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sabato 19 aprile 2014

La madre dolorosa e il poeta dalla «testa stellata»: la Pietà di Guillaume Apollinaire

18 aprile 2014

La madre dolorosa e il poeta dalla «testa stellata»: la Pietà di Guillaume Apollinaire
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di Paola Di Sabatino
ApollinaireQuan­do nel­l’a­go­sto del 1918 Guil­lau­me Apol­li­nai­re vergò per l’ul­ti­ma volta il ma­no­scrit­to di Cou­leur Du Temps, do­ve­va già sen­ti­re den­tro la pro­pria carne l’av­vi­ci­nar­si della fine. Ed è evi­den­te dal tema del basso con­ti­nuo – «Addio addio Tutto deve mo­ri­re» – su cui pog­gia l’e­si­le co­stru­zio­ne di quel­la piéce in versi dalla trama scar­na e al­ta­men­te sim­bo­li­ca, in­te­ra­men­te in­cen­tra­ta sulla tra­ge­dia della guer­ra e sul­l’im­pos­si­bi­li­tà della Pace in que­sto mondo. Ep­pu­re, nella te­ne­bro­sa in­tra­ma­tu­ra di quel­la che sa­reb­be stata l’ul­ti­ma fa­ti­ca let­te­ra­ria del poeta fran­ce­se – spen­to­si tre mesi più tardi, il 9 no­vem­bre – ri­lu­ce, pre­zio­so e ina­spet­ta­to, il de­li­ca­tis­si­mo ri­ca­mo di una madre che pian­ge, ai piedi di una croce, il fi­glio morto in bat­ta­glia. E bi­so­gna so­sta­re sulle pa­ro­le della donna, ac­ca­rez­za­re le curve emo­zio­na­li di quel pian­to do­lo­ro­so che sa di nuovo e d’an­ti­co, per ac­cor­ger­si di come, nel bel mezzo di un’o­pe­ra di rara di­spe­ra­zio­ne, il poeta cu­bi­sta abbia scol­pi­to sulla carta, verso dopo verso, una splen­di­da e car­na­lis­si­ma Pietà.

L’in­te­ra vita di Guil­lau­me Apol­li­nai­re – «nave or­fa­nel­la verso le feb­bri fu­tu­re» – era stata una  con­ti­nua e feb­bri­le corsa verso quel fu­tu­ro che, nella Pa­ri­gi dei primi anni Dieci, aveva per lui i co­lo­ri e il sem­bian­te stra­vol­to delle fi­gu­re del­l’a­mi­co Pi­cas­so; le cao­ti­che e in­cal­zan­ti so­no­ri­tà del pro­gres­so tec­no­lo­gi­co delle pe­ri­fe­rie in­du­stria­li della città; le sin­gul­tan­ti mo­ven­ze di quel­le pri­mor­dia­li im­ma­gi­ni ci­ne­ma­to­gra­fi­che di cui l’au­to­re di Al­cools e Cal­li­gram­mes avreb­be per primo pro­fe­tiz­za­to la straor­di­na­ria for­tu­na; e so­prat­tut­to la ve­lo­ci­tà degli aerei e delle au­to­mo­bi­li che ini­zia­va­no a sol­ca­re i cieli e le stra­de di un mondo che pro­prio al­lo­ra co­min­cia­va a farsi sem­pre più pic­co­lo. E sem­pre più mi­nac­cio­so: il 28 lu­glio del 1914, allo scop­pia­re della Gran­de Guer­ra, Apol­li­nai­re de­ci­se di ar­ruo­lar­si vo­lon­ta­ria­men­te. Per ne­ces­si­tà ma so­prat­tut­to per credo este­ti­co; con quel­lo stes­so fer­vo­re avan­guar­di­sta che ri­tro­via­mo in molte delle poe­sie della rac­col­ta poe­ti­ca Cal­li­gram­mes, nelle quali l’or­ro­ri­fi­co ban­chet­to di morte che stava in­cen­dian­do il mondo era visto più che altro come una festa me­ra­vi­glio­sa che avreb­be per sem­pre di­strut­to il «mondo an­ti­co» e inau­gu­ra­to quell’«epoca Nuova» di cui si legge nei versi de La pe­ti­te auto.
Un nuovo ini­zio che tut­ta­via, per Apol­li­nai­re, sa­reb­be tri­ste­men­te coin­ci­so con la sua fine per­so­na­le, ar­ri­va­ta dav­ve­ro, come re­ci­ta­va un pro­fe­ti­co e si­ni­stro verso di Le fiançail­les, «fi­schian­do come un ura­ga­no»: il 17 marzo 1916 una scheg­gia di gra­na­ta gli per­fo­rò la fron­te; eva­cua­to, tra­spor­ta­to in un ospe­da­le da campo ita­lia­no e sot­to­po­sto alla tra­pa­na­zio­ne del cra­nio,  il poeta avreb­be tra­scor­so gli ul­ti­mi due anni della sua vita in preda a gravi in­quie­tu­di­ni fi­si­che e mo­ra­li.
Da quel mo­men­to in poi, guar­da­to sotto la luce ros­sa­stra di quel «foro mor­ta­le che s’è fatto stel­la» – così nei versi di Tri­stes­se d’une étoi­le –, il con­flit­to mon­dia­le aveva di­smes­so i panni vi­ta­li­sti­ci della gran­de av­ven­tu­ra e gli aveva mo­stra­to il suo volto più bru­ta­le e cruen­to; lo stes­so che sog­ghi­gna mi­nac­cio­so in Cou­leur du temps, la sto­ria sur­rea­le di cin­que per­so­nag­gi so­spe­si tra cielo e terra, tra «voci di morti e vi­ven­ti», in fuga dalle ma­ce­rie di un Paese senza nome e alla ri­cer­ca di quel­la pace che si sco­pri­rà im­pos­si­bi­le: ci si ri­fu­gi – come fanno il pro­ta­go­ni­sta Ni­to­re e com­pa­gni – in un isola de­ser­ta o tra i bian­chi ghiac­ci del Polo, l’au­to­di­stru­zio­ne della Terra è, nella piéce, un de­sti­no ine­vi­ta­bi­le.
Anche il la­men­to di ma­da­me Gi­rau­me – que­sto il nome della “madre af­flit­ta” nel­l’o­pe­ra – par­la­va di guer­ra; in esso era cer­ta­men­te rias­sun­to il do­lo­re di tutte le donne che ave­va­no ab­brac­cia­to i gio­va­ni corpi mar­to­ria­ti dei pro­pri figli nei campi di com­bat­ti­men­to del mondo in­te­ro. Una scena che Apol­li­nai­re do­ve­va es­ser­si tro­va­to da­van­ti agli occhi molte volte nei due anni tra­scor­si in trin­cea, tante quan­te fu­ro­no al­lo­ra in Fran­cia le vit­ti­me di quel­l’as­sur­do car­na­io. Ma son le pa­ro­le che qui con­ta­no, i ter­mi­ni vi­bran­ti e as­sie­me es­sen­zia­li che il poeta   era an­da­to a ri­cer­ca­re lon­ta­no, in­die­tro nel tempo fino al­l’a­ma­to Ja­co­po­ne da Todi, tra i versi di Donna de Pa­ra­diso, forse la più bella lauda sulla Pas­sio­ne che il Me­dioe­vo ci abbia la­scia­to.
Tut­ta­via, più delle espli­ci­te ci­ta­zio­ni ja­co­po­nia­ne – quel­le in cui il sol­da­to è ap­pel­la­to, come Cri­sto nella lauda, «bian­co e ver­mi­glio», «bel gi­glio», «più bian­co d’un gi­glio» -, col­pi­sce so­prat­tut­to l’im­ma­gi­ne di quel fi­glio che è «frut­to», «fio­ri­tu­ra squi­si­ta» «sboc­cia­ta» dal «cuore», dal «san­gue» e dalla «carne» di sua madre. Ven­go­no in mente i versi di Dante, che cer­ta­men­te Apol­li­nai­re aveva letto, anche per­ché si tro­va­no in uno dei più ce­le­bri canti del Pa­ra­di­so, il XX­XIII: «Nel ven­tre tuo si rac­ce­se l’a­mo­re, per lo cui caldo ne l’et­ter­na pace/ così è ger­mi­na­to que­sto fiore»; e ancor me­glio – per bru­sca as­so­cia­zio­ne que­sta volta, non sap­pia­mo se il poeta le co­no­sces­se – le pa­ro­le di Am­bro­gio nel­l’in­no Veni Re­demp­tor Gen­tium: «Il verbo di Dio si fece carne e il frut­to del ven­tre di Maria fiorì».
È con stu­po­re che dun­que ci si ac­cor­ge di come a gri­da­re, nel grido smi­su­ra­to di ma­da­me Gi­rau­me, non sia più sol­tan­to l’im­ma­gi­na­zio­ne del­l’au­to­re, ma la voce stes­sa del­l’Ad­do­lo­ra­ta, resa, in al­cu­ni mo­men­ti del brano, così come se­co­li di tra­di­zio­ne let­te­ra­ria e re­li­gio­sa l’a­ve­va­no vo­lu­ta. Apol­li­nai­re non fa che ag­giun­ge­re, poe­ti­ca­men­te, una ul­te­rio­re sfu­ma­tu­ra di co­lo­re che dà sui toni della te­ne­rez­za. Come nel passo in cui “la do­len­te”, nella fitta estre­ma della sof­fe­ren­za, co­sta­tan­do la pe­san­tez­za di quel corpo ormai esa­ni­me ed esan­gue («o bel­lis­si­ma fon­ta­na ver­mi­glia, ec­co­ti pro­sciu­ga­ta per sem­pre»), ri­cor­da la quo­ti­dia­ni­tà fe­li­ce tra­scor­sa as­sie­me a quel­la crea­tu­ra un tempo, in lei e per lei, così leg­ge­ra: «Fi­glio mio un tempo ti ho por­ta­to/ quan­do non pe­sa­vi quasi nulla/ e non ho più latte per nu­tri­re/ la tua morte come nu­trii la tua vita […] Parla fi­glio mio ri­spon­di a tua madre/ è la voce che ti ha in­se­gna­to a par­la­re».
Ad una prima let­tu­ra, le pa­ro­le di que­sta donna, nella cui «voce» è trat­teg­gia­ta così chia­ra­men­te quel­la di Maria, sem­bra­no esclu­de­re qual­sia­si spe­ran­za, pa­io­no pro­ve­ni­re sol­tan­to da quel­la re­gio­ne in­ti­ma ove tutto è ri­cor­do, gioia pas­sa­ta; e quel fi­glio senza nome, che tutti i ri­man­di iden­ti­fi­che­reb­be­ro come fi­gu­ra di Cri­sto, non è altro che la sua stes­sa croce. Una Pietà, quel­la crea­ta dalla penna del poeta, splen­di­da ma ul­ti­ma­men­te tri­ste.
Ep­pu­re è im­pos­si­bi­le non ri­co­no­sce­re nella «bocca no­vel­la» e «trop­po rossa» del sol­da­to morto la «stel­la di san­gue» che aveva “in­co­ro­na­to” «per sem­pre» Apol­li­nai­re. E nel­l’ab­brac­cio di Ma­da­me Gi­rau­me – che al­l’ul­ti­mo, quasi in un im­pre­vi­sto lampo di spe­ran­za, sol­le­ci­ta ac­co­ra­ta la ri­spo­sta del pro­prio pic­co­lo («Ri­spon­di ri­spon­di bam­bi­no mio/ Ri­spon­di ri­spon­di bam­bi­no mio») – il de­si­de­rio del poeta mo­ren­te di fi­ni­re i pro­pri gior­ni “tra le brac­cia della più te­ne­ra fra le madri”. In fondo era a Lei che in gio­ven­tù, a fede già per­du­ta, Apol­li­nai­re aveva de­di­ca­to gli splen­di­di versi di Priè­re: «Quand’e­ro un bam­bi­no pic­co­lo/ 
mia madre mi ve­sti­va sol­tan­to di bian­co e di blu/
 O Santa Ver­gi­ne/ 
Mi amate an­co­ra?/
 Io so bene/
che vi amerò/ 
fino alla mia morte/ 
e tut­ta­via per me è dav­ve­ro fi­ni­ta/ 
Io non credo più né al cielo né al­l’in­fer­no/ 
Io non credo più io non credo più/
Il ma­ri­na­io che fu sal­va­to/ 
per non aver mai di­men­ti­ca­to/
 di dire ogni gior­no un Ave/ 
Mi ras­so­mi­glia  mi ras­so­mi­glia».
Del resto, in quel Ve­ner­dì di do­lo­re, croce e sal­vez­za, as­sie­me al­l’u­ma­ni­tà in­te­ra, il Si­gno­re aveva af­fi­da­to a sua madre anche l’a­ni­ma del po­ve­ro poeta cu­bi­sta Guil­lau­me Apol­li­nai­re.
Donna, ecco tuo fi­glio.



SCENA TERZA     Campo di bat­ta­glia con croci

Ma­da­me Gi­rau­me: É qui che si è com­bat­tu­to
Col­pi­to alla testa è ca­du­to

Trova la croce sotto la quale ri­po­sa il fi­glio

Fi­glio mio ec­co­ti sotto que­sta croce
Ec­co­ti mio gio­iel­lo pre­zio­so
Ec­co­ti frut­to mio bian­co e ver­mi­glio
È mio fi­glio   il mio bam­bi­no è lui
Fi­glio sei sol­tan­to que­sta croce
È mio fi­glio   il mio bam­bi­no sei tu
O fon­ta­na ver­mi­glia così bella
Ec­co­ti per sem­pre asciut­ta
Tu che in me avevi la sor­gen­te
È mio fi­glio  il mio bam­bi­no sei tu
Dormi nella por­po­ra im­pe­ria­le
Tinta col san­gue che io ti ho dato
O fi­glio bel gi­glio sboc­cia­to dalla mia carne
Squi­si­ta fio­ri­tu­ra del mio cuore
Fi­glio mio  fi­glio mio  ec­co­ti dun­que morto
Sulla tua fron­te una bocca no­vel­la
Ride di tutto ciò che que­sta sera
M’af­flig­ge  Parla sotto terra nuova bocca
Che dici mai  bocca sem­pre aper­ta
Sei muta bocca trop­po rossa
[…]
E come deve es­se­re pe­san­te il tuo corpo
Già mi schiac­cia il tuo ri­cor­do
O fi­glio mio un tempo ti ho por­ta­to
Quan­do non pe­sa­vi quasi nulla
E non ho più latte per nu­tri­re
La tua morte come ho nu­tri­to la tua vita
[…]
Parla fi­glio mio  ri­spon­di a tua madre
È la voce che ti ha in­se­gna­to a par­la­re
[…]
Ho do­vu­to far passi in­cre­di­bi­li
Per rag­giun­ge­re que­sto luogo proi­bi­to
Ed ec­co­ti morto caro bam­bi­no mio
Che han fatto di te ti hanno uc­ci­so
E ci si son messi tutti per uc­ci­der­ti
E poi­ché ce l’a­ve­va­no col mio san­gue
Per­ché mai per pro­sciu­gar­ne la sor­gen­te
Non han preso la mia vita fi­glio mio
Per­ché la tua vita e non la mia
[…]
Che ne sarà di me do­lo­ro­sa
De­so­la­ta di­strut­ta in pian­to
Ascol­ta­te mio fi­glio mio fi­glio è morto
Mio fi­glio un grap­po­lo d’uva ma­tu­ra
Da cui hanno spre­mu­to tutto il vino
E quel pre­zio­so vino l’han­no be­vu­to
Son ebbri ora guar­da­te ascol­ta­te
Son tutti ebbri di quel vino
San­gue mio il mio san­gue ver­mi­glio
[…]
O fi­glio mio fi­glio mio più bian­co d’un gi­glio
Fi­glio mio  fi­glio mio in­ver­no della mia anima
O fi­glio mio ostia della pa­tria
O fi­glio dol­cez­za e do­lo­re im­men­si
Ri­spon­di­mi ri­spon­di­mi  bam­bi­no
Ri­spon­di­mi ri­spon­di­mi  bam­bi­no
da: http://www.piccolenote.it/18361/la-madre-dolorosa-e-il-poeta-dalla-testa-stellata-la-pieta-di-guillaume-apollinaire

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