Il carbone e il diamante. O del segreto della bellezza
***
L’alchimia chiusa dentro una pietra
di Marina Corradi
Da diciotto anni porto all’anulare l’anello di fidanzamento. Non amavo i gioielli: sulle prime quel diamante mi colpì meno della promessa che rappresentava. Solo col tempo ho capito perché un diamante è bello. La prima scoperta è stata una sera in una sala d’attesa, mentre aspettavo una visita medica che mi preoccupava, e le lancette dell’orologio non avanzavano mai. Dunque in quella sera di inquietudine mi sono accorta che negli ambienti in penombra un diamante cattura l’unico raggio di luce. O forse è il raggio, che inesorabilmente attratto dal diamante lo attraversa, mentre quello lo scompone e lo seziona nei sette colori dell’iride. Così, seduta in una sala d’aspetto, ho cominciato a giocare: la banale luce di una lampada, afferrata dalla pietra, veniva come chimicamente divisa e ricondotta alle sette sue radici. Se inclinavi di un millimetro l’anello, ecco il raggio luccicare nello splendore ardente di un identico arcobaleno: dal rosso ardente fino al palpitare notturno di azzurro, indaco, viola. Gioco ipnotizzante e fantastico, come un piccolo sole prigioniero fra le mani. E solo ora capivo perché gli uomini fanno pazzie per i diamanti: luce che si infiamma nell’ombra e si rivela nella sua verità. Nei viaggi notturni, nelle attese in stazioni e aeroporti, quante volte quello sfavillio mi ha incantato. E quando mia figlia aveva due anni, per tenermela buona a Messa, le mostravo il bagliore al mio dito (azzurro, indaco, viola…). E lei sedotta, lei che allungava la mano paffuta ad afferrare l’alchimia chiusa dentro una pietra. Mia figlia bambina affascinata dalla luce di un diamante, come re e regine e principi e sudditi e briganti, da millenni.
Allora ho cercato di studiare. Questo sasso, cos’è? È magia vecchia di milioni di anni: fra tutte le materie, una delle più antiche. Carbonio puro, come la umile grafite delle matite. E parente, incredibile, anche del povero opaco carbone. Gli stessi atomi, ma legati in una struttura diversa. Il carbone incenerisce nei camini, il diamante è “adamas”, in greco: l’invincibile. Eppure nemmeno il blasone primordiale mi spiegava del tutto l’incanto di quella luce. Ma l’altro giorno mi sono imbattuta in questa frase di Vladimir Solov’ëv: «Che cos’è la bellezza? Guardate il carbone e il diamante. Il carbone e il diamante chimicamente sono lo stesso. Perché il carbone è brutto e il diamante è bello? Perché il carbone fissa tutta l’attenzione a se stesso, mentre nel diamante si vede il sole e tutta la luce: attraverso di esso si vede qualche altra cosa, superiore alla pietra, che la fa bella». La più stupefacente bellezza dunque è quella che si lascia attraversare da un’altra bellezza, più grande. Totalmente, senza opporre resistenza, né trattenere il raggio che non le appartiene. E in quel passaggio la luce si svela: dal rosso sangue al giallo del sole allo zenith, fino al tramonto indaco e viola. La materia più dura, più invincibile, si fa interamente trapassare dalla luce. E in quell’istante di docilità, la rivela. «Luce incarnata», così Solov’ëv chiama il bagliore che mi incanta. (Come se la luce avesse avuto bisogno della materia, per potersi svelare).
di Marina Corradi
Da diciotto anni porto all’anulare l’anello di fidanzamento. Non amavo i gioielli: sulle prime quel diamante mi colpì meno della promessa che rappresentava. Solo col tempo ho capito perché un diamante è bello. La prima scoperta è stata una sera in una sala d’attesa, mentre aspettavo una visita medica che mi preoccupava, e le lancette dell’orologio non avanzavano mai. Dunque in quella sera di inquietudine mi sono accorta che negli ambienti in penombra un diamante cattura l’unico raggio di luce. O forse è il raggio, che inesorabilmente attratto dal diamante lo attraversa, mentre quello lo scompone e lo seziona nei sette colori dell’iride. Così, seduta in una sala d’aspetto, ho cominciato a giocare: la banale luce di una lampada, afferrata dalla pietra, veniva come chimicamente divisa e ricondotta alle sette sue radici. Se inclinavi di un millimetro l’anello, ecco il raggio luccicare nello splendore ardente di un identico arcobaleno: dal rosso ardente fino al palpitare notturno di azzurro, indaco, viola. Gioco ipnotizzante e fantastico, come un piccolo sole prigioniero fra le mani. E solo ora capivo perché gli uomini fanno pazzie per i diamanti: luce che si infiamma nell’ombra e si rivela nella sua verità. Nei viaggi notturni, nelle attese in stazioni e aeroporti, quante volte quello sfavillio mi ha incantato. E quando mia figlia aveva due anni, per tenermela buona a Messa, le mostravo il bagliore al mio dito (azzurro, indaco, viola…). E lei sedotta, lei che allungava la mano paffuta ad afferrare l’alchimia chiusa dentro una pietra. Mia figlia bambina affascinata dalla luce di un diamante, come re e regine e principi e sudditi e briganti, da millenni.
Allora ho cercato di studiare. Questo sasso, cos’è? È magia vecchia di milioni di anni: fra tutte le materie, una delle più antiche. Carbonio puro, come la umile grafite delle matite. E parente, incredibile, anche del povero opaco carbone. Gli stessi atomi, ma legati in una struttura diversa. Il carbone incenerisce nei camini, il diamante è “adamas”, in greco: l’invincibile. Eppure nemmeno il blasone primordiale mi spiegava del tutto l’incanto di quella luce. Ma l’altro giorno mi sono imbattuta in questa frase di Vladimir Solov’ëv: «Che cos’è la bellezza? Guardate il carbone e il diamante. Il carbone e il diamante chimicamente sono lo stesso. Perché il carbone è brutto e il diamante è bello? Perché il carbone fissa tutta l’attenzione a se stesso, mentre nel diamante si vede il sole e tutta la luce: attraverso di esso si vede qualche altra cosa, superiore alla pietra, che la fa bella». La più stupefacente bellezza dunque è quella che si lascia attraversare da un’altra bellezza, più grande. Totalmente, senza opporre resistenza, né trattenere il raggio che non le appartiene. E in quel passaggio la luce si svela: dal rosso sangue al giallo del sole allo zenith, fino al tramonto indaco e viola. La materia più dura, più invincibile, si fa interamente trapassare dalla luce. E in quell’istante di docilità, la rivela. «Luce incarnata», così Solov’ëv chiama il bagliore che mi incanta. (Come se la luce avesse avuto bisogno della materia, per potersi svelare).
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