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domenica 27 aprile 2014

Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso

Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso 1

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Autore: De Ponti, Claudio  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it

Il viaggio ha sempre affascinato l'uomo perché è la metafora più semplice ed adeguata per descrivere il cammino umano: “homo viator”. Il "punto di fuga" è un aspetto dell'esperienza che l'uomo compie, per cui l'orizzonte non è vagliato totalmente. La realtà è sempre segno che rimanda ad altro, a un punto di fuga che suscita interrogativi e di cui la ragione deve tener conto.

"Il bottaio deve intendersi di botti.
Ma io conoscevo anche la vita,
e voi che gironzolate fra queste tombe
credete di conoscere la vita.
Credete che il vostro occhio abbracci un vasto
orizzonte, forse,
in realtà vedete solo l'interno della botte.
Non riuscite a innalzarvi fino all'orlo
e vedere il mondo di cose al di là,
e a un tempo vedere voi stessi.
Siete sommersi nella botte di voi stessi –
tabù e regole e apparenze
sono le doghe della botte.
Spezzatele e rompete la magia
di credere che la botte sia la vita,
e che voi conosciate la vita!"
E. L. Masters - "Griffy il bottaio", in Antologia di Spoon River


"Sotto l'azzurro fitto
del cielo qualche uccello di mare se ne va;
né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:
«più in là»"
E. Montale - "Maestrale"


Quel "punto di fuga", quel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cui la conoscenza di qualsiasi cosa segnala l'insopprimibile esigenza di qualcosa d'altro oltre i fattori razionalmente dimostrabili. La ratio, la ragione non decifra il Mistero, ma rivela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana


"Ciascun confusamente un bene apprende
nel qual si queti l'animo, e disira;
per che di giugner lui ciascun contende"
Dante - Purgatorio XVII, 127-129


"Spesso quand'io ti miro
star così muta in sul deserto piano,
che, in suo giro lontano, al ciel confina;
ovvero con la mia greggia
seguirmi viaggiando a mano a mano;
e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? Che vuol dir questa
solitudine immensa? Ed io che sono?"
G. Leopardi - "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia"


Il senso religioso definisce la natura dell'uomo, in quanto esprime le domande sul senso ultimo della vita. Il senso religioso è quindi quella caratteristica che qualifica il livello umano della natura, quello in cui essa prende coscienza di sé.


Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?
G. Ungaretti - "Dannazione"


Queste domande, proprio in forza della loro profondità, esigono una risposta totale. L'uomo quanto più tenta di rispondere a queste domande di significato, tanto più capisce di non esserne capace: la coscienza della sproporzione rispetto alla risposta totale che le domande esigono accompagna l'uomo nel suo cammino di ricerca del perché ultimo della vita.
L'uomo, se è leale in questa sua ricerca, ammette che la risposta alle domande fondamentali sta sempre oltre il limite cui arriva con la forza della sua ragione. La risposta sta in un insondabile Mistero cui l'uomo tende, ma che non riesce ad afferrare.
Questa dinamica esistenziale ha un riverbero di tristezza, si esprime cioè come desiderio di un bene che rimane inafferrabile. Tristezza come "desiderio di un bene assente", diceva san Tommaso


"Qualunque cosa tu dica o faccia
c'è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!"

C. Rebora - "Sacchi a terra per gli occhi"


"Non c'è cosa più amara
che l'alba di un giorno
in cui nulla accadrà.
Non c'è cosa più amara che l'inutilità.
La lentezza dell'ora è spietata
per chi non attende più nulla"
C. Pavese – "Lo steddazzu"
"Qualcuno ci ha forse promesso qualcosa?
E allora perché attendiamo?"

C. Pavese – da "Il mestiere di vivere"


Strutturalmente l'uomo attende, strutturalmente è mendicante; la vita consiste nell'attesa di un bene verso cui si tende ma che non si riesce a cogliere. L'uomo pone la domanda di un destino buono, domanda che implica la necessità di una risposta. L'essere umano porta dentro fin dall'origine la promessa di una risposta soddisfacente alle sue domande ultime, così che la vita diventa attesa che questa promessa si compia.
Solo l'ipotesi del Mistero come realtà è risposta adeguata al tipo di domanda che esprime il senso religioso dell'uomo:


"Uno sconosciuto è il mio amico, uno che io non conosco.
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è colmo di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?
Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?"

P. Lagerkvist - "Uno sconosciuto è il mio amico"


La tristezza è il segno supremo e sottile della struttura del vivere umano: la tristezza della vita è il segno di un'altra vita, di una "riva lontana" che sappiamo "confusamente", direbbe Dante, debba esistere. Che poi dalla "riva lontana" abbia a giungere un battello, così che il mare dell'esistenza possa essere solcato per tutte le sue gioie e dolori con sicurezza, non è nelle nostre forze.
Ma che la vita sia triste, e fortunatamente, altrimenti sarebbe disperata, è il contenuto di una coscienza geniale, cioè più umana, di cosa sia il vivere.
Il vero umorismo scaturisce dalla malinconia… (cfr. l'ironia manzoniana)


"Quella noia significa che, nelle cose, noi cerchiamo, appassionatamente e dappertutto alcunché che le cose non possiedono. [
…] Si cerca e ci si sforza di prendere le cose così come si vorrebbe che fossero; di trovare in esse quel peso, quella serietà, quell'ardore e quella forza compiuta delle quali si ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all'assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto… Non c'è nulla, per cui valga la pena di esistere. Non c'è nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo. […] Noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito. […] Proprio l'uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell'esistenza. […] Per conto mio, io credo che di là da qualsivoglia considerazione medica e pedagogica, il suo significato sta in questo che è un indizio dell'esistenza dell'assoluto. L'infinito testimonia di sé, nel chiuso del cuore. La malinconia è espressione del fatto che noi siamo creature limitate, ma viviamo a porta a porta con… ebbene sì, abbandoniamo alla fine il termine troppo prudenziale e astratto, di cui ci siamo serviti sinora: il termine di "assoluto"; scriviamo, al suo posto, quello che solo si addice: viviamo a porta a porta con Dio. Siamo chiamati da Dio, eletti ad accoglierlo nella nostra esistenza. La malinconia è il prezzo della nascita dell'eterno nell'uomo. […] La malinconia è l'inquietudine dell'uomo che avverte la vicinanza dell'infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo"
R. Guardini - Ritratto della malinconia


"Aveva saputo toccare nel cuore del suo amico le corde più profonde e provocare in lui la prima sensazione, ancora indefinita, di quella eterna santa tristezza che qualche anima eletta, una volta che l'abbia assaporata e conosciuta, non scambierà poi mai più con una soddisfazione a buon mercato (vi sono anche certi amatori così fatti che questa tristezza hanno più cara della soddisfazione più radicale, ammesso che una simile soddisfazione sia possibile)"
F. Dostoevskij - I demoni


La tristezza è la coscienza drammatica della sproporzione tra il destino ideale dell'uomo e tutto ciò che si fa per raggiungerlo L'opposto della tristezza è la disperazione, in quanto annulla la tensione delle domande ultime, negando che una risposta sia possibile.
Una tale coscienza considera il problema umano senza censurare nulla, né la "rugosa realtà" come scriveva Rimbaud, né la promessa che il cuore e la mente umani – se sono "giovani" – avvertono nella sfida delle circostanze, né la inevitabile delusione che si proietta sull'esistenza e che però non nega la natura di aspettativa del cuore.
Chi invece censura uno solo di questi fattori, inizia il terribile gioco delle censure che getta la vita nella disperazione. Tale è la sorte dell'orgoglio umano: pur di non riconoscere che la sua grandezza sta nella povera nostalgia di qualcosa che non è nelle sue forze, preferisce negare l'esistenza del reale (Laura Cioni)


"Il nichilismo oggi corrente è il nichilismo gaio, nel senso che è senza inquietudine. Forse si potrebbe addirittura definirlo per la soppressione dell'inquietum cor meum agostiniano"
(Augusto Del Noce). Un io dove non c'è più desiderio. Manca quell'inquietudine del desiderio presente invece in Leopardi (cfr. La sera del dì di festa)
Nella stessa ottica Montale descrive i preparativi che si effettuano prima di partire per un viaggio. Un viaggio moderno, in cui tutto è previsto nei minimi particolari. La meccanicità di questi movimenti, che pure preparano ad un evento, a una vacanza, è enfatizzato dall'accumularsi di oggetti e di azioni. Numerosi e senza senso. E dove manca il necessario: il "mio viaggio"


"Prima del viaggio si scrutano gli orari,
le coincidenze, le soste, le pernottazioni
e le prenotazioni (di camere con bagno
o doccia, a un letto o due o addirittura un flat);
si consultano le guide Hachette e quelle dei musei,
si cambiano valute, si dividono
franchi da escudos, rubli da copechi;
prima del viaggio s'informa
qualche amico o parente, si controllano
valige e passaporti, si completa
il corredo, si acquista un supplemento
di lamette da barba, eventualmente
si dà un'occhiata al testamento, pura
scaramanzia perché i disastri aerei
in percentuale sono nulla;
prima
del viaggio si è tranquilli ma si sospetta che
il saggio non si muova e che il piacere
di ritornare costi uno sproposito.
E poi si parte e tutto è O.K. e tutto
è per il meglio e inutile.
……………………………………
E ora, che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l'ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo"
E. Montale - "Prima del viaggio", in Satura (1962-1970)


Un "imprevisto" è altro dal viaggio, eppure contiene la possibilità di dire "mio". I saggi di questo mondo, spesse volte compreso lo stesso Montale, ripetono che è "una stoltezza dirselo", negando un'ultima apertura alla possibilità che accada qualcosa di "imprevisto" e cioè che il miracolo passi per caso sulle nostre strade consuete. Come è stato per Zaccheo. Proprio all'usuraio di Gerico, Montale dedica una breve lirica:


"Si tratta di arrampicarsi sul sicomoro
per vedere il Signore se mai passi.
Ahimè, non sono un rampicante ed anche
stando in punta di piedi non l'ho mai visto
E. Montale - "Come Zaccheo", in Diario del '71


L'opposto di meccanicità (e sinonimo di imprevisto) è gratuità. Per Zaccheo quel brillare di un attimo, che evidentemente non "appartiene" all'uomo, ha abbracciato la vita, mosso verso il riconoscimento di qualcuno. È forse la distanza che passa tra il vero imprevisto e la meccanicità. (Leone Piccioni)


Il viaggio come metafora della vita: itinerario del senso religioso 2


Autore: De Ponti, Claudio  Curatore: Leonardi, Enrico
Fonte: CulturaCattolica.it
Positivo è infine il movente dell'ultimo viaggio dell'Ulisse dantesco: il desiderio ardente di conoscere, il bisogno profondamente umano di vedere ciò che è oltre. Tale urgenza esplode in tutta la sua forza davanti alle colonne d'Ercole. Egli ha solcato più volte il Mediterraneo, in lungo e in largo; ma ben più affascinante è in lui l'ignoto, ciò che è al di là del limite non valicato e che non può essere posseduto con certezza come il Mare Nostrum. Il buon senso comune si fermerebbe di fronte alle colonne d'Ercole, ma a prezzo di una rinuncia incalcolabile: perché il cuore, la ragione, proiettati per loro stessa natura verso l'infinito, esigono di andare e di affrontare il rischio:

"O frati
- dissi - che per cento milia
perigli siete giunti all'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e conoscenza".

Dante - Inferno XXVI, 112-120

È l'uomo che grandeggia in questi versi, l'uomo che decide di essere se stesso seguendo il richiamo del suo cuore ad andare oltre se stesso, l'invito della realtà ad oltrepassarla.

"E volta nostra poppa nel mattino,
de' remi facemmo ali al folle volo
sempre acquistando dal lato mancino".
Dante - Inferno XXVI, 124-126

Ed eccoli navigare nell'ignoto per cinque mesi circa, finché una montagna d'inusitata altezza confusamente appare all'orizzonte. Ma la gioia per questa visione dura poco: un vento turbinoso sprigionatosi dalla terra sconosciuta investe la nave, la fa girare tre volte su stessa e poi sprofondare negli abissi "com'altrui piacque" (Inf., XXVI, 141). La tragedia è consumata; e il mare si rinchiude sopra quel pugno di coraggiosi e sopra le loro speranze, per sempre.
I mezzi per spingersi nell'immenso oceano del significato della vita non erano adeguati e il naufragio era inevitabile, come Ulisse stesso nella narrazione riconosce, definendo quell'impresa "folle volo". Tale naufragio non va però inteso come un castigo divino, ma come riaffermazione di limiti non violabili a fronte di un eccesso di maganimità. Il folle volo non è un viaggio peccaminoso, ma un viaggio destinato all'insuccesso perché un pagano come Ulisse non ha i mezzi adeguati per affrontarlo. Folle, ma non empio.
Ancora una volta è ribadita da Dante l'impossibilità del pagano, in quanto privo della Grazia e della luce della fede, di raggiungere con le sue sole forze la Verità, Dio stesso, di cui è simbolo la "montagna, bruna per la distanza" (Inf., XXVI, 134).
Resta però la grandezza dell'uomo che decide di vivere secondo il palpito più profondo del suo cuore e gli interrogativi più veri della sua ragione.
Il fascino di Ulisse è quello di un'umanità tutta tesa al destino, di un'umanità che per questo splende in tutta la sua creaturale grandezza. Come dice il Fubini: "Vinto, l'umanità non è umiliata, ma esaltata in lui" (Valeria Capelli).
La montagna che Ulisse e i suoi compagni hanno potuto intravedere in lontananza è quella del Purgatorio, sulla cui sommità è collocato il Paradiso terrestre, quella stessa montagna che a Dante sarà dato, per grazia, di percorrere. Dante, dunque, è destinato a veder compiuto nella sua esperienza il desiderio di Ulisse e il suo viaggio non sarà "folle", timore che egli stesso aveva dichiarato a Virgilio nel canto II dell'Inferno, perché tale esperienza gli sarà donata. Ecco, il punto è proprio questo: il desiderio di Ulisse è giusto ed è connaturato allo stesso essere dell'uomo, ma il tentativo di esaudirlo solo con la propria volontà e scaltrezza è peccato, anzi è il peccato originale, quello che gli antichi chiamavano hybris, indicando con questo termine un tentativo superbo di trascendere i propri limiti: non per nulla gli dei punivano spesso tale tracotanza con l'accecamento della pazzia (Gian Mario Veneziano).

"…come su una zattera, varcare a proprio
rischio il grande mare dell'esistenza,
a meno che uno non abbia la possibilità
di fare la traversata con più sicurezza
e con minor rischio su una barca più solida,
cioè con l'aiuto di una rivelazione divina".
Platone - Fedone, c. XXXV

Platone, in un suo dialogo, Il Fedone, già quattro secoli prima di Cristo ed al di fuori dell'alveo della rivelazione veterotestamentaria, trattando della possibilità dell'uomo di conoscere le verità religiose e morali così affermava: "Avere di queste cose una sicura conoscenza nella vita presente è impossibile o molto difficile". E dal momento che non è buona cosa arrendersi suggeriva una di queste soluzioni: "o apprendere da altri come stanno le cose, o trovarle da sé, oppure se ciò non è possibile, accettare almeno il migliore ed il meno confutabile dei ragionamenti umani e, lasciandoci portare su questo come su d'una zattera, navigare a proprio rischio attraverso la vita". E poi soggiungeva: "A meno che uno non abbia la possibilità di fare la traversata più sicuramente e con minor pericolo su d'una imbarcazione più solida, e cioè con l'aiuto di una rivelazione divina".

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