18 aprile 2014
La madre dolorosa e il poeta dalla «testa stellata»: la Pietà di Guillaume Apollinaire
***
di Paola Di Sabatino
Quando nell’agosto del 1918 Guillaume Apollinaire vergò per l’ultima volta il manoscritto di Couleur Du Temps,
doveva già sentire dentro la propria carne l’avvicinarsi
della fine. Ed è evidente dal tema del basso continuo – «Addio addio
Tutto deve morire» – su cui poggia l’esile costruzione di
quella piéce in versi dalla trama scarna e altamente
simbolica, interamente incentrata sulla tragedia della
guerra e sull’impossibilità della Pace in questo mondo.
Eppure, nella tenebrosa intramatura di quella che sarebbe
stata l’ultima fatica letteraria del poeta francese –
spentosi tre mesi più tardi, il 9 novembre – riluce, prezioso e
inaspettato, il delicatissimo ricamo di una madre che piange,
ai piedi di una croce, il figlio morto in battaglia. E bisogna
sostare sulle parole della donna, accarezzare le curve
emozionali di quel pianto doloroso che sa di nuovo e d’antico,
per accorgersi di come, nel bel mezzo di un’opera di rara
disperazione, il poeta cubista abbia scolpito sulla carta, verso
dopo verso, una splendida e carnalissima Pietà.
L’intera vita di Guillaume Apollinaire – «nave
orfanella verso le febbri future» – era stata una continua e
febbrile corsa verso quel futuro che, nella Parigi dei primi anni
Dieci, aveva per lui i colori e il sembiante stravolto delle
figure dell’amico Picasso; le caotiche e incalzanti
sonorità del progresso tecnologico delle periferie
industriali della città; le singultanti movenze di quelle
primordiali immagini cinematografiche di cui l’autore di Alcools e Calligrammes
avrebbe per primo profetizzato la straordinaria fortuna; e
soprattutto la velocità degli aerei e delle automobili che
iniziavano a solcare i cieli e le strade di un mondo che proprio
allora cominciava a farsi sempre più piccolo. E sempre più
minaccioso: il 28 luglio del 1914, allo scoppiare della Grande
Guerra, Apollinaire decise di arruolarsi volontariamente.
Per necessità ma soprattutto per credo estetico; con quello
stesso fervore avanguardista che ritroviamo in molte delle
poesie della raccolta poetica Calligrammes, nelle quali
l’orrorifico banchetto di morte che stava incendiando il mondo
era visto più che altro come una festa meravigliosa che avrebbe
per sempre distrutto il «mondo antico» e inaugurato quell’«epoca
Nuova» di cui si legge nei versi de La petite auto.
Un nuovo inizio che tuttavia, per Apollinaire,
sarebbe tristemente coinciso con la sua fine personale,
arrivata davvero, come recitava un profetico e sinistro
verso di Le fiançailles, «fischiando come un uragano»: il
17 marzo 1916 una scheggia di granata gli perforò la fronte;
evacuato, trasportato in un ospedale da campo italiano e
sottoposto alla trapanazione del cranio, il poeta avrebbe
trascorso gli ultimi due anni della sua vita in preda a gravi
inquietudini fisiche e morali.
Da quel momento in poi, guardato sotto la luce
rossastra di quel «foro mortale che s’è fatto stella» – così nei
versi di Tristesse d’une étoile –, il conflitto mondiale
aveva dismesso i panni vitalistici della grande avventura e
gli aveva mostrato il suo volto più brutale e cruento; lo stesso
che sogghigna minaccioso in Couleur du temps, la storia
surreale di cinque personaggi sospesi tra cielo e terra, tra
«voci di morti e viventi», in fuga dalle macerie di un Paese senza
nome e alla ricerca di quella pace che si scoprirà impossibile:
ci si rifugi – come fanno il protagonista Nitore e compagni –
in un isola deserta o tra i bianchi ghiacci del Polo,
l’autodistruzione della Terra è, nella piéce, un destino
inevitabile.
Anche il lamento di madame Giraume – questo il nome
della “madre afflitta” nell’opera – parlava di guerra; in esso
era certamente riassunto il dolore di tutte le donne che
avevano abbracciato i giovani corpi martoriati dei propri
figli nei campi di combattimento del mondo intero. Una scena che
Apollinaire doveva essersi trovato davanti agli occhi molte
volte nei due anni trascorsi in trincea, tante quante furono
allora in Francia le vittime di quell’assurdo carnaio. Ma son
le parole che qui contano, i termini vibranti e assieme
essenziali che il poeta era andato a ricercare lontano,
indietro nel tempo fino all’amato Jacopone da Todi, tra i versi di Donna de Paradiso, forse la più bella lauda sulla Passione che il Medioevo ci abbia lasciato.
Tuttavia, più delle esplicite citazioni
jacoponiane – quelle in cui il soldato è appellato, come
Cristo nella lauda, «bianco e vermiglio», «bel giglio», «più
bianco d’un giglio» -, colpisce soprattutto l’immagine di quel
figlio che è «frutto», «fioritura squisita» «sbocciata» dal
«cuore», dal «sangue» e dalla «carne» di sua madre. Vengono in mente i
versi di Dante, che certamente Apollinaire aveva letto, anche perché si trovano in uno dei più celebri canti del Paradiso,
il XXXIII: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo
ne l’etterna pace/ così è germinato questo fiore»; e ancor meglio
– per brusca associazione questa volta, non sappiamo se il
poeta le conoscesse – le parole di Ambrogio nell’inno Veni Redemptor Gentium: «Il verbo di Dio si fece carne e il frutto del ventre di Maria fiorì».
È con stupore che dunque ci si accorge di come a
gridare, nel grido smisurato di madame Giraume, non sia più
soltanto l’immaginazione dell’autore, ma la voce stessa
dell’Addolorata, resa, in alcuni momenti del brano, così come
secoli di tradizione letteraria e religiosa l’avevano
voluta. Apollinaire non fa che aggiungere, poeticamente, una
ulteriore sfumatura di colore che dà sui toni della
tenerezza. Come nel passo in cui “la dolente”, nella fitta estrema
della sofferenza, costatando la pesantezza di quel corpo ormai
esanime ed esangue («o bellissima fontana vermiglia, eccoti
prosciugata per sempre»), ricorda la quotidianità felice
trascorsa assieme a quella creatura un tempo, in lei e per lei,
così leggera: «Figlio mio un tempo ti ho portato/ quando non
pesavi quasi nulla/ e non ho più latte per nutrire/ la tua morte
come nutrii la tua vita […] Parla figlio mio rispondi a tua madre/ è
la voce che ti ha insegnato a parlare».
Ad una prima lettura, le parole di questa donna, nella
cui «voce» è tratteggiata così chiaramente quella di Maria,
sembrano escludere qualsiasi speranza, paiono provenire
soltanto da quella regione intima ove tutto è ricordo, gioia
passata; e quel figlio senza nome, che tutti i rimandi
identificherebbero come figura di Cristo, non è altro che la
sua stessa croce. Una Pietà, quella creata dalla penna del poeta, splendida ma ultimamente triste.
Eppure è impossibile non riconoscere nella «bocca
novella» e «troppo rossa» del soldato morto la «stella di
sangue» che aveva “incoronato” «per sempre» Apollinaire. E
nell’abbraccio di Madame Giraume – che all’ultimo, quasi in un
imprevisto lampo di speranza, sollecita accorata la
risposta del proprio piccolo («Rispondi rispondi bambino mio/
Rispondi rispondi bambino mio») – il desiderio del poeta
morente di finire i propri giorni “tra le braccia della più
tenera fra le madri”. In fondo era a Lei che in gioventù, a fede già
perduta, Apollinaire aveva dedicato gli splendidi versi di Prière:
«Quand’ero un bambino piccolo/
mia madre mi vestiva soltanto
di bianco e di blu/
O Santa Vergine/
Mi amate ancora?/
Io so bene/
che vi amerò/
fino alla mia morte/
e tuttavia per me è davvero
finita/
Io non credo più né al cielo né all’inferno/
Io non credo
più io non credo più/
Il marinaio che fu salvato/
per non aver mai
dimenticato/
di dire ogni giorno un Ave/
Mi rassomiglia mi
rassomiglia».
Del resto, in quel Venerdì di dolore, croce e
salvezza, assieme all’umanità intera, il Signore aveva
affidato a sua madre anche l’anima del povero poeta cubista
Guillaume Apollinaire.
Donna, ecco tuo figlio.
SCENA TERZA Campo di battaglia con croci
Madame Giraume: É qui che si è combattuto
Colpito alla testa è caduto
Trova la croce sotto la quale riposa il figlio
Figlio mio eccoti sotto questa croce
Eccoti mio gioiello prezioso
Eccoti frutto mio bianco e vermiglio
È mio figlio il mio bambino è lui
Figlio sei soltanto questa croce
È mio figlio il mio bambino sei tu
O fontana vermiglia così bella
Eccoti per sempre asciutta
Tu che in me avevi la sorgente
È mio figlio il mio bambino sei tu
Dormi nella porpora imperiale
Tinta col sangue che io ti ho dato
O figlio bel giglio sbocciato dalla mia carne
Squisita fioritura del mio cuore
Figlio mio figlio mio eccoti dunque morto
Sulla tua fronte una bocca novella
Ride di tutto ciò che questa sera
M’affligge Parla sotto terra nuova bocca
Che dici mai bocca sempre aperta
Sei muta bocca troppo rossa
[…]
E come deve essere pesante il tuo corpo
Già mi schiaccia il tuo ricordo
O figlio mio un tempo ti ho portato
Quando non pesavi quasi nulla
E non ho più latte per nutrire
La tua morte come ho nutrito la tua vita
[…]
Parla figlio mio rispondi a tua madre
È la voce che ti ha insegnato a parlare
[…]
Ho dovuto far passi incredibili
Per raggiungere questo luogo proibito
Ed eccoti morto caro bambino mio
Che han fatto di te ti hanno ucciso
E ci si son messi tutti per ucciderti
E poiché ce l’avevano col mio sangue
Perché mai per prosciugarne la sorgente
Non han preso la mia vita figlio mio
Perché la tua vita e non la mia
[…]
Che ne sarà di me dolorosa
Desolata distrutta in pianto
Ascoltate mio figlio mio figlio è morto
Mio figlio un grappolo d’uva matura
Da cui hanno spremuto tutto il vino
E quel prezioso vino l’hanno bevuto
Son ebbri ora guardate ascoltate
Son tutti ebbri di quel vino
Sangue mio il mio sangue vermiglio
[…]
O figlio mio figlio mio più bianco d’un giglio
Figlio mio figlio mio inverno della mia anima
O figlio mio ostia della patria
O figlio dolcezza e dolore immensi
Rispondimi rispondimi bambino
Rispondimi rispondimi bambino
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