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venerdì 15 novembre 2013

Un sacerdote pellegrino, "amico" di Bergoglio

Un sacerdote pellegrino, "amico" di Bergoglio

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di Paola Ronconi
14/11/2013 - L'infanzia in Alta Savoia, dove la famiglia lo voleva contadino. Gli studi alla Sorbona e l'incontro con quel cavaliere basco ferito, Ignazio di Loyola. Chi è il gesuita Pietro Favre, a cui papa Francesco guarda con tanta immedesimazione?
«Il dialogo con tutti, la pietà semplice, una certa ingenuità, la disponibilità immediata, il discernimento interiore, la capacità di essere forte e insieme così dolce...». Sembra la descrizione perfetta di papa Francesco, di come si muove tra la gente, di come guida il timone della Chiesa. Invece sono sue parole in risposta a una domanda di padre Spadaro, nella nota intervista che gli fece a settembre. Il direttore de La civiltà cattolica aveva chiesto al pontefice se ci fossero figure, nella storia della Compagnia di Gesù, cui Francesco guardasse in particolare: la risposta è il gesuita Pietro Favre.

Disciplina rigorosa, quasi monastica, dispute teologiche, ma anche goliardia sfrenata, soprattutto notturna. È questa la Parigi universitaria che si presenta al diciannovenne Pietro, quando nel 1525 mette piede per la prima volta nella capitale del sapere medievale. Viene da un paesino della diocesi di Ginevra, Villoret, Alta Savoia, dove la sua famiglia, fin dalla nascita nel 1506, lo voleva pastore e contadino. Ma i pascoli non impediscono a Pietro di coltivare la sua intelligenza e una profondità spirituale notevole, tanto che il padre si arrende e lo manda a scuola a La Roche, dal maestro Veillard, buon umanista e educatore cristiano. La possibilità di avere un’istruzione non placa il suo animo, tanto che, grazie all’aiuto di un cugino, priore della certosa di Reposoir, Pietro ottiene di continuare gli studi a Parigi, all’università della Sorbona.

Suo compagno di camera al collegio universitario di Santa Barbara è un coetaneo navarrino, Francesco Javier. Tra i due nasce fin da subito una profonda amicizia in cui entra tutto: lo studio come le domande più profonde. Nel 1526 superano insieme l’esame di latino (lingua ufficiale dell’università) e iniziano la facoltà di filosofia (le “arti”, Summulae aristoteliche, Logica e Fisica).

Nel 1529, arriva al collegio un cavaliere basco, di una quindicina d’anni più grande. Una ferita alla gamba durante l’assedio di Pamplona del 1521, lo aveva costretto a una lunga convalescenza, durante la quale aveva maturato l’intenzione di abbandonare la vita cavalleresca per seguire Cristo, in particolare dedicandosi al bene spirituale degli altri. Inizia così a studiare. Arrivato a Parigi, trova posto nella stanza del collegio Santa Barbara con Pietro e Francesco. Lui è Iñigo di Loyola, ma ben presto latinizzerà il suo nome in Ignazio, in onore del santo vescovo martire sant’Ignazio d’Antiochia.

I primi mesi ha bisogno di “ripetizioni” in latino e filosofia. Pietro si rende disponibile e trova nel più anziano compagno di stanza un «maestro di esperienze interiori».
Nei diari (Memoriali) che nel 1542 Favre inizia a scrivere, parlando della sua vita, racconta dell’incontro con Ignazio: «Benedetta in eterno la Provvidenza divina, che ordinò le cose in tal modo per mio bene e salvezza».
Oltre a Pietro e Francesco, altri giovani si ritrovano attorno a Ignazio, attratti dalla sua capacità di conoscere l’altro fin nel profondo.

Ma cosa tormenta ancora il giovane Pietro? La strana mescolanza di sapere, pietà e sregolatezza che la Parigi studentesca offriva ai suoi ospiti, lo confonde. Non sa se fare il medico, il giurista, il teologo; non sa se optare per il matrimonio o entrare in un ordine religioso. Esame di coscienza quotidiano e sacramenti: questa la cura spirituale che Ignazio gli propone, esercizi dell’anima per giungere a una identità interiore matura. Sarà uno dei punti cardine della futura Compagnia di Gesù.

Nel 1534, Ignazio ritiene Pietro maturo: gli dà i suoi “Esercizi spirituali”, una serie di meditazioni, contemplazioni e riflessioni per aiutarlo a capire la sua strada. Per sei giorni e sei notti Pietro non mangia né beve. Prende solo la Comunione.
Un voto di castità perpetua emesso in un prato a dodici anni si rivela ora profetico: il 30 maggio 1534 è ordinato sacerdote.

Il 15 agosto di quell’anno Ignazio, Pietro, Francesco e altri quattro compagni sono nella cappella di San Dionigi, a Montmartre. Favre, unico sacerdote, celebra la messa, poi insieme fanno voto dinanzi all’ostia consacrata: andare a Gerusalemme in pellegrinaggio, quindi dal Papa per mettersi totalmente a sua disposizione, «lasciando parenti e reti» come gli Apostoli. Nasce la Compagnia di Gesù.
Nel 1537 papa Paolo III li nomina predicatori apostolici: possono predicare ovunque. Nel 1540 la Bolla papale Regimini militantis Ecclesiae approva formalmente la Compagnia.
Non riusciranno ad andare a Gerusalemme, ma da soli o a gruppi girano l’Europa dove sta prendendo sempre più piede il protestantesimo.

Pietro è un “sacerdote pellegrino”: porta Gesù alle famiglie che lo ospitano, a lui si confidano le persone semplici come i re e i nobili (compreso Carlo V e il Duca di Savoia) per quel dono che ha di saper entrare nelle condizioni di ciascuno; è il discernimento uno dei pilastri del carisma gesuita. «Il Signore converte chi vuole», scrive nel suo Memoriale: «Perciò il mio compito non è convertire, ma testimoniare che Dio c’è ed io l’ho incontrato; la mia missione è testimoniare con la mia vita l’amore di Dio», “esserci”, trovarsi nel posto giusto quando gli eventi accadono e i cuori si convertono; esserci da sacerdote per sostenere le anime nel combattimento spirituale, per aiutarle a fare discernimento e portare sollievo anche alle sofferenze fisiche. Anche se spesso «devo abbandonare un luogo quando ho i più grandi motivi per rimanervi». «È uno che fa sgorgare acqua dalla roccia», diceva di lui sant’Ignazio, indicandolo come la guida spirituale più efficace fra tutti i suoi «nel dono di condurre le anime a Dio».
Dirigendosi in Francia a Villaret, suo paese natale, con un gruppo di compagni, è arrestato e incarcerato dalle truppe francesi in guerra con gli spagnoli, ma riesce a conquistare i suoi carcerieri che presto finiscono per liberarli tutti. Partecipa alla dieta di Worms, dove capi protestanti e cattolici cercano di dialogare; nel 1541 è a Ratisbona, alla Dieta imperiale.

Se Ignazio, un contemplativo in azione, prega dicendo: «Signore, dimmi cosa devo fare per la tua gloria sempre maggiore!», Pietro, un attivo in contemplazione, prega: «Signore, fammi capire il senso di ciò che faccio». Nel Memoriale, ogni giorno invoca i santi del calendario liturgico o quelli venerati nelle regioni che attraversa. Diventano così «presenze vive», compagni del suo peregrinare.
Nel 1543 è a Colonia per sostenere i cattolici della città contro le posizioni luterane del loro vescovo. Lo troviamo ad Anversa, dove poco prima di imbarcarsi è colpito da febbre terzana. Poi Lovanio, Portogallo, Coimbra, Salamanca, Valladolid.
Nel 1546 il Papa lo chiama a Roma: lo nomina teologo al Concilio di Trento, ma il “sacerdote pellegrino” non regge: la vita faticosissima e le febbri lo stroncano a quarant’anni, a Roma.
Pio IX lo beatifica nel 1872. Papa Francesco potrebbe canonizzarlo a breve, senza seguire il processo canonico, ma con un procedimento particolare riservato a figure del passato con chiara fama di santità.

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