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lunedì 30 settembre 2013

Una presenza non reattiva

                 Una presenza non reattiva            
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Quest’anno vogliamo chiarire in che senso è una rivoluzione, in modo da essere più illuminati e più decisi nel prendere sul serio quella parola, perché presenza è realizzare la comunione. Innanzitutto, la nostra, in università, non può essere una presenza reattiva. Reattiva significa determinata dai passi di ciò che non è noi: porsi con iniziative, utilizzare discorsi, realizzare strumenti non generati come modalità totale dalla nostra personalità nuova, ma suggeriti dall’uso di parole, dalla realizzazione di strumenti, dalla modalità di atteggiamento e di comportamento degli avversari, ovvero di coloro che cercano di creare un mondo umano non secondo Cristo e perciò, obiettivamente, secondo una menzogna, a prescindere dai loro intendimenti. 
Una presenza reattiva non può che cadere in due errori: o diventa una presenza reazionaria, attaccata cioè alle proprie posizioni come “forme”, senza che i contenuti – le motivazioni, le radici – siano così chiari da essere resi vita (il reazionario è sempre, poco o tanto, formalista); oppure, se non è reazionaria, una presenza reattiva cade nell’eccesso opposto, tende cioè a diventare mimesi, imitazione degli altri; e ciò costituisce il primo e fondamentale cedimento nei loro confronti (è come giocare in casa loro, accettando la lotta secondo le loro modalità).
Occorre dunque una presenza originale, una presenza secondo la nostra originalità. Il diritto a esistere e ad agire dovunque e comunque non viene dal seguire le modalità altrui, ma da quello che siamo. «Chi siamo e perché ci siamo», dicevano gli amici di Roma: una presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza della propria identità e dall’affezione a essa, e in ciò trova la sua consistenza.

Sia che mi trovi da solo nella mia stanza, sia che ci troviamo in tre a studiare in università, in venti alla mensa, eccetera, dovunque e comunque questa è la nostra identità. Il problema è perciò l’autocoscienza, il contenuto della coscienza di noi stessi: «Vivo, non io, sei Tu che vivi in me».
Questo è il vero uomo nuovo nel mondo – l’uomo nuovo che fu il sogno di Che Guevara e il pretesto mentitore di rivoluzioni culturali con cui il potere ha tentato
e tenta di aver in mano il popolo, per soggiogarlo secondo la propria ideologia –; e nasce innanzitutto non come coerenza, ma come autocoscienza nuova
.

La nostra identità si manifesta in un’esperienza nuova dentro di noi e tra di noi: l’esperienza dell’affezione a Cristo e al mistero della Chiesa, che nella nostra unità trova la sua concretezza più vicina. L’identità è l’esperienza viva dell’affezione a Cristo e alla nostra unità.
La parola «affezione» è la più grande e comprensiva di tutta la nostra espressività. Essa indica molto più un «attaccamento» che nasce dal giudizio di valore – dal riconoscimento di quello che c’è in noi e tra di noi – che una facilità sentimentale, effimera, labile come foglia in balìa del vento. E nella fedeltà al giudizio, cioè nella fedeltà alla fede, con l’età, tale attaccamento cresce, diventa più turgido, vibrante e potente. «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato perdita […] di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede.» Questa esperienza viva di Cristo e della nostra unità è il luogo della speranza, perciò della scaturigine del gusto della vita e del fiorire possibile della gioia – che non è costretta a dimenticare o a rinnegare nulla per affermarsi –; ed è il luogo del recupero di una sete di cambiamento della propria vita, del desiderio che la propria vita sia coerente, muti in forza di quello che essa è al fondo, sia più degna della Realtà che ha “addosso”.
Dentro l’esperienza di Cristo e della nostra unità vive la passione per il cambiamento della propria vita. Ed è il contrario del moralismo: non una legge cui essere adeguati, ma un amore cui aderire, una presenza da seguire sempre di più con tutto se stessi, un fatto dentro il quale realmente naufragare.
«Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro.» La lettera ai Filippesi è ancora più appassionata: «Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo».11 Il desiderio del cambiamento di sé, pacato, equilibrato, e nello stesso tempo appassionato, diventa allora una realtà quotidiana – senza ombra di pietismo o di moralismo –, un amore alla verità del proprio essere, un desiderio bello e scomodo come una sete
Tutto questo deve diventare maturo; questo è ciò a cui dobbiamo aspirare con tutto ciò che siamo e con tutto quello che facciamo.
Ma noi non costruiamo quella presenza – che scaturisce dalla coscienza della nostra identità e dall’affezione a essa –, siamo ancora confusi.
Siamo insieme per un inizio di accento vero, che ci ha percosso quando abbiamo incontrato la comunità. Quello che ci unisce, anche se tenace, è ancora piccolo
ed embrionale, costruito dall’impressione provocata in noi dall’accento di verità dell’incontro che abbiamo fatto. Tutto è rimasto ancora agli inizi, e deve diventare
maturo, altrimenti il Signore può permettere che la tempesta del mondo lo travolga. È venuto il momento in cui non possiamo più resistere, se quell’accento iniziale non diventa maturo: non possiamo più portare da cristiani l’enorme montagna di lavoro, di responsabilità e di fatiche a cui siamo chiamati. Non si coagula, infatti, la gente con delle iniziative; ciò che coagula è l’accento vero di una presenza, che è dato dalla Realtà che è tra noi e che abbiamo “addosso”: Cristo e il Suo mistero reso visibile nella nostra unità.

Proseguendo nell’approfondimento dell’idea di presenza, occorre allora ridefinire la nostra comunità. La comunità non è un coagulo di gente per realizzare iniziative, non è il tentativo di costruire una organizzazione di partito: la comunità è il luogo della effettiva costruzione della nostra persona, cioè della maturità della fede.
Scopo della comunità è generare adulti nella fede. È di adulti nella fede che il mondo ha bisogno, non di bravi professionisti o di lavoratori competenti, perché di
questi la società
è piena, ma tutti sono profondamente contestabili nella loro capacità di creare
umanità.

Giussani Luigi, Dall'utopia alla presenza: (1975-1978), BUR, 2006

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