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domenica 19 ottobre 2025

Viktor Frankl, psichiatra austriaco

 Lo avevano privato di tutto.

Della casa, dei libri, dei pazienti, perfino del nome.

Sui documenti del campo c’era solo un numero: 119 104.

Ma Viktor Frankl, psichiatra austriaco di Vienna, continuò a fare l’unica cosa che nessun muro poteva impedirgli: curare l’anima.


Fu deportato prima a Theresienstadt, poi a Auschwitz e infine a Dachau.

Ogni giorno vedeva uomini spegnersi non per fame, ma per mancanza di senso.

E lì, nel cuore dell’inferno, comprese una verità che avrebbe cambiato la psicologia moderna:

anche quando tutto è perduto, la libertà ultima dell’uomo è scegliere il proprio atteggiamento davanti al destino.


Cominciò a parlare ai compagni di baracca, a sostenerli con poche parole, a farli aggrappare a un pensiero, a un ricordo, a un perché.

Un figlio da rivedere.

Un amore da ritrovare.

Un lavoro da finire.

Un sogno ancora possibile.


Molti sopravvissero grazie a quella scintilla invisibile.

Altri morirono, ma con una pace che nessuna guardia poté rubare.


Quando la guerra finì, Frankl pesava poco più di quaranta chili.

Aveva perso la famiglia, la moglie, tutto ciò che possedeva.

Ma portava con sé un manoscritto scritto a memoria:

le basi di una nuova terapia, nata tra il filo spinato e la disperazione.


La chiamò logoterapia — “la cura attraverso il significato”.

Insegnerà al mondo che non si guarisce soltanto con le medicine, ma con uno scopo.

Nel 1946 pubblicò Uno psicologo nei lager, un libro tradotto in decine di lingue.


Scrisse:

«Chi ha un perché, può sopportare ogni come.»


Parole nate in un campo di sterminio, che ancora oggi curano chi si è perso nella vita.


Perché finché l’uomo trova un senso, neppure l’oscurità può vincerlo.

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