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giovedì 20 marzo 2014

la legge della vita


la legge della vita
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La legge dell'esistenza umana è l'amore nella sua realtà dinamica
 che è l'offerta, il dono di sé. Come Gesù aveva detto: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc. 9,24). Ci viene così sottolineata la paradossalità di questa legge: la felicità attraverso il sacrificio. Ma quanto più uno

lo accetta, tanto più sperimenta già in questo mondo una maggiore completezza.

 Gesù la chiamava «pace». Ci viene così proposta una personalità umana come risultante di due componenti: il sacrificio e l'amore. «Non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle

o madre o padre o figli o campi a causa del vangelo, che non riceva

già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e

figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc.10, 29s).

Ogni legge non è altro che la descrizione di un meccanismo stabile. Anche l'uomo in quanto tale (essere cosciente e volente) è un meccanismo fondamentalmente fissato. La descrizione di questa stabilità fondamentale è data dalla cosiddetta legge morale.

In base a quale criterio l'uomo stabilirà questa legge del suo agire? Per descrivere un meccanismo occorre guardare innanzitutto la sua funzione, il fine di esso.
Ora, la destinazione dell'io essendo il  tutto, la sua legge è darsi al tutto. L'uomo al di fuori della coscienza del tutto si sentirà sempre prigioniero o annoiato. Occorre a questo punto notare che il ifine della vicenda umana

viene perseguito con i mezzi che si hanno a disposizione, con «ciò

che si è». Due fattori noteremo perciò nell'umano dinamismo, come ci vien definito dall'eredità cristiana.

a) L'istintività. È ciò che mi trovo addosso, ciò che mi determina, mi attrae, mi stimola. Proprio da questo l'uomo è introdotto ai servizio della realtà: da un complesso di dati da cui non può prescindere.

b) Tale attrattiva, stimolo, impulso contingente hanno un fine. Perciò il secondo fattore è la coscienza del fine proprio a questo fascio di istintività. La natura umana infatti ha come fattore del suo dinamismo non solo la sua urgenza ma anche la consapevolezza dello scopo di quell'urgenza stessa. '

L'uomo cioè a differenza degli animali e delle altre cose è consapevole del rapporto che passa tra il suo emergente istinto e il tutto, cioè l'ordine delle cose.

L'ordinare l'istinto allo scopo (cioè al Tutto) è il fondamentale dono di sé al tutto: è il cosiddetto dovere, la cui essenza quindi non può essere che amore, cioè consegna di sé.

Il capitolo 19 del Vangelo di Matteo contiene l'esplicitazione e la esemplificazione forse più chiara di questa immagine del comportamento etico dell'uomo. La risposta al problema dell'indissolubilità del matrimonio ha la stessa motivazione della verginità: la dedizione «al Regno dei cieli», il servizio al grande disegno. li procedimento che la natura esige «da principio» sollecita allo stesso dono di sé in funzione del tutto così come viene affermato nella radicale volontà di una mortificazione verginale,-di coloro «che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli» (Mt. 19, 8.12).

Ma non è umano dare se stessi se non ad una persona, non è umano amare se non una persona. li «tutto» in ultima analisi è l'espressione di una persona: Dio. «L'agire dell'uomo nel mondo si identifica, nel suo livello più cosciente, con la preghiera.
In questo senso non c'è nulla di profano, tutto è collaborazione, dialogo nel grande tempio dell'Essere, di Dio. «Si ha un'armonizzazione: il Vangelo insegna che per il cristiano nulla è profano, perché tutto è santificabile. I Padri non hanno trascurato di sottolineare questa novità. La nuova creazione instaurata da Gesù non si pone sotto il segno della contrapposizione sacro-profano. Dio impegna nella storia del mondo un'azione che completa in pienezza la creazione...»8. Ed ecco anche un'osservazione, nello stesso senso, di Eliade: «Ad ogni modo nulla di tutto ciò che, attraverso il Cosmo,manifesta la Gloria – per dirla in termini cristiani – può lasciare indifferente il credente.».L'uomo è di fatto incapace di vivere compiutamente la grande Dipendenza che è la sua verità, e la proiezione di essa nella vita come dono, amore e servizio. Ha la coscienza annebbiata e una volontà invincibilmente annoiata nel dovere della preghiera, vive uno strano egocentrismo, per cui a lungo andare, invece di ordinarsi al tutto, tenta di ordinare il tutto a sé; invece di darsi tenta di prendersi, invece di amare di sfruttare.
Questo dato di fatto dipende da una situazione originale, nativa. La tradizione cristiana lo attribuisce a un disordine che l'uomo eredita dalle origini della sua razza, responsabilmente introdotto. Esso determina il clima del mondo umano in una direzione contraria al disegno di Dio: «11 mondo è stato fatto per mezzo di Lui, ma il mondo non lo ha riconosciuto... Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori... Se il mondo vi odia, sappiate che prima ha odiato me» (Gv. 1,10; 12,31; 15,18).

È ciò che la tradizione cristiana chiamerà peccato originale. La persona non ha l'energia sufficiente a realizzare se stessa. Quanto più un uomo è sensibile e cosciente, quanto più cioè può essere uomo, tanto più si accorge di non riuscire ad esserlo.

Nella lettera ai Romani il grido con cui S. Paolo termina la sua constatazione è esattamente la domanda umana cui Gesù Cristo è risposta: «Me infelice, chi mi libererà da questa situazione mortale?» (Rom. 7,24). Questo grido è l'unica origine perché un uomo possa considerare seriamente la proposta di Cristo. Se un uomo non attende alla domanda come farà a capire la risposta?

Per essere me stesso ho bisogno di un altro: «senza di me non potete far nulla» (Gv. 15,5). Gesù ci ha insegnato che chi accetterà il suo messaggio di salvezza non potrà esimersi dall'affrontare questo problema di sincerità con se stessi, da questo realismo nel considerare l'uomo: non si può essere se stessi da soli. La compagnia, quella - che poi si chiamerà la comunità cristiana, è essenziale per il suo cammino. «Nessuno viene al Padre se non attraverso me» (Gv. 14,6).

Il che equivale a dire una volta di più che l'uomo non può realizzare

 se stesso se non accettando l'amore di un Altro - di un Altro con un 

nome preciso, che indipendente dalla volontà tua  è morto per te: «Nessuno ha un amore più grande di questo: Dare la  vita per i propri amici» (Gv. 15,13). Di sé Lui disse: «lo sono la resurrezione e la vita» (Gv. Il,25).

don Giussani All'origine della pretesa cristiana cap.8

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