Il mondo occidentale conobbe i campi di lavoro sovietici grazie ai tre saggi di Aleksandr Solzhenitsyn di “Arcipelago Gulag” che descrisse il sistema dei campi di lavoro forzato in Unione Sovietica, aboliti nel Gennaio del 1960. “Gulag” era la parola che identificava la polizia speciale destinata all’organizzazione dei campi di lavoro, ma finì per identificare il campo di lavoro stesso. Al loro interno morirono un numero approssimativo di 20 milioni di persone, in un periodo di 23 anni fra il 1930 e il 1953. Nonostante la visione popolare del gulag come “sistema di repressione politica”, in questi campi erano pochi i prigionieri classificabili come “politici” e il 40% degli internati erano solo dei bambini, innocenti collegati in qualche modo a genitori colpevoli di qualsiasi accusa.
Cathy Frierson e Semyon Vilensky, nel 2010, pubblicarono un libro in grado di restituire memoria storica a milioni di persone, morte nei gulag o che arrivarono a dimenticare il proprio nome nei campi di lavoro o negli orfanotrofi, privati per sempre della propria identità. “Bambini dei Gulag” è un saggio che consente di comprendere come, fra il 1918 e il 1953, i figli di persone descritte come “Nemici del popolo” condividessero il destino dei propri genitori, patendo le pene dell’inferno fra carestie, guerre, prigionia e migrazione forzata nei campi di lavoro, quando non venivano direttamente uccisi mediante fucilazione.
Drammatiche le lettere dai Gulag di alcuni di loro, che scrissero a Yekaterina Peshkova e Nadezhda Krupskaya (la prima Presidente della Croce Rossa Sovietica, seconda moglie di Lenin), e che consentono di comprendere le condizioni della loro vita:
Viviamo scalzi, nudi, affamati e pieni di pidocchi. A colazione ci danno un pezzetto di pane con cipolla e sale. A pranzo barbabietola lessa con del cavolo e alla cena non dobbiamo neanche pensare perché non c’è
In seguito alla terribile carestia dei primi anni ’20, conseguente alla Rivoluzione d’Ottobre e alla Prima Guerra Mondiale, milioni di bambini si ritrovarono orfani di strada, e furono oltre 5 milioni quelli che morirono di stenti. Quasi due decenni dopo, fra il 1937 ed il 1938, 1,4 milioni di bambini si trovarono orfani per un motivo ben diverso: almeno uno dei genitori era stato ucciso dal regime. Dei genitori i figli condividevano l’etichetta infamante: “Nemici del popolo“, e finivano ai campi di lavoro forzato. Dei 20 milioni di persone deportate durante gli anni ’30, il 40%, circa 8 milioni, erano solo dei bambini.
A questo proposito è emblematica l’ordinanza n° 00486 del commissario del popolo per gli affari interni dell’URSS (NKVD), del 15 Agosto del 1937, che descrive l'”Operazione di repressione delle mogli e dei figli dei traditori della Patria“. Erano classificati come “Socialmente pericolosi”, naturalmente non per le loro azioni ma per quello che avrebbero potuto fare in futuro, in quanto parenti di nemici del popolo. Le mogli e gli adolescenti erano destinati ai campi di lavoro forzato, mentre i più piccoli, ma la classificazione era arbitraria, agli orfanotrofi speciali gestiti dall’Nkvd, (Narodnyj komissariat vnutrennich del – Commissariato del popolo per gli affari interni).
Emblematica la storia di Engelsina Markizova, famosissima bambina della regione di Buriata, vicina alla Mongolia, che venne ritratta con Stalin in una fotografia ufficiale del 1936. L’immagine fu utilizzata in modo propagandistico e finì sulle prima pagine di tutti i giornali sotto la dicitura di “Papà Stalin”, ma di paterno, come esemplificato dal trattamento che il dittatore riservò al figlio Jakov, Joseph Stalin aveva ben poco.
Il padre di Engelsina fu ministro regionale dell’Agricoltura e vicesegretario del partito della regione, ma venne accusato di attività “controrivoluzionaria” (essere spia giapponese e un Trotskista) e fucilato, nel 1938. La madre della bambina fu prima deportata in Kazakistan e poi morì misteriosamente, si pensa sgozzata dalla polizia segreta sovietica. Engelsina finì a vivere nei pressi di Mosca con dei parenti, e la sua identità nella fotografia mistificata un’altra bambina, di nome Tagiki Mamlakat Nakhangova.
I dati pubblicati da Frierson e Vilensky sono stati ottenuti grazie all’apertura degli archivi di stato dopo l’era Gorbačëv. I sette capitoli del libro affrontano le drammatiche esperienze dei bambini durante le guerre sovietiche, la guerra di Stalin ai contadini, le carestie degli anni ’20, la “liquidazione” dei nemici di stato, la deportazione forzata, la Seconda Guerra Mondiale e il malcelato antisemitismo del regime sovietico, il tutto dal punto di vista dei bambini.
Alcuni aneddoti scioccanti riguardano le sepolture di massa, tombe senza nome che consentono di capire l’età del sepolto soltanto in base alla lunghezza dello scavo, spessissimo di poco più di un metro di lunghezza.
Un altro aneddoto riguarda una nota di un medico di un campo, che afferma come sia “Impossibile somministrare i vaccini antivaiolo. Il 75% della popolazione ha corpi emaciati, i bambini si stanno gonfiando e morendo di fame“.
Moltissimi bambini morirono di fame, malattia e stenti, lasciati morire perché figli di persone considerate “nemici del popolo”. Le stime del 2002 di Aleksandr Yakovlev, Commissario del Cremlino per la riabilitazione delle vittime della repressione politica, indicano in 10 milioni il numero di bambini morti nel sistema di deportazione minorile. Molti bambini sopravvissero (fra cui Engelsina Markizova, la bimba della foto in braccio a Stalin), ma persero memoria della propria identità, cancellata dal regime e nascosta per evitare guai legati al proprio cognome.