lunedì 30 aprile 2012
Il saggio di Alain Finkielkraut su Charles Péguy è stato finalmente pubblicato in italiano. Si intitola L’incontemporaneo. Non,
si noti, l’anti-contemporaneo, perché la posizione del poeta di
Giovanna d’Arco nei riguardi del nostro mondo non è quella di una
condanna ideologica che conduce a un tradizionalismo regressivo. Péguy è
non-contemporaneo in quanto lui, perfettamente consapevole della
mentalità in cui siamo immersi, attinge però a una visione al contempo
più antica e più innovativa: quella classica e cristiana.
Per esemplificarlo Finkielkraut
evidenzia alcune pagine nelle quali Péguy fa un confronto tra il
rapporto che l’uomo moderno - ciascuno di noi - ha con la materia e
quello che invece avevano gli antichi. Scrive Péguy: «Se un italiano di
una cava di Carrara dava un solo colpo di martello di traverso, era
sufficiente questo solo colpo di martello di traverso perché attraverso
questa decisione irrevocabile quel cavapietre decidesse per l’eternità
temporale di quel marmo. Nell’operazione della vecchia materia tutto
conta. E tutto conta per sempre. Tutto è irrevocabile. Tutto è non
disfacibile. Tutto è inesorabile: dunque tutto è eterno. Da qui il
rispetto».
Il moderno, invece, ha a che fare col
ferro (siamo agli inizi del Novecento) e il ferro è malleabile,
disponibile, sempre rimodellabile a piacimento. Ne deriva che il moderno
non ha più rispetto per la realtà che manipola, la pensa come qualcosa
di illimitatamente a disposizione del suo desiderio, dei suoi pensieri e
delle sue voglie. Se ne concepisce come padrone indiscusso. Commenta
Finkielkraut: «L’uomo prima rispondeva, ora ordina; prima era in
rapporto, ora parla da solo; prima accoglieva, ora concepisce, calcola,
pianifica e programma; prima dipendeva, ora regna. Per l’uomo non c’è
più l’essere in quanto altro, ma l’essere come prolungamento di se
stesso».
È evidente quanto l’intuizione di Péguy
sia stata profetica. Con l’avanzare della tecnologia anche il ferro è
invecchiato e ben altre possibilità di manipolazione sono oggi
consentite all’uomo contemporaneo. Basta pensare al virtuale (ho letto
l’altro giorno che un buon numero di messaggi su Twitter non sono
scritti da persone fisiche, ma da appositi programmi), o allo sviluppo
delle tecnologie mediche per cui la nascita stessa sembra trattabile
come una qualsiasi altra produzione e con le stesse possibilità di
predeterminare le caratteristiche del prodotto.
Le frontiere dello
sviluppo tecnologico - che Péguy non demonizza - pongono una questione
radicale. Se, cioè, l’uomo vorrà continuare a riconoscere il suo status
di creatura, cioè di chi non si fa da sé, né da sé produce la realtà,
oppure se cederà all’irragionevole pretesa di pensarsi creatore. Per
dirla con Péguy: «La creazione è abbastanza infinita, partecipa
abbastanza dell’infinità del suo creatore per cui non c’è bisogno di
andare a divertirci e a perdere il nostro tempo, a perdere la nostra
vita, e, chissà, a perderci, noi stessi, immaginando, fingendo, facendo,
forgiando, fabbricando dei mondi, altri mondi, dei mondi del tutto
fittizi e immaginari».
Anche perché alla fine il mondo così
com’è, come l’uomo l’ha ricevuto e non prodotto, se viene troppo
malmenato finisce per ribellarsi. Contro l’uomo.
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