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sabato 19 aprile 2014

Peguy, una storia

Peguy, una storia

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di Fabio Pierangeli
Il mondo di Péguy, in­con­tra­to nella sua va­sti­tà, nella sua to­ta­li­tà di pa­ro­le, di at­teg­gia­men­ti, di fatti, con­du­ce nella pro­fon­di­tà e nella ver­ti­gi­ne del­l’im­prov­vi­so porsi del di­vi­no nella gior­na­ta ter­re­na: “ E’ ve­ra­men­te un gran­de mi­ste­ro que­sta spe­cie di le­ga­tu­ra dello spi­ri­tua­le al tem­po­ra­le; si po­treb­be quasi dire che sia come una spe­cie di mi­ste­rio­so in­ne­sto”.
Lo stes­so stile, il suo stes­so avan­za­re verso la pa­ro­la, verso il con­cet­to e il fatto nudo e me­ra­vi­glio­so del­l’in­ter­ven­to della Gra­zia (l’av­ve­ni­men­to è sem­pre un pro­ce­de­re, come nel verso li­be­ro di Péguy, un as­se­star­si, un rin­no­var­si, un ca­de­re e giun­ge­re, presi per mano, fino al com­pi­men­to), non può es­se­re go­du­to in­te­ra­men­te se se­pa­ra­to dal­l’e­spe­rien­za che il let­to­re ha di ciò che gli si pre­sen­ta nel testo.
Un at­teg­gia­men­to così ricco, così cir­co­la­re, non può ca­pir­si a pieno se quel­le pa­ro­le non in­di­ca­no il farsi di una sto­ria, non rap­pre­sen­ta­no volti e si­tua­zio­ni at­tua­li e ri­pe­ti­bi­li. Si veda un brano del se­con­do mo­no­lo­go di Gio­van­na D’Ar­co nel Mi­ste­ro della Ca­ri­tà. I due mo­no­lo­ghi, quel­lo ini­zia­le, la pre­ghie­ra del­l’uo­mo re­li­gio­so che chie­de al Padre di ri­ve­lar­si nel mondo ten­ta­to dalla di­spe­ra­zio­ne; e il se­con­do che ri­ve­la il Mi­ste­ro della pre­di­le­zio­ne e la ver­ti­gi­ne della di­sce­sa di Dio in un tempo fi­ni­to e co­stret­to, apro­no ai gran­di temi dei tre mi­ste­ri; anche strut­tu­ral­men­te, poi­ché espo­nen­do i tor­men­ti di Gio­van­na pre­pa­ra­no al lungo col­lo­quio con Ger­vai­se, che forma il tes­su­to nar­ra­ti­vo delle tre opere.
È il brano di Ge­ru­sa­lem­me e Be­tlem­me che il­lu­stra, in senso spa­zia­le, la ver­ti­gi­ne del­l’In­car­na­zio­ne:
Quan­do penso che era un uomo come tutti gli altri, un uomo or­di­na­rio; ap­pa­ren­te­men­te come tutti gli altri, ap­pa­ren­te­men­te or­di­na­rio. Cam­mi­na­va sulla stra­da come un uomo or­di­na­rio; i suoi piedi sta­va­no sulla terra; e sa­li­va i sen­tie­ri del colle. Ge­ru­sa­lem­me, Ge­ru­sa­lem­me, sei stata più for­tu­na­ta di Roma. E tu Na­za­re­th, pic­co­lo borgo, pic­co­la città di Giu­dea, sei più fe­li­ce di Reims e di Saint Denis”.
ma anche in senso tem­po­ra­le:
 “Per­ché ciò che è stato fatto, si è fatto una volta per tutte, un gior­no nel tempo, in quel paese, una volta per tutte le volte, nel­l’e­ter­ni­tà una volta per l’e­ter­ni­tà, in ogni eter­ni­tà per ogni eter­ni­tà”.
e in senso fi­gu­ra­to, uma­niz­za­to, ad­dol­ci­to, in­te­rio­riz­za­to dal­l’in­tui­zio­ne straor­di­na­ria del poeta che, sfio­ran­do e pre­sen­ten­do il Mi­ste­ro della pre­di­le­zio­ne, può sor­ri­de­re in­sie­me a Dio, am­mi­ran­do la gran­dez­za eter­na de­sti­na­ta ad un pic­co­lo e oscu­ro borgo:
Ma tu, Be­tlem­me, pic­co­la par­roc­chia oscu­ra, pic­co­la par­roc­chia sper­du­ta, tu fur­bac­chio­na hai San Gesù”. 
E te­nia­mo in mente che di Be­tlem­me Péguy dice an­co­ra: “ Di colpo, al primo colpo era ar­ri­va­ta aveva par­to­ri­to il santo dei santi”, per­ché l’a­zio­ne di Dio è sem­pre più gran­de del­l’o­pi­nio­ne del­l’uo­mo e per­ché userà gli stes­si av­ver­bi per de­fi­ni­re lo straor­di­na­rio in­con­tro di Si­meo­ne con il Bimbo e de­scri­ve­re lo “scar­to” tra l’at­te­sa del­l’uo­mo e il com­pi­men­to del suo de­sti­no.
Più avan­ti nella let­tu­ra i pro­fi­li che ci in­te­res­sa­no. Le fi­gu­re della ver­ti­gi­ne: la Mad­da­le­na, la Ve­ro­ni­ca, Si­mo­ne di Ci­re­ne, Si­meo­ne. La na­sci­ta e la gio­vi­nez­za, la pre­di­ca­zio­ne e la morte di Gesù. Non so se Péguy in que­sto brano ha pre­sen­te che que­sti per­so­nag­gi scan­di­sco­no il cam­mi­no della vita di Cri­sto, quel­lo che gli in­te­res­sa è il ri­lie­vo co­mu­ne: “Ma voi altri, voi soli, avete ve­du­to, avete toc­ca­to, avete af­fer­ra­to quel corpo umano nella sua uma­ni­tà”. Così Mad­da­le­na, l’o­lio e i pro­fu­mi: “ Beata colei che versò su i suoi piedi il pro­fu­mo del­l’an­fo­ra…; su i suoi po­ve­ri piedi, sul suo corpo car­na­le” e il faz­zo­let­to di Ve­ro­ni­ca: come non ri­cor­da­re que­sto brano in cui la Sal­vez­za si serve di un sem­pli­ce faz­zo­let­to! “ Beata colei che con un faz­zo­let­to, con un vero faz­zo­let­to, con faz­zo­let­to per asciu­gar­si il naso, con un faz­zo­let­to im­pe­ri­tu­ro asciu­gò quel­la fac­cia au­gu­sta”.
Il va­lo­re di quel­la per­so­na è in quel­l’av­ve­ni­men­to, in quel­la luce im­prov­vi­sa; lo stes­so suo nome è cam­bia­to da un mo­men­to così umano che si può toc­ca­re. È nella Ve­ro­ni­ca e nelle due fi­gu­re ma­schi­li che Péguy ci in­tro­du­ce de­fi­ni­ti­va­men­te nella spa­zia­li­tà e nella tem­po­ra­li­tà del Mi­ste­ro in­car­na­to:
Fe­li­ce colui che si trovò lì giu­sto al mo­men­to in cui si do­ve­va por­ta­re la sua croce […] un uomo che pas­sa­va di lì, forse, aveva ben scel­to il suo tempo, giu­sto in quel punto, giu­sto al­lo­ra, giu­sto in quel mo­men­to.
Quel­l’uo­mo che pas­sa­va giu­sto di lì. Quan­ti uo­mi­ni, poi, un’in­fi­ni­tà di uo­mi­ni nei se­co­li dei se­co­li avreb­be­ro vo­lu­to es­se­re lì al suo posto, es­se­re pas­sa­ti, es­se­re pas­sa­ti di lì giu­sto in quel mo­men­to. Giu­sto lì. Ma ecco, era trop­po tardi, era lui che era pas­sa­to.”
È es­sen­zia­le co­glie­re l’in­cro­ciar­si di una certa pron­tez­za umana, quasi una fur­bi­zia umile pron­ta ad ade­ri­re al­l’Oc­ca­sio­ne della vita, e l’in­con­tro che si pre­ci­sa in cir­co­stan­ze spa­zio-tem­po­ra­li de­fi­ni­te; ma è anche dram­ma­ti­co ac­cet­ta­re che ciò po­te­va non ac­ca­de­re, che quel­le due per­so­ne po­te­va­no non in­con­trar­si, pas­sa­re in tempi di­ver­si, de­fi­ni­ti e se­pa­ra­ti o che, ap­pun­to, altri uo­mi­ni, ap­pa­ren­te­men­te, non hanno fatto quel­l’in­con­tro (sono le do­man­de ter­ri­bi­li di Gio­van­na che fanno va­cil­la­re Ger­vai­se in que­sta can­ti­ca e che tro­ve­ran­no ade­gua­ta ri­spo­sta nelle due suc­ces­si­ve).
Così ri­leg­gen­do la pro­pria vita si può dire, rin­gra­zian­do, di es­ser­si tro­va­ti ca­sual­men­te, di colpo pro­prio lì, in un giro in­fi­ni­to. L’ar­te di Pèguy in que­sto è “gran­dio­sa”, de­scri­ve come av­vie­ne il ri­pe­ter­si del Fatto cri­stia­no nei se­co­li e nei tempi. La stes­sa scon­vol­gen­te mo­da­li­tà.
Si­meo­ne, Si­mo­ne, la Ve­ro­ni­ca, l’uo­mo della na­sci­ta, l’uo­mo e la donna della morte, fi­gu­ra­no una ver­ti­gi­ne più pro­fon­da per­ché hanno visto e toc­ca­to una sola volta il volto di Cri­sto: Si­mo­ne e la Ve­ro­ni­ca la carne in­san­gui­na­ta e per­cos­sa, Si­meo­ne quel­la fre­sca e in­tat­ta di un bimbo, ri­ma­nen­do come eter­na­men­te de­fi­ni­ti da quel­l’Av­ve­ni­men­to. Un solo at­ti­mo che per Si­meo­ne è il com­pi­men­to di una at­te­sa, per la Ve­ro­ni­ca e Si­mo­ne un ina­spet­ta­to in­con­tro.
Nella fi­gu­ra di Si­meo­ne è rias­sun­ta tutta l’an­sia e la re­li­gio­si­tà del mondo an­ti­co, ma anche la sto­ria del po­po­lo di Israe­le la cui leggi e la fe­del­tà a Dio ven­go­no eter­na­men­te di­sfat­te e am­plia­te dalla glo­rio­sa na­sci­ta di Cri­sto. Di colpo, un colpo solo, al primo colpo, come Pèguy ri­pe­te di Si­meo­ne.
Anche Si­meo­ne è de­fi­ni­to, ri­cor­da­to, per quel­l’in­con­tro, in cui si le­ga­no fi­ni­tez­za ed eter­ni­tà, vec­chia­ia e gio­vi­nez­za, te­ne­bra e luce, at­te­sa e com­pi­men­to e nel quale si legge fi­nal­men­te il volto di una sto­ria.
E non co­nob­be più nes­su­na sto­ria della terra. Poi­ché alla sera della sua vita, alla sera della sua gior­na­ta, di un sol colpo, al primo colpo aveva co­no­sciu­to la più gran­de sto­ria della terra”.
Così anche nel ri­leg­ge­re Pèguy,  lo spa­zio e il tempo di una sto­ria, per­so­na­le e vis­su­ta nel rap­por­to con le per­so­ne care, ap­pa­io­no le mo­da­li­tà con­cre­te del porsi di una trama, certa, nel­l’ap­pa­ren­te ca­sua­li­tà del di­ve­ni­re: nello spa­zio, per­ché i luo­ghi sono im­por­tan­ti (Ge­ru­sa­lem­me, Be­tlem­me), nel tempo (per­ché ca­sual­men­te Si­mo­ne e Si­meo­ne si tro­va­va­no lì), negli in­con­tri che sono de­ci­si­vi (gli in­con­tri evan­ge­li­ci e poi an­co­ra, fino a noi). Credo che il gran­de fran­ce­se aves­se in mente scri­ven­do, die­tro i sim­bo­li dello spa­zio e del tempo, die­tro le sta­tu­re delle fi­gu­re dei santi, una sto­ria pre­sen­te, per­so­na­le, vis­su­ta e con­di­vi­sa con altri. Dirà di se stes­so come poeta: “ Il mio la­vo­ro non è l’o­pe­ra di un sin­go­lo, lo ali­men­ta­no, in­fat­ti, con il me­glio della loro vita quel­li che gli ap­par­ten­go­no”.
E l’ar­te in que­sto senso non può che es­se­re me­mo­ria poe­ti­ca, dono e ascol­to di una gra­zia so­vrab­bon­dan­te, ma pure sem­pre par­ti­co­la­re fram­men­to e vo­ca­zio­ne al­l’in­ter­no della Me­mo­ria “una nuova co­scien­za del­l’io de­fi­ni­ta dal ri­co­no­sci­men­to dei Suoi gesti nella sto­ria” (L.​Giussani, Mo­ra­li­tà: me­mo­ria e de­si­de­rio, Mi­la­no, Jaca Book, 1980). In que­sto le vi­cen­de dei suoi sono più gran­di di quel­le di Si­meo­ne: se lui ha co­no­sciu­to di un sol colpo la sto­ria più in­te­res­san­te, la sola in­te­res­san­te, i suoi pos­so­no ve­der­la agire, cam­bia­re e tra­sfi­gu­ra­re il volto degli uo­mi­ni, oggi.
Così, in que­sto ri­pe­ter­si e ag­giun­ger­si nello stile di Pèguy, come in uno spec­chio, ci è dato di co­no­sce­re un’i­den­ti­tà di sto­rie, di nomi, di luo­ghi, di av­ve­ni­men­ti, in­som­ma, di per­so­ne per le quali “l’in­con­tro con Cri­sto è una real­tà così pre­sen­te che la loro vita ne è cam­bia­ta”.

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