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martedì 29 aprile 2014

La santità del laico nel pensiero di Luigi Giussani e Divo Barsotti

La santità del laico nel pensiero di Luigi Giussani e Divo Barsotti

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Paolo Prosperi
Documenti
Proponiamo l’intervento di Paolo Prosperi, sacerdote della Fraternità dei missionari di San Carlo Borromeo, al convegno “La funzione e il ruolo del laico nella Chiesa e nel mondo, nel pensiero di don Divo Barsotti” organizzato dalla Comunità dei Figli di Dio. Bologna, Basilica di San Domenico, 6 maggio 2006

Don Giussani, come noto, è il fondatore del movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione. Don Divo della Comunità dei figli di Dio. Lo scopo che qui mi prefiggo non può essere, per forza di cose, un confronto esaustivo delle loro personalità e della loro opera. Più modestamente, vorrei mettere in luce alcuni elementi che avvicinano queste due grandi figure del nostro tempo molto più profondamente di quanto uno sguardo superficiale potrebbe notare. Giussani, anima espansiva e vulcanica, è infatti soprattutto noto come l’animatore di un movimento cattolico fortemente impegnato nell’azione sociale a tutti i livelli, finanche a quello politico. Barsotti, uomo di leggendaria riservatezza, benché anch’egli grande carismatico, è invece noto come uno dei più grandi uomini spirituali del nostro tempo; esegeta geniale e non inquadrabile in nessuno schema, scrittore mistico e fondatore di una comunità contemplativa aperta a tutti, che punta a rendere accessibile la pienezza della santità anche a chi vive nel mondo, impegnato nel lavoro e nella vita familiare. Cosa trovare di comune tra i due? In realtà molto, se non troppo.
1. Il santo è l’uomo vero
Il primo aspetto che vorrei evidenziare è quello che già il titolo enuncia: l’attenzione data da entrambi al cosiddetto laicato, la capacità, propria di entrambi, di suscitare il fuoco della radicalità cristiana negli ambienti normali della vita di tutti, anche al di fuori di chiese e chiostri. Va notato che tale fenomeno, tanto in Giussani come in Barsotti, si afferma assai prima che il Concilio Vaticano II mettesse a tema il “laico”. E ciò dimostra, oltre che il genio profetico dei due, la loro totale mancanza di progetti in merito. Sia Giussani che Barsotti hanno, infatti, più volte dichiarato, con espressioni curiosamente simili, di non aver mai voluto fondare niente, di aver semplicemente seguito ciò che lo Spirito faceva accadere attorno a loro. Penso di non sbagliare affermando che mai Giussani e Barsotti si siano proposti, con la loro opera, di mettere in maggiore risalto la figura del laico. Erano forse più semplicemente mossi da zelo apostolico, e da una convinzione tanto rivoluzionaria quanto antica: che la santità cristiana non è un mestiere per pochi. È bensì la vocazione normale di tutti, di ogni battezzato.
Ma ciò ci spinge a porci una domanda più radicale e difficile: cosa è la santità? È proprio nella risposta a questa domanda che va ricercata forse la consonanza più profonda tra i due sacerdoti: «Vi è una accezione della parola santità - scrive don Giussani - la quale si rifà ad una immagine di eccezionalità che una aureola esprime.
Eppure il santo non è né un mestiere di pochi né un pezzo da museo. La santità va vista in ogni tempo come la stoffa della vita cristiana. (…) Il santo non è un superuomo, il santo è un uomo vero. Il santo è un vero uomo perché aderisce a Dio e quindi all’ideale per cui è stato costruito il suo cuore».1
Il santo non è dunque un uomo che compie necessariamente imprese clamorose.
Il santo è piuttosto l’uomo che compie, nel silenzio di ogni istante, direbbe Ignazio di Antiochia, l’impresa più clamorosa: vivere la verità di sé. Quale è la verità dell’uomo? Che non si fa da sé, che dipende da un Altro, da Dio. Il santo è semplicemente l’uomo che vive, istante dopo istante, consapevolmente e amorosamente, questa dipendenza: «Tutta la virtù cristiana - scrive don Divo - consiste in fondo nel rendersi conto di quello che egli è davanti a Dio (…). Se noi vivessimo questo avremmo già raggiunto la santità più pura e più grande».2
Se c’è un’intuizione base comune ai due, in tema di santità, penso sia proprio questa:
il santo non è un eroe, e neanche un uomo che non sbaglia mai. Il santo è l’uomo vero, in quanto è colui che tende a vivere la coscienza della propria dipendenza da Dio in ogni istante: «Vivere il nostro rapporto con Dio nella verità vuol dire renderci conto, istante per istante, che tutto abbiamo da Lui, e che in noi non vi è alcuna ragione di essere, capacità di esistere, nessuna potenza di agire. Noi non siamo che quello che Lui vuole e quello che Lui ci fa, istante per istante».3
2. L’uomo è sete di Dio
Ma dire che il santo è l’uomo vero è un’affermazione più provocatoria di quel che possa sembrare: significa infatti affermare che
solo l’uomo che vive intensamente il rapporto col Dio può godere del rapporto con la realtà mondana in modo autentico. Significa attaccare frontalmente quel sottile dualismo tra valori mondani e valori spirituali, tra naturale e soprannaturale, tra mondo e Dio, in cui molto cattolicesimo moderno ha sempre più rischiato di lasciarsi intrappolare. «Dio se c’è, non c’entra»: così Cornelio Fabro riassume la tentazione moderna. Non c’entra con la vita di tutti i giorni, non c’entra con la moglie, non c’entra col lavoro, coi soldi, con gli alberi, con il vino, con l’arredamento della mia camera. Per Giussani invece, se Dio non c’entra, sono proprio la moglie e il lavoro che perdono sapore. Se Dio non c’è, è l’uomo che perde, direbbe don Divo, ogni potere: «La nostra volontà di strapparci a questa dipendenza assoluta da Dio, questa volontà di autosufficienza, di indipendenza da Dio che è l’essenza del peccato è una volontà che ci precipita nel nulla e ci toglie la vita e ogni potere. È l’inferno».4 Senza Dio è l’uomo stesso che si sfalda, che si frammenta in mille pezzi, e perde, per contrappasso, la capacità di possedere e gustare la vita di questo mondo: «Il rapporto con Dio - scrive ancora don Giussani - è l’ipotesi di lavoro più adeguata all’incremento e alla realizzazione dell’unità della personalità. Per questo il mondo ha ancora, anzi soprattutto oggi, bisogno dello “spettacolo della santità”. (…) Vivere il mistero della comunione con Dio in Cristo fa imparare a vedere tutte le cose come riferite ad un valore unico (…). Da questa ricchezza prima più profonda scaturisce una visione della vita di una semplicità grandissima: una sola Realtà come criterio e misura e modi investe della sua luce tutte le cose; per cui l’io si sente uno con tutte le cose e in tutte le cose (…) non ha bisogno di dimenticare o di rinnegare nulla: tanto meno, starei per dire, la morte».5
Vi è quindi un primo aspetto che definirei antropologico nella concezione della santità cristiana, tanto in Giussani quanto in Barsotti. Antropologico perché dipende da come entrambi sentono e comprendono il mistero dell’uomo. Lo riassumerei con queste poche parole scolpite da don Divo:
«Noi siamo soltanto in dipendenza da Dio, e soltanto vivendo la nostra dipendenza da Lui noi salviamo l’essere nostro, possediamo noi stessi».6
Dio deve riempire tutta la vita dell’uomo, nulla escluso, perché in realtà, anche quando non lo sa, anche quando violentemente lo nega, è di questo che l’uomo di oggi ha disperata sete: è «equivoca - attacca Giussani - la posizione di quanti identificano la sanità di una società nel richiamo a certi valori comuni minimali. È un qualcosa di mistificante perché fa gioco su una condizione umana che si aspetta ben altro».7
L’uomo aspetta ben altro. Aspetta l’Immenso, aspetta Dio. Ma il Dio che aspetta è un Dio così presente, così invadente, starei per dire, da essere capace di illuminare e trasfigurare la vita in tutti i suoi aspetti: non solo di cambiare lo sguardo che porti alle stelle, a tua moglie, al tuo lavoro; ma il modo con cui vivi il dolore e persino guardi alla morte.
In questo senso, Giussani e Barsotti sono stati a mio avviso prima di tutto due uomini capaci di leggere i cuori, di comprendere il cuore dell’uomo del proprio tempo, nelle sue contraddizioni, eppure nella sua insopprimibile sete di significato
. Di comprendere e far comprendere che senza Dio è l’uomo stesso che si incurva, si rimpicciolisce e infine sparisce. Non per nulla entrambi sono stati attenti ascoltatori del grido lanciato dalle voci della grande letteratura atea. L’esempio in questo senso più impressionante mi pare l’amore profondo che lega entrambi a Leopardi. Impressiona - leggendo i loro commenti alle poesie del grande recanatese - il fatto che, pur nella diversità di sensibilità, si ha subito la percezione di un nocciolo profondo comune: entrambi cioè sono personalmente toccati, feriti dalla voce del poeta, perché sentono vibrare, nella sua inappagabile malinconia, il mistero della vastità infinita del proprio stesso cuore, come del cuore di ogni uomo. E nella sua disperazione, il bisogno impellente che quel Mistero enigmatico, che la ragione intuisce come oggetto ultimo della propria sete, diventi toccabile, visibile, abbracciabile in questo mondo: la nostalgia inconsapevole del Cristo. Del finale di Alla sua donna, la sua poesia preferita, don Giussani soleva addirittura dire che è «una delle più belle preghiere che si possano leggere nella nostra letteratura»: quasi inno d’amante disperato al Cristo, che come lo Sposo del Cantico, tarda a venire, lasciando la sposa a tormentarsi in una incerta attesa: «Se dell’eterne idee/ l’una sei tu cui di sensibil forma/ sdegni l’eterno senno esser vestita,/ e fra caduche spoglie/ provar gli affanni di funerea vita;/ o s’altra terra ne’ superni giri/ fra’ mondi innumerabili t’accoglie,/ e più vaga del Sol prossima stella/ t’irraggia, e più benigno etere spiri;/ di qua dove son gli anni infausti e brevi,/ questo d’ignoto amante inno ricevi».8
3. Chi è in Cristo è una nuova creatura
Il santo non è un mestiere di pochi, abbiamo detto. E abbiamo visto una prima ragione di ordine antropologico:
la santità è la realizzazione dell’uomo in quanto tale, nella sua vera statura. Questa prima ragione è però in un certo senso di ordine negativo, perché l’uomo di fatto non può, senza la grazia di Cristo, realizzare l’ideale per cui pure il suo cuore è fatto. La santità in questo senso è il mestiere di tutti e nello stesso tempo è inaccessibile a tutti.
Per questo la seconda ragione, di ordine invece positivo, è di gran lunga quella più importante, quella centrale.
La santità non è un mestiere di pochi, perché la santità è innanzitutto un dono. Un dono che investe l’uomo afferrato da Cristo e fatto uno con Lui nel Battesimo (Gal 3,28). In questo senso la vera radice del discorso sulla santità del laico è da ricercarsi nella teologia dell’Incarnazione e nella teologia, soprattutto paolina, del Battesimo.
a) L’Avvenimento di Cristo
Quale è il cuore dell’annuncio cristiano? Il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è fatto uomo, si è unito alla carne, alla materialità di cui è tramata la vita quotidiana dell’uomo comune, perché tale carne, senza perdere nulla della sua materialità, possa risplendere della gloria di Dio. Scrive Giussani: «La santità cristiana è agli antipodi del concetto di santità proprio a tutte le religioni, dove essa è intesa come una separazione dal quotidiano normale. Nelle religioni c’è un’ultima opposizione fra il sacro, la realtà in quanto a servizio di Dio, separata dal resto per essere dedicata a Lui, e la profanità, cioè la realtà in quanto non immediatamente al suo servizio. Nella concezione cristiana invece non c’è nulla di pro-fanum, che stia davanti o fuori del tempio, perché tutta la realtà è il grande tempio di Dio: nulla è profano e tutto è “sacro”, perché tutto è funzione di Cristo».9
«L’attività umana - scrive ancora Giussani - diventa interamente significativa: ogni azione, anche quella apparentemente meno incidente, acquista la nobiltà di un grande gesto. Ciò è possibile solo se l’uomo agisce essendo consapevole del motivo ultimo della sua azione».10
La stessa intuizione del nesso tra Incarnazione e santificazione di tutte le realtà temporali, sta al centro del pensiero di Barsotti: «È la secolarità che deve essere consacrata: è tutta la realtà che in qualche modo è assunta dal Verbo (…). Vogliamo - scrive don Divo nella regola della comunità - una consacrazione di tutto quello che è profano, che è secolare;
vogliamo che la nostra associazione abbia il compito di santificare tutte le attività umane».11
b) L’Avvenimento del Battesimo
Ma è nel sacramento del
Battesimo che l’Avvenimento della “meravigliosa mescolanza” tra il divino e l’umano investe la persona, inserendola nell’umanità di Cristo. Nella teologia del Battesimo, e in particolare in quella paolina, va quindi cercata la chiave di volta del discorso sulla santificazione del mondo da parte del laico, tanto in Giussani quanto in Barsotti. Il nome stesso della comunità fondata da don Divo mi pare richiamare esplicitamente la teologia battesimale di san Paolo. Una teologia che è tutta riassumibile nello stupore e nell’entusiasmo con cui l’Apostolo contempla la potenza dell’Avvenimento battesimale nei termini di una nuova creazione, di un reale ingresso dell’uomo nella Vita del Risorto. La santità è un compito alla portata di tutti, perché è innanzitutto un dono che investendo l’uomo ne cambia l’ontologia, lo trasforma in un soggetto nuovo. Gli dona un essere nuovo. Nel linguaggio paolino, infatti, santi sono i battezzati per il semplice fatto che appartengono all’ontologia nuova del corpo di Cristo, a prescindere dallo sviluppo più o meno maturo dell’uomo nuovo in ciascuno. Il tempo manifesterà, senza nulla aggiungere, ciò che è già tutto donato nel seme iniziale: è ciò che Giussani chiama «la cultura del “già avvenuto”: il compimento (…) e la perfezione ricercati sono già tra noi e dentro di noi; tutto l’agire è un lievitarsi irresistibile ed immenso del loro manifestarsi».12 Ecco perché non esiste più nulla di profano, di escludibile dal rapporto con Cristo. Perché è l’essere stesso dell’uomo che è mutato, che è stato unito a Lui in modo definitivo: «Non siamo uomini che sono cristiani, siamo cristiani che sono uomini, per quanto strano vi possa sembrare (…) è vero che la grazia suppone la natura. Ma è anche vero che la grazia abbraccia la natura e tutta la trasforma. (…) L’essere cristiano non prende una parte soltanto dell’uomo, lo prende totalmente, con tutte le sue capacità, per tutto il tempo della sua vita, non lasciando nulla che l’uomo possa vivere indipendentemente da questa sua dignità».13
Giussani sottolinea questo aspetto di continuo: «Tutta la nostra attenzione è concentrata sull’idea di “fedele”, di “battezzato”. Cioè sull’idea di un’ontologia nuova che il Fatto cristiano introduce attivamente nel mondo.
Che cosa è infatti il cristianesimo se non l’avvenimento di un uomo nuovo che per sua natura diventa un protagonista nuovo sulla scena del mondo? Mi sembra che, dal punto di vista antropologico (…) non ci sia nulla al di là e al di sopra di questo elementare messaggio. La questione eminente nella realtà cristiana non è dunque “laico o non laico”, ma l’accadere della “creatura nuova” di cui parla san Paolo».14 «Solo il cristianesimo, in tutta la storia dell’umanità, ha come contenuto del suo messaggio - dal punto di vista antropologico, cioè dal punto di vista dell’uomo - l’annuncio di un cambiamento radicale della personalità. Un cambiamento non morale, ma un cambiamento radicale della personalità (…). Solo il cristianesimo promette all’uomo una forza divina che lo cambia come essere, come natura».15La santità è quindi innanzitutto un dono, un Avvenimento che investe l’uomo. E questo non solo all’inizio. Ma in un certo vero senso sempre di più. La santità, infatti, non è altro che il crescere progressivo, lo sviluppo in noi della vita del Cristo, della sua santità che prende sempre più spazio, nella misura in cui l’uomo gli si abbandona nella fede. Il vero compito dell’uomo è, allora, solo e sempre di più quello di imparare a lasciare spazio all’azione di un Altro, lasciare spazio al Tu, amava dire don Giussani: all’azione dello Spirito di Colui che si è già insediato nella mia persona e «con gemiti inesprimibili» (Rm 8,24) sospira nel desiderio di assimilarmi sempre di più a sé. L’essere di me battezzato è realmente abitato da una Presenza che mi ama e mi chiama a lasciarmi plasmare dalle Sue mani: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me». Queste parole, come ha ricordato papa Benedetto nella sua splendida omelia della notte pasquale, non sono riferite da Paolo a un’esperienza mistica particolare. Ma alla situazione oggettiva in cui si trova, il più delle volte inconsapevolmente, ogni battezzato. Ogni battezzato, invece, deve sentire sue queste parole di Paolo. Per quanto peccatore sia. Il compito dell’uomo, perciò, dal punto di vista ascetico, è in fondo semplicissimo, e non richiede nessuna precondizione particolare: se non la fede e il desiderio di vivere il più intensamente possibile il rapporto con questa Presenza, rendendosi docile alla Sua azione.
4. Lo stupore per Cristo
Tocchiamo qui uno dei punti di più profonda consonanza tra Barsotti e Giussani, nel modo di concepire il cristianesimo. Mi riferisco
al primato dell’ontologia sull’etica. E mi riferisco anche alla profonda avversione di entrambi per ogni forma di moralismo e di riduzione del cristianesimo a un elenco di valori e precetti morali: «La fedeltà cristiana ridotta a moralismo: una riduzione ancor più meschina perché depaupera il Fatto cristiano della sua nobiltà, della sua dignità, perché la fedeltà cristiana è per sua natura un amore, l’amore alla persona di Cristo».16
Barsotti scrive, dal canto suo: «Si preferisce vivere il cristianesimo come impegno moralistico. Così si parla molto, nelle chiese, della mafia, dei debiti del Terzo Mondo, degli armamenti, del governo… ma chi parla di Cristo morto e risorto?».17 E nell’introduzione a quello che è, a mio avviso, uno dei suoi capolavori, la meditazione sul Cantico dei Cantici, aggiunge: «
Nell’ebraismo e poi nel cristianesimo l’uomo non è chiamato ad essere buono, ma ad amare. (…) Le virtù senza l’amore ci chiudono nell’egoismo, in un orgoglio spirituale che al contrario di essere perfezione diviene elemento di difesa contro l’amore, diviene terribile impedimento contro l’amore. (…) Il cristiano nasce quando Dio, in Cristo, entra nella vita dell’uomo e l’uomo non solo non lo rifiuta ma lo sceglie, risponde al Suo Amore. È importante essere casti, essere obbedienti? Tutto questo entra solo come realizzazione, come attuazione di questo rapporto di amore».18
Il santo, dunque, è innanzitutto un uomo sorpreso dall’Amore di Dio, che per primo gli viene incontro. Un uomo dominato dallo stupore per l’amore che Dio ha per lui. Potremmo stare qui per ore a leggere pagine e pagine in cui Giussani e Barsotti cantano, commentando la Scrittura, l’accadere di questo stupore, l’irruzione di Dio nella vita dell’uomo. Il santo è un uomo abbagliato, come i tre discepoli sul Tabor, dalla rivelazione dell’amore di Dio per lui, che ultimamente si concentra in un uomo: Gesù. «Il cristiano - scrive don Divo nel ’70 - è essenzialmente colui che ha veduto Gesù Cristo, colui che Lo vede e gli parla». Ciò che fa del santo un santo, è perciò in radice ciò che fa il battezzato: il lumen fidei, lo stupore della fede che riconosce in Gesù Cristo il Dio fatto uomo. Una delle definizioni più belle di santo che ho trovato in don Giussani è questa:
il santo è «colui che continuamente sorprende l’intero suo essere come amato dal Dio fatto uomo».19 Continuamente. Mi pare importante questo avverbio. Perché se c’è una tentazione del cattolicesimo moderno, secondo il fondatore di Cl, è appunto quella di scivolare sempre sulle applicazioni. Siano etiche, sociali, politiche. Invece dove la Chiesa è santa, è là dove in essa rimane accesa la fiamma di questo stupore, sarei tentato di dire, primitivo, per il fatto inesauribile: Dio si è fatto uomo per unirsi a me, per unirmi a sé. È divenuto un corpo solo con me. Se c’è stata e c’è una tentazione nella Chiesa del nostro tempo, ha affermato don Giussani più volte, è quella di lasciare sullo sfondo lo stupore nudo e crudo per l’avvenimento di Cristo. Di farlo scivolare in secondo piano, rispetto a un cristianesimo dei valori morali, forse meno fastidioso, meno provocatorio, meno scandaloso per il mondo. Ma senza niente di nuovo da dire al mondo stesso. Di fatto si tratta della tentazione perenne, che Paolo stigmatizza nelle sue lettere, di tornare alla schiavitù della legge: al centro torno ad essere io, il mio sforzo umano, il mio umanesimo autonomo. È questa, per i nostri due maestri, la grande tragedia dell’egocentrismo dell’uomo moderno.
Invece in Giussani, come in Barsotti, la via cristiana è tutta ricondotta, spesso con accenti focosi che ricordano da vicino l’antilegalismo paolino, alla semplicità radicale della fede. Il giusto vive di fede (Rm 1,17), cioè dell’amore efficace di un Altro, che ha invaso definitivamente la sua vita e lo sostiene istante per istante con la Sua Presenza. Alla forza di questa Presenza il santo è totalmente appeso, in nulla poggiando su di sé.
5. Di fede in fede (Rm 1,17)
Se si facesse un’indagine statistica, penso sarebbe facile trovare conferma di quanto detto nell’amore dei due per la figura di Abramo. Le pagine scritte da don Divo sulla fede di Abramo, sia per numero che profondità, dimostrano forse meglio di ogni altra cosa il primato assoluto che la fede occupa nel suo pensiero sulla santità. Cito Lecceto ’89, ma si potrebbero citare decine di altre pagine simili: «
La santità, tanto nell’Antico come nel Nuovo Testamento, consiste nel fidarci di Dio, nell’abbandonarci a Lui. Frutto supremo della santità vera è sempre questo abbandono totale di sé nelle mani di un Dio che ti conduce per vie sconosciute e non ti dice dove vuole portarti (…). Tutta la vita cristiana non è l’impegno dell’uomo, ma di Dio; non è l’azione dell’uomo, ma è l’azione di Dio per la tua salvezza. A te che cosa chiede il Signore? La fede; la fede che è abbandono, che è lasciare che Dio compia in te la sua volontà. Se tu non gli apri le porte, la sua azione rimane esterna a te e questa azione divina non ti raggiunge».20
Scrive Giussani: «Nessuna conseguenza etica è più radicale, necessaria e assoluta di questa: la certezza di essere trasformati [nel Battesimo] e perciò di poter cambiare. “Si è affidato sperando contro ogni speranza”, dice Paolo di Abramo. Questo credito di sé ad un Altro, sperando in Lui contro ogni apparenza disperante della propria pochezza, meschinità e fragilità, è (…) l’inizio della redenzione che palesa il suo compimento».21
L’ascesi cristiana viene così a delinearsi, dall’inizio alla fine, come il semplice e grandioso dramma di un rapporto di amore, in cui l’uomo è chiamato e provocato continuamente a lasciarsi strappare a se stesso, alla propria morale autonoma, alla tentazione sempre insorgente di misurare se stesso, per lanciarsi, di fede in fede, in un sempre più profondo, più totale, più arreso abbandono alla forza di un Altro: «Per essere trovato in Lui, non con una mia giustizia che viene dalla legge, ma con la giustizia che viene da Dio, mediante la fede in Cristo» (Fil 3,9).
Tutta la grandezza del santo risiede in realtà solo nel fatto che egli vive questo abbandono amoroso come il contenuto di ogni respiro, di ogni azione.
Questo comune accento nel concepire la santità, mi pare confermato da un’altra “amicizia” condivisa dai nostri due. Quella con santa Teresina del Bambin Gesù e la sua piccola via dell’amore.
«Quando sono caritatevole, è solo Gesù che agisce in me», soleva citare Giussani. E don Divo ha un passo splendido, nel suo commento al Cantico, in cui così descrive il “segreto” della grandezza di Teresina: «Che cosa ha fatto santa Teresa del Bambin Gesù che noi non possiamo fare? Rispose all’amore come una bimba di 24 anni può fare. Non fece grandi cose. Ma poi quali cose sono grandi davvero davanti a Dio? Quale differenza c’è fra le imprese di Francesco Saverio e ciò che fece Teresina? Come ogni differenza viene meno davanti alla grandezza infinita di Dio! La vita e la grandezza di un uomo è nulla davanti a Lui. Quello che invece fa grande l’atto dell’uomo è che ogni atto raggiunge un Dio che lo ama. La grandezza del tuo atto dipende quindi dalla fede che hai nel Suo amore. Proprio per questo, siccome Teresina crede di essere amata da Dio, i suoi atti di amore, un sorriso, un passo in più in giardino, un piccolissimo sacrificio, sconvolgevano i cieli».22
In questo senso, se mi chiedessero di indicare
le virtù portanti del santo, nel pensiero di Giussani come in quello di Barsotti, personalmente, per entrambi i casi risponderei: la fede e l’umiltà. E cioè, non a caso, le due virtù che connotano Maria, nel ritratto così essenziale che ci danno le Scritture.23
Mi si conceda una annotazione da ormai mezzo “orientale”: nelle icone dell’Annunciazione, che è forse il mistero della fede più meditato da don Giussani,
Maria abbassa sempre il capo. È il gesto dell’umiltà, è chiaro. Ma nell’icona - che per questo è insuperabile nel mostrare l’indicibile - si vede come proprio il gesto dell’abbassamento scava contemporaneamente nel suo corpo la cavità, lo spazio concavo dell’ospitalità; svuotandola, la rende grembo capace di ospitare l’Infinito.
Ecco:
tutto il compito dell’uomo, semplicissimo e insieme arduo, grandioso si riconduce in fondo a questo: assimilarsi alla Vergine, che è tutta grembo che accoglie, grembo che in sé lascia tutto lo spazio a Colui che viene.
6. La preghiera, lavoro del cristiano
Se ciò che conta è fare spazio, se ciò che conta è lasciare che in noi agisca e lavori Colui che in noi è già presente, si capisce perché, in Giussani come in Barsotti,
tutto il “lavoro” del laico battezzato, cioè del cristiano, dal punto di vista ascetico, si risolva nella contemplazione. O, per usare la terminologia di Giussani, il lavoro supremo del cristiano è la memoria: memoria incessante di Cristo e domanda permanente della Sua manifestazione in noi: «La nostra salvezza, - scrive Giussani -, la nostra perfezione, già c’è, ma nello stesso tempo ha ancora da manifestarsi. È come dover esser sempre in ascolto, vigilanti per una venuta nuova o per un ritorno: il ritorno di Cristo. (…) l’atteggiamento del cristiano è l’attesa del ritorno di Cristo (…) non come risoluzione estatica dall’angustia presente o formula di distacco dal tempo presente, ma come l’urgenza allo svelarsi della verità [di ogni istante], di ogni impegno contingente. (…) Attesa che Cristo venga dentro di sé - e attraverso sé nel mondo - nella santità. (…) Questa è radicale abolizione del moralismo, perché la morale cristiana è la storia di Dio nell’uomo. La nostra libertà non è tanto in quello che riusciamo a realizzare, perché questo dipende da Dio. È piuttosto nella verità con cui chiediamo a Dio, nella verità con cui mendichiamo Cristo. Questa è l’essenziale decisione in cui la libertà s’avvera: chiedere con verità. È l’atteggiamento che permette una continuità senza fine: “Bisogna pregare sempre” ci invitò Gesù».24 Risponde don Divo nel vademecum della comunità: «È la preghiera l’atto più efficace dell’uomo, perché Dio alla preghiera non resiste e tutto alla preghiera concede. Noi ci sentiamo impegnati soprattutto a questo, proprio per venire incontro ai bisogni del mondo (…). La vita del cristiano è essenzialmente preghiera: non atto che realizza qualcosa, ma atto che implora l’intervento ultimo di Dio, così come nell’Apocalisse tutta la vita dell’Universo, tutta la vita della Chiesa si consuma nell’invocazione: “Vieni Signore Gesù!”».25
A chi non conosce bene il carisma di Cl, può sembrare strano quanto ho appena affermato. L’immagine vulgata di Comunione e Liberazione è quella di una realtà iper-attiva, tutta lanciata nel sociale. E ciò è indubbiamente vero. Ma se si è compreso quanto ho cercato di dire fin qui, al cuore del carisma di don Giussani, pur nella diversità di temperamento e di traduzione, sta un’affermazione del primato dei valori contemplativi non meno radicale di quanto non avvenga in Barsotti.
La verità è che per entrambi la vita cristiana è un’unità: non esiste vita contemplativa che non abbia come frutto la trasformazione della persona e attraverso di essa del mondo e viceversa: non esiste possibilità reale di azione cristiana nel mondo che non si radichi nella trasfigurazione di sé mediante la preghiera e la vissuta comunione ecclesiale. L’anima di Giussani è in questo senso nel suo fondo totalmente monastica, nel senso più profondo del termine. Ciò risulta evidente se si leggono le costituzioni del direttorio dei Memores Domini, una delle creature più originali di Giussani, la realtà che forse ne rispecchia più fedelmente il carisma: «Il carisma dell’Associazione si esprime innanzitutto nella insistenza data alla “contemplazione, intesa come memoria tendenzialmente continua di Cristo. Cristo, infatti, è la consistenza di tutte le cose (cfr. Col 1,17) ed è presente nella storia attraverso la personalità del battezzato e la comunione fra i fratelli”».26 «Al di là di tutte le forme in cui può esprimersi, il contenuto fondamentale dell’ascesi è il desiderio di approfondire personalmente la memoria di Cristo e la coscienza della sua presenza, facendole diventare struttura permanente della persona, criterio, motivo ed orizzonte di ogni azione».27
Se c’è invece un punto di sensibile differenza, e sarebbe interessante approfondirlo, sta nel fatto che il grande punto di riferimento costante di Giussani è san Benedetto. Nell’ora et labora del Padre del monachesimo occidentale, si può trovare la formula sintetica della concezione giussaniana del laico, chiamato a manipolare e a trasfigurare il mondo con la sua azione, mentre si lascia trasformare dall’azione del Cristo, che lo stringe a sé e lo plasma attraverso l’abbraccio permanente della compagnia dei fratelli. Don Divo mi pare invece più fortemente vicino al genio del monachesimo orientale che, senza escludere l’importanza del lavoro, della vita comune e dell’azione missionaria, risolve più accentuatamente nella vita mistica la missione del cristiano nei confronti del mondo. Per l’orientale il modello della santità è infatti il bios anghelikòs, la vita degli angeli, nei quali vita attiva e vita contemplativa coincidono, sono un unico atto: «Quale collaborazione può aspettare Dio da noi? La collaborazione dell’uomo è la preghiera; noi dobbiamo renderci conto che il nostro apostolato vero, la nostra missione precisa è la preghiera. (…)
La preghiera in realtà è il lavoro unico del cristiano. La vita contemplativa non può essere per te una dispensa dalla vita attiva, non può essere un pretesto perché tu ti senta meno impegnato nella salvezza degli uomini. Allora soltanto realizzi il tuo ideale, quando vivendo la tua vita contemplativa dinanzi a Dio, vivrai come colui che è a servizio dei fratelli e tutti li porta nel cuore. È questa la vita angelica, l’ideale di vita che tu devi realizzare».28 «Dio non parla mai a te come separato dagli altri, e tu non parli mai a Dio come separato dalla comunità umana, dalla chiesa, dalla comunità religiosa cui appartieni».29 Per Barsotti, dunque (che in questo è realmente vicinissimo alla visione dei grandi Padri greci) tutto il compito “missionario” del battezzato consiste nel liberare progressivamente, fino a farla risplendere all’esterno, quell’immagine divina che è già nascosta in lui fin dal Battesimo, attraverso l’incessante lavoro della preghiera. Unendosi sempre più profondamente a Cristo, l’uomo si unisce simultaneamente nell’amore alla Chiesa e a tutti gli uomini, perché Cristo è il Verbo che tutta l’umanità ha già assunto in se stesso. L’agape verso il fratello, perciò, per usare la terminologia dell’ultima enciclica del Papa, non è altro che il brillare esterno del fuoco dell’eros con cui l’anima si unisce a Cristo nell’amore.
La stessa impostazione “patristica” vale rispetto al rapporto che il laico deve avere con il lavoro. La preoccupazione del cristiano per don Divo non deve essere quella di un esito mondano della sua azione. Deve essere piuttosto la tensione a vivere l’unione con Dio in ogni istante, in tutto ciò che fa. Solo quando l’uomo rientra nell’eden della piena comunione con Dio, infatti, riacquista spontaneamente quella regalità sul mondo che Adamo aveva al principio e che ha perduto a causa del peccato: «Solo quando, ritornato nel paradiso di Dio, nell’uomo si è ristabilita l’unità, il suo lavoro sarà, come al principio, la manifestazione di una regalità sulla creazione. (…) La spiritualità orientale si compiace di vedere nel miracolo l’azione stessa dell’uomo che, non più asservito alle necessità della legge, assoggetta a sé tutte le cose nell’esercizio di una perfetta libertà».30 «Il lavoro o mestiere, via via che il cristiano diviene perfetto, si trasfigura. Se prima era castigo (…) ora diviene segno profetico della vita futura».31
7. Lo scopo di ogni vocazione:
la missione

Nella diversità, anche profonda, di accento, rimane però chiarissimo un punto basilare comune: la vocazione specifica del laico è vocazione alla missione.
Il laico cristiano è colui che è chiamato a testimoniare Cristo nelle realtà del mondo. A testimoniare che lo Spirito del Risorto è l’unica forza capace di cambiare l’uomo a tal punto da renderlo soggetto di un’azione realmente trasfiguratrice di sé e del mondo. In questo senso - afferma don Giussani - la vocazione del laico è la vocazione della Chiesa stessa. Non c’è differenza. Perché lo scopo per cui esiste la Chiesa, così come già gli Atti degli Apostoli ce ne descrivono la vita, non è che la missione, la testimonianza della novità di Cristo, la diffusione del Suo Spirito nel mondo. Recita ancora il direttorio dei Memores Domini: «Uno solo è il compito che la vocazione istituisce: la missione, cioè la “passione di portare l’annuncio cristiano con la propria persona trasformata dalla memoria”. (…) Non si dà vita cristiana dignitosamente vissuta se non nella percezione della propria personalità come chiamata a questo compito, ad imitazione di Cristo stesso che si è incarnato “per” gli uomini».32
La vocazione del laico coincide tout court con la vocazione della Chiesa: mostrare al mondo Cristo Risorto, presente e visibile nella comunione dei battezzati, Suo mistico Corpo. Se così noi comprendiamo la natura della Chiesa, si capisce subito come
per Giussani, essere laico «non solo non è un “di meno”, ma in un certo senso tutto, nella Chiesa, è in funzione del laico. Perché tutto è in funzione della manifestazione, nel mondo, di quella “Gloria” che Cristo chiede al Padre all’inizio del 17esimo capitolo di san Giovanni».33 Il problema del ruolo del laico nella Chiesa, in una tale prospettiva, smette di essere un problema. E infatti paradossalmente, proprio in un movimento così fortemente laicale come Cl, non è mai stato sentito come tale. Negli esercizi di Lecceto dell’89 don Divo fa un’affermazione quasi identica. Scrive coi toni forti propri della sua inconfondibile “toscanità”: «La salvezza del mondo è opera soltanto del laicato cristiano (…). Per quanto riguarda la collaborazione alla Chiesa una, il compito dei laici è superiore al compito dei preti, dei vescovi, del Papa stesso. Non perché sia più importante, ma perché è più vasto. Un papa si deve contentare di dare delle direttive sul piano spirituale, perché il potere del sacerdozio ministeriale riguarda direttamente soltanto le anime; sui corpi e su tutto ciò che è temporale il suo potere è indiretto. (…) Mentre il laico ha un potere diretto. Potere diretto su tutto l’ambito della vita sociale, su tutto l’ambito della politica, su tutto l’ambito di una attività che riguarda i valori del mondo. È attraverso questo potere sacerdotale che ha il laico che tutto viene orientato verso il Cristo».34
8. Due personalità universali
cioè veramente cattoliche

A conclusione, devo ora dire la seconda ragione per cui ho accettato l’invito. È questa: una delle molte cose che accomunano Giussani e Barsotti è l’amore di entrambi per la Russia, dove da un anno mi trovo a lavorare. Un amore tutt’altro che sentimentale. Un amore radicato in uno studio appassionato e approfondito della grande tradizione spirituale russa, studio che ha caratterizzato in modo curiosamente parallelo la giovinezza di entrambi e ha lasciato, a mio avviso, pur in modi diversi, in entrambi un segno indelebile. Il primo libro di Barsotti, uscito nel ’49, è non a caso quel Cristianesimo russo di cui nel ’60 così scrive: «Il primo libro che ho scritto è stato sul cristianesimo russo. E Dio non ha mai permesso che io mi allontanassi da questo argomento, perché o lo studio dei Padri greci o la conoscenza della spiritualità orientale sono stati al centro di ogni mia preoccupazione. Ma oltre che una certa preoccupazione di studio, era un movimento spontaneo della mia anima che mi faceva sentire come la santità che Dio aveva realmente donato all’Oriente, era una santità normativa per me, prima che per gli altri». Negli stessi anni in cui Barsotti si appassiona alla spiritualità orientale, Giussani a Venegono si interessa allo studio della filosofia religiosa russa, da cui resta profondamente segnato. Dirà più tardi
di aver ricevuto dall’ortodossia russa soprattutto due idee centrali, quella di sobornost e quella di trasfigurazione. Mi sono fermato su questa coincidenza perché sono convinto che ci possa aiutare a illuminare ciò che di più profondo, al di sotto di temperamenti apparentemente molto diversi, per non dire opposti, accomuna don Giussani e don Divo Barsotti. E lo direi così: l’apertura veramente universale, cattolica della loro anima. Il dono di una spontanea, quasi nativa cattolicità, nel senso più intenso del termine: nel senso cioè di una capacità di raccogliere, valorizzare, integrare in sé tutto quello che di buono, di sano, di vero, di bello si incontra al di fuori di sé, anche nei luoghi più impensati. E ciò non per motivi strategici di conquista. Ma per quella «simpatia curiosa» (il termine è di don Divo) che domina l’anima cattolica veramente grande, verso tutto ciò che esiste: «Ex uno Verbo omnia et omnia loquuntur unum»: tutto l’esistente, sia in quanto realtà creata sia in quanto manifestazione autentica dell’umano, è fonte di arricchimento nella conoscenza dell’unico Verbo di Dio. Giussani a questo proposito citava sempre san Paolo: «Vagliate tutto, trattenete il Bello». L’interesse per il cristianesimo russo, maturato per entrambi in anni in cui un tale interesse era ancora tutt’altro che di moda, è solo un esempio. Ma si può e si deve citare l’amore dei nostri per il Leopardi. Non è un mistero che Giussani, ancora seminarista, recitasse come preghiera di ringraziamento dopo la Comunione, la poesia Alla sua donna. Non tanto poiché vi leggeva una inconsapevole profezia dell’Incarnazione, quanto perché la potenza poetica con cui il genio di Leopardi l’aveva espressa aiutavano la sua preghiera più di qualsiasi preghiera tradizionale. «Ho bisogno - scrive Barsotti - di tutta l’esperienza umana di un Leopardi, di un Manzoni, perfino di un Carducci e di un D’Annunzio, di un Ungaretti, per vivere io, anche come cristiano, non soltanto come uomo. Ho bisogno di questa esperienza, ho bisogno di questo pensiero, anche se è in gran parte estraneo al cattolicesimo (…). Io ho bisogno di tutto il mondo. Tutto il mondo deve essere integrato in me; io ho bisogno di avvicinarmi a tutto, di alimentarmi di tutto, perché in me tutto divenga cristiano».35

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