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domenica 30 gennaio 2022

padre Aleksandr Men

 


La copertina del volume di M. Kunin.

Oggi, a distanza di più di trent’anni dalla sua morte, in un contesto ben diverso da quello in cui padre Aleksandr è vissuto, ma contraddistinto da una non minore estraneità tra la società civile e il mondo culturale e gli ambienti ecclesiastici, è una casa editrice laica a pubblicare la sua prima biografia sistematica (che si aggiunge alla precedente, più scarna biografia di  Yves Hamant, del 1993, e ai numerosi testi di memorie usciti in seguito), nella prestigiosa collana «Vite di persone straordinarie».
Una biografia «laica» ma senza ambiguità, proprio come l’apertura di padre Aleksandr al mondo, alla realtà in tutti i suoi aspetti, vissuta come partecipazione allo sguardo di Dio sul reale, in un cammino di sequela, di amicizia a Cristo iniziato fin dalla tenera età.
L’autore, Michail Kunin, economista di formazione, legato al sacerdote da vincoli familiari di vecchia data oltre che personali, ha il merito di intessere un ricchissimo materiale (lettere e scritti di padre Aleksandr, memorie e testimonianze in parte già pubblicate e in parte inedite) nella trama del tempo con grande onestà, nelle vesti di «testimone di un dialogo – come ha detto lui stesso presentando il volume alla “Biblioteca dello spirito” – che si svolge via via tra padre Aleksandr e le persone a lui più intime – la madre Elena, la zia Vera Vasil’evskaja, gli amici del tempo degli studi e del sacerdozio».

«La stella della vocazione»

Filo conduttore della narrazione, che si sviluppa in quasi 600 pagine, è la consapevolezza di una «chiamata» che il dodicenne Alik avverte distintamente il 7 settembre 1947, quando, vedendo nell’aria un gigantesco pallone aerostatico con il ritratto di Stalin, si rende conto che «solo il cammino verso Dio e l’amore di Cristo potevano diventare per gli uomini la stella che li guidava, nonostante il terrore e l’ideologia che si era insediata nel paese come fondamento della visione del mondo, ed era un surrogato, una caricatura della religiosità autentica».

Questo episodio, collocato dall’autore in apertura del testo, sarebbe stato poi così commentato dallo stesso padre Aleksandr: «È successo ad un certo punto, al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, quando sentivo molto acutamente il non senso e la distruttività del mondo.

Riempivo i quaderni di versi quantomai tetri, che non erano dettati da un pessimismo innato, ma dalla scoperta della “verità della vita” come si presenta se si mette “tra parentesi” il Significato supremo. E allora apparve Cristo. Apparve interiormente, ma con una forza tale che non la si può chiamare altrimenti che forza della salvezza.

Fu allora che udii un richiamo che mi chiamava a servire, e feci voto di fedeltà a questa vocazione. Da quel momento ha determinato tutti i miei interessi, contatti e occupazioni. Insieme a questo è nata la decisione di diventare sacerdote. Ho riconosciuto un numero incalcolabile di volte la Mano che mi guidava. Il suo agire si manifestava anche nelle piccolezze. Mi ricordava le tessere di un mosaico, che va componendosi su un disegno già preparato. E su tutto – se vogliamo usare un linguaggio alato – rifulgeva la stella della vocazione».


Un momento della presentazione del libro alla «Biblioteca dello spirito»: al centro il fratello Pavel Men’, a destra l’autore .

In questa chiave l’autore delinea le fasi principali della vita del sacerdote. Dopo il battesimo e i primi passi nella vita cristiana all’interno della comunità catacombale di padre Serafim Batjukov, nel 1945, quando la Chiesa ortodossa ha la possibilità di eleggere un patriarca e si ricompone il doloroso scisma creatosi in epoca sovietica, Elena Men’ e i due figli, Alik e Pavel, ritornano in qualche modo alla normalità della vita religiosa; i due fratellini restano sbalorditi «vedendo la chiesa piena di gente e ascoltando i fedeli che cantavano tutti in coro il Credo – ricorda la zia Vera, che li aveva accompagnati la prima volta alla liturgia. – Non avevano mai visto né sentito niente del genere».

Si rende ben presto evidente, tuttavia, la precarietà della situazione, perché con l’accusa di «attività antisovietica» vengono arrestati molti amici appartenenti alle comunità frequentate dalla famiglia Men’; ricorderà anni dopo Pavel, che all’epoca non aveva neppure dieci anni: «In casa c’era un’apposita scatola, dove la mamma metteva i soldi per i prigionieri, i poveri, i malati. Ma anche noi bambini sapevamo a che cosa serviva. Con quei soldi comperavamo generi alimentari, indumenti, e poi spedivamo pacchi nei lager e ai luoghi di confino. Siccome a Mosca non accettavano i pacchi con alimentari, io andavo a Mytišči a spedirli… Infatti, a nessuno sarebbe venuto in mente di chiedere a un bambino: dove vai, che cosa porti?».

I due ragazzini avrebbero sempre ricordato le parole della mamma: «Se qualcuno ti chiede qualcosa, sappi che è come se Cristo fosse venuto da te, e cerca di fare tutto quello che puoi».




La famiglia Men’: da sin. il padre Vladimir, i piccoli Alik e Pavel, e la madre Elena. (alexandrmen.ru)

Dell’adolescente Aleksandr sono rimasti molti ricordi impressi nella mente dei suoi familiari e amici: la sua vivida intelligenza, il suo interesse per tutto lo scibile, ma in particolare per le scienze naturali e la filosofia, e il suo desiderio di condividere le proprie scoperte, letture, esperienze.

Ad esempio, una volta la mamma va a trovarlo in ospedale, dov’era ricoverato per una forma acuta di tonsillite, ed entrando nella sua camera, piena zeppa di pazienti e personale, assiste a questa scena: «Alik in piedi sul letto, teatralmente avvolto in un lenzuolo, con la gola fasciata e il lenzuolo addosso, sta parlando animatamente ai suoi spettatori non so più se di Ponzio Pilato o di qualche eroe dell’antichità classica, mentre il “pubblico”, dimentico di tutto, ascolta trattenendo il fiato».

Il suo desiderio di mettersi al servizio del «mondo» è segnato, in particolare, da un episodio avvenuto intorno ai 15 anni. Era il 31 dicembre, tutt’intorno la città rumoreggiava preparandosi a festeggiare il capodanno; Alik era rimasto in chiesa, assorto in preghiera, dopo la liturgia, quando si sentì chiamare sommessamente dal sacerdote:

«È un bene che tu ami Dio, la chiesa e la liturgia. Ma non sarai mai un vero pastore se le gioie e i dolori di quanti vivono nel mondo ti resteranno estranei…».

«Da quel momento – ricorda Sofija Rukova, sua amica e futura direttrice del coro della sua parrocchia a Novaja Derevnja – fu come se Alik rinascesse a nuova vita, facendosi tutto a tutti, ma in primo luogo ai sofferenti, tribolati, a chi aveva perso la fede, la speranza, l’amore».








Nell’agosto 1951, al centro, con gli amici Igor’ e Vitja. (alexandrmen.ru)

Agli inizi del 1954, iscrittosi alla facoltà di biologia, Aleksandr incontra Natal’ja Grigorenko, che qualche anno dopo sarebbe divenuta sua moglie. Riandando a quei primi mesi, Natal’ja l’avrebbe dipinto come un ragazzo «piuttosto strano, con un cappello a tesa larga e l’immancabile borsa a tracolla. E per di più si faceva crescere la barba, cosa quantomai esotica a quei tempi. A me non dispiaceva, ma i ragazzi del nostro gruppo mi dicevano: “Ma che ti sei messa a fare con quello lì? Sta’ attenta, è un tipo strano”. La borsa non la lasciava mai, aveva dentro la Bibbia, se la portava in giro e la leggeva dappertutto. In istituto l’avevano addirittura battezzato “il borsa”. E alle feste, se qualcosa non gli andava, scivolava sotto il tavolo e dormiva, con la borsa sotto la testa come cuscino. Mi aveva avvisato fin dall’inizio che era credente, mi aveva detto: “Ho in progetto di farmi prete”. E io gli ho risposto: “Se è quello che vuoi, fallo”».

La consapevolezza della missione a cui era chiamato, senza nulla togliere al calore e alla simpatia dei rapporti umani, spingeva Aleksandr a custodire il rapporto privilegiato con Dio anche a costo di sacrifici, dettandogli concretamente tempi e modi della vita quotidiana, ad esempio un ben preciso «regime di vita» che prevedeva studio, letture e preghiere.

«In gioventù, in qualunque compagnia, per quanto interessante, a un certo punto dicevo: “Bene, io vado”. A volte per questo mi guardavano come un mostro…», avrebbe ricordato in seguito. In realtà, i suoi compagni di università a Mosca e poi a Irkutsk, pur stupiti da questo ragazzo che nel tempo libero non faceva che «leggere, prendere appunti, scrivere», si schierano decisamente dalla sua parte quando l’occhio vigile del KGB intuisce in Aleksandr un elemento «estraneo» e cerca di ottenere informazioni su di lui: «…Venimmo così a sapere che Men’ era credente e legato alla Chiesa ben più seriamente dei normali parrocchiani – ricorda una sua compagna di studi, Valentina Bibikova. – La reazione fu unanime: sono questioni sue, noi comunque gli vogliamo bene.
Anzi, cominciammo a essere ancora più cordiali con lui, non perché fosse credente, ma perché lo vedevamo così intelligente e determinato. E inoltre volevamo salvarlo dal pericolo, per questo diventammo ancora più amici.

Lui non faceva alcuna propaganda religiosa, semplicemente smise di nascondere che era credente».

Sono gli anni in cui Aleksandr porta a termine la prima redazione del libro su Gesù Cristo che lo accompagnerà per tutta la vita, Il Figlio dell’Uomo.











Con la fidanzata Natal’ja, negli anni ’50. (alexandrmen.ru)

La stessa determinazione traspare nella corrispondenza con la fidanzata Natal’ja: Aleksandr vede possibile per sé il matrimonio unicamente dentro una dedizione comune a Dio.
Scrive, il 7 novembre 1955: «…Dopo lunghe riflessioni e osservazioni ho preso la decisione definitiva: dopo essermi diplomato, più o meno, voglio dedicarmi ufficialmente alla cosa che mi ha attratto per tutta la vita. La biologia resterà come un interesse personale. Se vogliamo vivere insieme in futuro, sorgono queste difficoltà (in caso contrario, tutto è risolto): innanzitutto, voglio avere in te una compagna che condivida le mie idee, convinzioni e ideali. Inoltre, tieni conto che, naturalmente, il mio passaggio a uno status ufficiale si ripercuoterà sulla tua posizione. Infine, qualunque genere di difficoltà io possa incontrare, si riverseranno anche su di te.

La soluzione di questi tre problemi può essere, secondo me, una delle seguenti: puoi subito tirarti indietro, in tal caso la tua lettera di risposta sarà l’ultima, e noi smetteremo di vederci. Oppure, sei già d’accordo su tutto, cosa che mi sembra difficile.
Infine, terza variante, se sei d’accordo in linea di massima, puoi prenderti il tempo di pensarci su e di riflettere con calma su tutto, almeno finché non tornerò quest’estate.
Perché prendo così di petto la cosa? Perché ho deciso definitivamente che il nostro rapporto esige un impegno da subito, che ormai non possiamo più accontentarci di dire “vedremo”… Aspetto con impazienza che tu mi risponda, carissima. Ti bacio, Alik».

Aleksandr e Natal’ja si sarebbero sposati nel 1956. Dopo alterne vicende, tra cui l’espulsione dall’università alla vigilia della laurea, a causa delle sue convinzioni, Aleksandr Men’ sarebbe stato ordinato sacerdote il 1° settembre 1960.

Nei trent’anni del suo ministero pastorale (fino al mattino del 9 settembre 1990, quando sarà ucciso da ignoti poco dopo essere uscito di casa per recarsi a celebrare nella sua parrocchia, a Novaja Derevnja), padre Aleksandr vive realmente al cuore della Chiesa, travagliata da pesanti ingerenze dello Stato che a tratti si trasformeranno in vere e proprie repressioni, da crisi e problemi al proprio interno, ma anche animata da un processo di rinascita che nel tempo assumerà forme e modalità diverse.

La paternità che il giovane sacerdote sperimenta nel rapporto con vescovi-confessori della fede come Ermogen Golubev e Afanasij Sacharov; il rapporto con il gruppo di giovani progressivamente riunitosi intorno ad Anatolij Vedernikov, uno dei pilastri della rinascita delle strutture patriarcali dopo il ’45; la fedeltà all’amicizia con due sacerdoti suoi coetanei, Gleb Jakunin e Nikolaj Ešliman, che si fanno promotori di una coraggiosa denuncia dei mali della Chiesa, e il tentativo di aprire un dialogo reale e rispettoso con le autorità ecclesiali; l’impegno pastorale ed educativo non solo nelle parrocchie dove viene inviato, ma anche nei confronti di un numero sempre maggiore di persone che gli si rivolgono per un consiglio e un aiuto nella vita spirituale; il lavoro di redattore e autore di strumenti catechetici, di testi di teologia e di biblistica; l’aiuto a tradurre e far circolare autori letterari cristiani come Chesterton, Lewis, Cronin, Graham Greene; l’apertura ecumenica e la rete di amicizie in ambito cattolico e protestante, possono essere ricondotti all’unico intento di rispondere alla missione a cui era chiamato, e che aveva così formulato agli inizi del suo ministero, ad Alabino:

«Dopo essere diventato sacerdote, ho sempre cercato di unire la parrocchia, di farne una comunità, e non un’accolta casuale di persone che si conoscono appena. Ho cercato di far sì che ci si aiutasse, si pregasse insieme, insieme si imparassero la Scrittura e i fondamenti della fede, insieme ci si accostasse alla comunione.

Volevo che la fede non distogliesse nessuno dalla vita, non spegnesse gli interessi intellettuali e culturali, che diventando cristiane, le persone si arricchissero, e non si impoverissero spiritualmente, che non


Padre Men’ con alcuni giovani. (Facebook alexandrmenfond)

Aggrappati al cielo

Si ha l’impressione, sfogliando le pagine della biografia, che pur lavorando sempre in parrocchie sperdute, di provincia, padre Aleksandr abbia in qualche modo incrociato la vita di innumerevoli personalità del suo tempo, della vecchia e della nuova generazione, tanti sono i nomi che ne emergono – Solženicyn, Aleksandr Galič, Nadežda Mandel’štam, Marija Judina, Ljudmila Ulickaja – per non citarne che alcuni, più noti al lettore occidentale.

Per molti, come il cantautore Galič, l’incontro con lui segnò una svolta: «Nel samizdat mi capitò un testo di padre Aleksandr, e mentre lo leggevo ebbi l’impressione non fosse semplicemente un uomo di straordinaria intelligenza e talento, ma avesse il “dono della presenza”… Ad esempio, narrando la vita del profeta Isaia, non scriveva da storico, ma da testimone, partecipe. Era lì, al tempo, nelle città in cui predicava Isaia. Lo udiva, gli camminava accanto per strada… Ed ecco che un bel giorno decisi di andare da lui, volevo vedere com’era fatto…
Assistei alla liturgia, ascoltai l’omelia, poi insieme a tutti i fedeli andai a baciare la croce. E qui avvenne un piccolo miracolo. Forse esagero, forse non era un miracolo, ma in fondo all’anima mi piace pensare che fosse proprio un miracolo. Mi avvicinai, mi chinai a baciare la croce. Padre Aleksandr mi poggiò la mano sulla spalla e disse: “Buongiorno, Aleksandr Arkad’evič. È tanto che la stavo aspettando. Che bello che sia venuto”».

Di lì a poco, Galič avrebbe ricevuto il battesimo e poi – nell’emigrazione – avrebbe  ricordato quella chiesetta sperduta come la sua casa natale, in una canzone divenuta famosa, Quando tornerò.

«Quando tornerò… Tu non ridere / quando io tornerò, quando senza sfiorare la terra coi piedi, correrò sulla neve di febbraio seguendo tracce lievi, verso il tepore, un tetto per dormire,
e tremando di felicità mi volterò alla tua voce, richiamo di tortora.
Quando tornerò, oh, quando tornerò…» (A. Galič)

 

Ai nomi più noti si aggiunge la massa delle persone semplici, dei parrocchiani, dei lettori dei suoi libri, che ben presto cominciarono a circolare in tutta l’URSS sotto forma di samizdat o tamizdat. A pubblicare in Occidente con pseudonimo i testi di padre Aleksandr e a farli avere fortunosamente in Unione Sovietica fu principalmente la casa editrice belga La vie en Dieu.

Così ricordava l’inizio della loro collaborazione la direttrice, Irina Posnova: «Ricevuto il suo primo dattiloscritto, non eravamo sicuri che fosse destinato a noi, e gli chiedemmo conferma delle sue intenzioni. Gli facevamo presente che la nostra editrice era cattolica, e univa insieme, prendendo a modello Vladimir Solov’ëv, la fedeltà a Roma alla fedeltà alle tradizioni della Chiesa orientale e alla collaborazione fraterna con gli ortodossi. Ricevemmo questa risposta:

Sappiamo che siete cattolici, ma questo non ci preoccupa affatto, al contrario ci rallegra, perché è venuto il momento di liberarsi dagli steccati confessionali, che ci ostacolano nell’adempiere la volontà di Cristo che i cristiani siano uniti”».

È sterminata la messe di testimonianze di parrocchiani e figli spirituali che ricordano colloqui e confessioni con lui. «…Sorrideva, mi abbracciava e diceva: “Come sono contento che sia venuto. Preghiamo insieme” – scrive uno di loro. – E poi, prima che aprissi bocca diceva quello che avrei dovuto dire io. Non che io tacessi, ma lui mi leggeva nell’anima come in un libro aperto. E così capitava anche agli altri».
E un altro, che gli chiedeva come fare per non avere paura, in tempi in cui ai cristiani si richiedeva una risolutezza che lui si sentiva ben lungi dall’avere, il padre risponde:

«Solo l’asino non ha paura, non vede i pericoli e va avanti alla cieca. Il coraggio invece deve avere gli occhi aperti».
Ma questo coraggio lo si può ottenere «“solo così”, continuava padre Aleksandr indicando con il gesto della mano l’alto. Un gesto più eloquente di qualunque discorso. “State aggrappati al Cielo”, ci ripeteva spesso».

A una parrocchiana che in confessione si era attardata a parlare delle mancanze di una conoscente, e si aspettava una replica che le tappasse la bocca, del tipo «impara a pensare a te stessa», padre Aleksandr dà invece una risposta che non lascia scampo, urge alla carità: «Tutto vedere, tutto comprendere e tutto perdonare».

Infine, in un’altra occasione, esorta un neofita pieno di sacro zelo: «Mi sembra che oggi il compito principale dei cristiani non sia combattere l’ateismo… Sarebbe una battaglia


(alexandrmen.ru)

Anche i «piccoli gruppi», da lui costituiti per dare ai fedeli la possibilità di ritrovarsi nelle case e vivere un’esperienza di preghiera e condivisione di vita, rispondono all’esigenza di aprirsi al mondo e di irradiarvi l’annuncio cristiano: «Oggi – spiegava – spirano venti gelidi, e la fede non può essere un caldo, comodo rifugio in cui mettersi al riparo dalle tempeste e dai disagi del mondo. Ed è giusto che sia così, perché i cristiani hanno ricevuto in dono la forza della vita e la forza della speranza, e non l’ennesimo anestetico con cui proteggersi… Se non dimostriamo a Marx che la religione per noi non è oppio, siamo dei cattivi cristiani».

«Nella mia vita tutto è sempre ruotato intorno a Cristo Dio, che dialoga perennemente con noi. Non ho mai provato il desiderio di voltarmi indietro, una volta messo mano all’aratro. Dio mi ha aiutato in maniera chiara e impercettibile. Del bagaglio per il mio futuro servizio è entrato a far parte tutto: ciò che ho appreso nel campo dell’arte, della scienza, della letteratura, del sociale. Perfino difficoltà e prove si sono rivelate provvidenziali.

Sebbene dall’esterno potesse sembrare che da ragazzo avessi un ampio spettro di interessi, di fatto erano tutti subordinati a un unico scopo… È sbagliato pensare che non abbia mai avuto la tentazione di vivere un cristianesimo chiuso nel proprio recinto, bastante a se stesso, che abbia fatto le mie scelte seguendo semplicemente l’inclinazione del carattere.
Al contrario, più di una volta ho dovuto farmi forza, superare me stesso per rispondere alla chiamata che sentivo dentro di me. Ho veduto più volte come siano reali le forze della luce e delle tenebre, e sono ben consapevole di non essere altro che uno strumento, che il merito di ogni successo è di Dio. Ma per l’uomo non esiste felicità più grande di essere uno strumento nelle sue mani, di essere fatto partecipe dei suoi disegni».

Queste parole, con cui padre Aleksandr esprime in qualche modo il suo «credo», illustrano con particolare efficacia l’ultimo decennio della sua vita, che assume tinte drammatiche sullo sfondo delle recrudescenze nella repressione dei credenti sotto Andropov: per anni il sacerdote viene convocato sistematicamente a colloquio presso il KGB; all’interno della parrocchia si susseguono arresti, e viceversa persone che sembrano amici e fidati collaboratori si rivelano informatori dei servizi segreti, ricattati a motivo di vicende personali o facendo leva su rivalità, gelosie e così via.

In questa atmosfera di paure e sospetti, padre Aleksandr mantiene la sua calma e serenità, ripetendo: «Se siamo necessari al Signore, ci custodirà anche se siamo appesi a un filo». Quando gli chiedono cosa prova varcando la porta dell’ufficio in cui viene interrogato, risponde: «No, non ho paura. Solo che, ogni volta che entro, non so se uscirò di lì oppure no».

Viene salvato, letteralmente a un passo dall’arresto dopo l’uscita sulla stampa di due durissimi articoli di denuncia nei suoi confronti, nel marzo 1986, dall’intervento di Raisa Gorbačëva, colpita dai suoi volumi Storia della religione, ricevuti in dono dall’accademico Lichačëv insieme alla notifica che l’autore era in grave pericolo. Da quel momento il sacerdote non sarà più convocato dal KGB.


solo esteriore. È molto più utile combattere il


Padre Men’ in una foto degli ultimi anni. (Facebook alexandrmenfond)

Gli ultimi anni della vita di padre Aleksandr, segnati da una frenetica serie di interventi pubblici sulla stampa, alla televisione e nei centri culturali, che nell’euforia della perestrojka fanno a gara per invitarlo, sono anche, in un certo senso, i più misteriosi. Non sapremo mai che percezione avesse delle minacce che incombevano su di lui da parte delle «forze delle tenebre» e che avrebbero trovato il loro tragico epilogo nell’assassinio (un assassinio che attende ancora di conoscere esecutori e mandanti), e come avesse maturato in cuor suo la decisione di restare fedele alla sua missione fino all’ultimo respiro, senza cercare in nessun modo di sottrarsi alla sua sorte.

Poche ore prima della morte, tenendo una lezione pubblica alla Casa della scienza e della tecnica in via Volchonka, aveva detto: «Dal momento in cui il Figlio dell’Uomo ha preso su di sé le nostre debolezze e infermità, le nostre gioie e le nostre sofferenze, la nostra creatività, il nostro amore, il nostro lavoro, ha assunto il nostro destino umano – da allora la natura, il mondo, tutto ciò che in Lui consiste, in cui Egli è nato come uomo e come Dio fatto uomo, non è più negletto, vilipeso, ma innalzato a nuova dignità, santificato.
Il cristianesimo è la santificazione del mondo, la vittoria sul male, sulle tenebre. Una vittoria che è iniziata la notte della Resurrezione, e non avrà mai fine, finché durerà il mondo».

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Giovanna Parravicini

Ricercatrice della Fondazione Russia Cristiana. Specialista di storia della Chiesa in Russia nel XX secolo e di storia dell’arte bizantina e russa. A Mosca ha collaborato per anni con la Nunziatura Apostolica; attualmente è Consigliere dell’Ordine di Malta e lavora presso il Centro Culturale Pokrovskie Vorota. Dal 2009 è Consultore del Pontificio Consiglio per la Cultura.

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