte, e al Generale Bertrand, che sull’Elba era stato vittima delle sue burle, dice, lasciandolo di stucco: «Se lei non capisce che Gesù Cristo è Dio, ebbene ho sbagliato io a nominarla generale!». Ai cortigiani, almeno inizialmente stupiti di quella devozione, Bonaparte spiega che la causa della conversione è da rintracciarsi nelle opere della madre e del vescovo di Nantes, i quali lo hanno «aiutato a raggiungere la piena adesione al cattolicesimo».
Fra una lamentazione e l’altra (sostiene di aver avuto «più traditori di Augusto»), intrattiene discorsi teologici e ordina di costruire un altare per dire Messa. Gli mancano il suono delle campane, la moglie, il figlio. Gli mancano persino i preti, e di tanto in tanto, pensa di crearne uno: «E se io, Imperatore consacrato, vescovo io stesso – dice a De Montholon – ne consacrassi uno qui? Clodoveo e i suoi successori non erano stati consacrati con la formula di Rex Christique sacerdos? Non era quella la vera carica di vescovo?». Alla fine si decide a chiedere allo zio vescovo un prete colto che abbia meno di quarant’anni.
«Avrei desiderato rivedere mia moglie e mio figlio; ma sia fatta la volontà di Dio», con questo sentimento Bonaparte si avvicina alla morte. Stando alle cronache, chiede all’abate Vignali di confessarlo, dà disposizioni sulla camera ardente e si fa somministrare il santo viatico. Muore, il 5 maggio del 1821, secondo testamento, nella religione Cattolica romana e apostolica.
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