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domenica 12 ottobre 2025

Padre Maximilian Kolbe

 Nel luglio del 1941, nel campo di concentramento di Auschwitz, un prigioniero fuggì.

Per rappresaglia, i nazisti radunarono dieci uomini.

Dieci a caso.

Dieci condannati a morire di fame e sete.


Tra loro c’era Franciszek Gajowniczek, un sergente polacco, padre di famiglia.

Quando udì il suo nome, cadde in ginocchio e gridò:

— “Mia moglie! I miei figli! Non li rivedrò mai più!”


E fu allora che un uomo fece un passo avanti.

Magro, con gli occhiali, la testa rasata e una calma che sembrava disumana.

Disse soltanto:

— “Io sono un prete cattolico. Voglio morire al suo posto.”


Si chiamava Padre Maximilian Kolbe.

Era stato arrestato per aver dato rifugio a profughi ebrei nel suo convento.

I soldati, increduli, accettarono lo scambio.


Lo condussero con gli altri nella cella della fame, un buco di pietra e oscurità.

Ogni giorno le guardie aprivano la porta per controllare chi fosse morto.

Ma dalla cella non uscivano urla.

Uscivano canti.

Canti di fede, di conforto, di pace.

Kolbe guidava le preghiere, accarezzava i morenti, e sussurrava:

— “Non c’è odio, solo amore.”


Dopo due settimane, era l’unico ancora vivo.

Il 14 agosto 1941, un ufficiale gli iniettò una dose di acido fenico.

Morì con lo sguardo sereno, le mani giunte, in silenzio.


Anni dopo, Franciszek Gajowniczek sopravvisse alla guerra.

Ritornò a casa. Abbracciò i suoi figli.

E per il resto della vita raccontò la storia di quell’uomo che gli aveva donato tutto.


Nel 1982, in Piazza San Pietro, Papa Giovanni Paolo II proclamò San Massimiliano Kolbe “martire dell’amore”.

Accanto al Papa, in prima fila, c’era proprio Franciszek — l’uomo che aveva avuto il privilegio di vivere grazie al sacrificio di un altro.


E forse nessuna parola può spiegare meglio il significato della fede di quella scena:

un uomo in ginocchio, e un altro che canta mentre muore.

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