Da diciotto anni porto all’anulare l’anello di fidanzamento. Non amavo i gioielli:
sulle prime quel diamante mi colpì meno della promessa che rappresentava. Solo col tempo ho capito perché un diamante è bello. La prima scoperta è stata una sera in una sala d’attesa, mentre aspettavo una visita medica che mi preoccupava, e le lancette dell’orologio non avanzavano mai. Dunque in quella sera di inquietudine mi sono accorta che negli ambienti in penombra un diamante cattura l’unico raggio di luce. O forse è il raggio, che inesorabilmente attratto dal diamante lo attraversa, mentre quello lo scompone e lo seziona nei sette colori dell’iride. Così, seduta in una sala d’aspetto, ho cominciato a giocare: la banale luce di una lampada, afferrata dalla pietra, veniva come chimicamente divisa e ricondotta alle sette sue radici. Se inclinavi di un millimetro l’anello, ecco il raggio luccicare nello splendore ardente di un identico arcobaleno: dal rosso ardente fino al palpitare notturno di azzurro, indaco, viola.
Gioco ipnotizzante e fantastico, come un piccolo sole prigioniero fra le mani. E solo ora capivo perché gli uomini fanno pazzie per i diamanti: luce che si infiamma nell’ombra e si rivela nella sua verità. Nei viaggi notturni, nelle attese in stazioni e aeroporti, quante volte quello sfavillio mi ha incantato. E quando mia figlia aveva due anni, per tenermela buona a Messa, le mostravo il bagliore al mio dito (azzurro, indaco, viola…). E lei sedotta, lei che allungava la mano paffuta ad afferrare l’alchimia chiusa dentro una pietra. Mia figlia bambina affascinata dalla luce di un diamante, come re e regine e principi e sudditi e briganti, da millenni.
Allora ho cercato di studiare. Questo sasso, cos’è? È magia vecchia di milioni di
anni: fra tutte le materie, una delle più antiche. Carbonio puro, come la umile grafite
delle matite. E parente, incredibile, anche del povero opaco carbone. Gli stessi atomi, ma legati in una struttura diversa. Il carbone incenerisce nei camini, il diamante è “adamas”, in greco: l’invincibile. Eppure nemmeno il blasone primordiale mi spiegava del tutto l’incanto di quella luce. Ma l’altro giorno mi sono imbattuta in questa frase di Vladimir Solov’ëv: «Che cos’è la bellezza? Guardate il carbone e il diamante. Il carbone e il diamante chimicamente sono lo stesso. Perché il carbone è brutto e il diamante è bello? Perché il carbone fissa tutta l’attenzione a se stesso, mentre nel diamante si vede il sole e tutta la luce: attraverso di esso si vede qualche altra cosa, superiore alla pietra, che la fa bella». La più stupefacente bellezza dunque è quella che si lascia attraversare da un’altra bellezza, più grande. Totalmente, senza
opporre resistenza, né trattenere il raggio che non le appartiene. E in quel passaggio la luce si svela: dal rosso sangue al giallo del sole allo zenith, fino al tramonto indaco
e viola. La materia più dura, più invincibile, si fa interamente trapassare dalla luce. E in quell’istante di docilità, la rivela. «Luce incarnata», così Solov’ëv chiama il bagliore che mi incanta. (Come se la luce avesse avuto bisogno della materia, per potersi svelare).
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