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giovedì 24 maggio 2012

Le lettere dal deserto

Le lettere dal deserto


A dieci anni dalla morte del poeta livornese. C’è stato Qualcuno un tempo, che ha fatto compagnia all’uomo. Ora di quella storia sembra rimasto solo il racconto. E nel deserto le parole non fanno compagnia


di Paolo Mattei

Dieci anni fa, il 22 gennaio del 1990, si spengeva a Roma Giorgio Caproni, una delle più significative voci poetiche del Novecento. Nato a Livorno nel 1912, a dieci anni si trasferì a Genova, dove compì studi irregolari e svolse mestieri disparati. Nel 1939 fu a Roma, poi in Valtrebbia come partigiano ai tempi dell’occupazione nazista. Nell’Urbe trascorse il resto dei suoi anni facendo il maestro elementare (a Monteverde, quartiere in cui visse Pasolini, del quale fu amico), collaborando con riviste e traducendo specialmente dal francese (Maupassant, Céline, Proust, Genet ed altri). Lontana da ogni intellettualismo e da ogni virtuosismo, costituita da un linguaggio semplice e quotidiano, la poesia di Caproni possiede una straordinaria grazia comunicativa, una delicatezza e una musicalità che la rendono unica, originalissima e inconfondibile nel panorama letterario del XX secolo. Nel 1995 la sua opera poetica completa (1932-1990) è stata raccolta in un volume della collana i Meridiani della Mondadori.
Giorgio Caproni (1912-1990)
Giorgio Caproni (1912-1990)
Caproni scrisse poesie nel deserto. Il deserto della realtà. L’epigrafe posta ad introduzione della raccolta Il muro della terra (1964-1975) è una frase di Annibal Caro (il letterato del Cinquecento ricordato ormai da pochissimi soltanto per la sua “bella infedele” versione manierista dell’Eneide): «Siamo in un deserto, e volete lettere da noi?». Il deserto è un luogo in cui un tempo c’è stata la vita, un luogo una volta rigoglioso e pieno, ed ora abbandonato (dal latino desero, “abbandono”): «Lo abbiamo/ lasciato passare diritto/ davanti a noi.// E solo/ quand’è scomparso, il deserto/ ci è apparso chiaro.// Che fare […] Abbiamo/ scosso le spalle./ Faremo,/ ci siamo detti, senza/ di lui.// Saremo,/ magari, anche più forti/ e liberi.// Come i morti» (Determinazione, in Il franco cacciatore, 1973-1982). C’è stato Qualcuno nel deserto, Qualcuno è passato. Il suo passaggio è stato registrato dal mondo, i suoi connotati memorizzati («Apparve (sulla trentina,/ di strano colorito) un tizio/ (certo, di razza non latina) da me mai prima visto/ né conosciuto.// “Mi chiamo”,/ mi fece, “Gesù Cristo”», Mancato acquisto, in Res amissa, 1991), il suo nome e le sue generalità pure: Dio, Gesù Cristo, Figlio di Dio. Archiviata, infine, la sua scheda segnaletica. Quasi nessuno ormai nega più che sia avvenuto questo passaggio. Quasi nessuno più contesta l’esistenza di Dio. «Se Dio c’è o non c’è è questione secondaria» ha scritto il poeta livornese. Aggiungendo poi: «Il difficile è stabilire, ammessane l’esistenza, il suo rapporto con l’uomo» (Res amissa). Questa è la constatazione drammatica della poesia di Caproni. C’è stato Qualcuno, un tempo, che ha fatto compagnia all’uomo nel deserto della vita. Ora di quella storia sembra rimasto solo il racconto. Sembrano rimaste soltanto le parole che, da sole, non fanno compagnia in un deserto. Possono generare «pungente e senza condono la spina della nostalgia», o provocare – quando pronunziate con tonitruante arroganza magari anche da un ambone – fastidio e repellenza: «Gridava come un ossesso./ “Cristo è qui! È qui!/ LUI! Qui fra noi! Adesso!/ Anche se non si vede!/ Anche se non si sente!”// La voce, era repellente» (Telemessa, in Il franco cacciatore, 1973-1982). Nel deserto in cui riconosceva di trovarsi a vivere, Caproni ha scritto le sue poesie leggere e sommesse, le sue facili, «elementari» rime, i suoi cantabili versi raccontando le piccole e grandi cose, le esperienze e le persone che costituirono la trama della sua vita: le due amate città (Genova e Livorno), la madre, la morte, il viaggio. Nei suoi versi, tutto risulta venato da un senso di nostalgia per un “tu” assente a cui continuamente il poeta si rivolge. Anche, talvolta, sentenziandone con amarezza l’inesistenza. Ma proprio così, evidentemente invocandone la presenza: «Prego (e in ciò consiste/ – unica! – la mia conquista)/ non, come accomoda dire/ al mondo, perché Dio esiste:/ ma, come uso soffrire/ io, perché Dio esista» (Lamento (o boria) del preticello deriso, in Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, 1960-1964).
La «franchezza» è la cifra più significativa della sua poesia: «L’unica linea di svolgimento che vedo nei miei versi» ebbe a dire Caproni «è la stessa “linea della vita”: il gusto sempre crescente, negli anni, per la chiarezza e l’incisività, per la “franchezza”, e il sempre crescente orrore per i giochi puramente sintattici o concettuali, per la retorica che si maschera sotto tante specie, come il diavolo, e per l’astrazione dalla concreta realtà. Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto». D’altronde nel deserto in cui Caproni riconosce di trovarsi, essendo per eccellenza il luogo in cui il superfluo non ha diritto di residenza, se appare qualcosa la si vede. È un luogo che rende assurdo ogni moralismo, ridicolo il perseguimento di progetti, anche in campo letterario, pleonastici e ridondanti. Disse Pasolini parlando di Caproni: «Com’è libero questo poeta da moralismi, da tesi: in questo senso uno degli uomini più liberi del nostro tempo letterario». La poesia di Caproni racconta di cose e persone amate di un amore semplice, punto da nostalgia, screziato da un’ultima tristezza. Anche l’affetto più puro, più gratuito è segnato dalla paura della morte. Commoventi in questo senso sono i Versi livornesi (da Il seme del piangere, 1952-1958), dedicati alla madre che è in essi sorpresa nel suo quotidiano recarsi al lavoro, da giovane. Il poeta la immagina come una ragazza lieta, meravigliosa e fresca che illumina col suo passaggio antelucano le vie di Livorno. In lei, così viva e felice, subito, il presentimento d’un’ombra: «Prendeva a passo svelto,/ dritta, per la Via Palestro,/ e chi di lei più viva,/ allora, in tant’aria nativa?// Livorno popolare/ correva con lei a lavorare./ Né ombra né sospetto/ era allora nel petto». L’assenza che riempie di nostalgia tutta la realtà è poeticamente dichiarata nel titolo dell’ultima raccolta di liriche dell’autore livornese: Res amissa, la cosa perduta. Come la grazia “amissibile”, che si può perdere: «Può capitare a tutti» spiegava Caproni in un’intervista dell’89 «di riporre così gelosamente una cosa preziosa da perdere poi la memoria non soltanto del luogo dov’è stata collocata, ma anche della precisa natura di tale oggetto […]. Un Bene del tutto lasciato ad libitum del lettore, magari identificabile, per un credente, con la grazia, visto che esiste una “grazia amissibile”. Con la grazia o con chissà che altro del genere. (Non è comunque, quest’ultimo, il caso mio, credo)». Forse è la possibilità di un incontro umano, con Qualcuno che sia compagnia presente fisicamente nel deserto della vita, il Bene di cui ha parlato Caproni nei suoi versi. Qualcuno che non sia solo un nome pronunciato con nostalgia o – come fa il chierico della citata Telemessa – con livore. Oppure, come ormai nella maggior parte dei casi, con indifferenza.
C’è l’accento di una preghiera in certe sue poesie. Che da qualche parte, in questo deserto, ci si possa imbattere (in una bettola davanti a un bicchiere di vino o in un magazzino: queste le occasioni semplici e banali suggerite in alcune liriche) in una presenza umana che gratuitamente rechi «il dono della libertà». Con un gesto semplice, ad esempio, come quello – vissuto e raccontato dal poeta in Res amissa – di una porta spalancata a ridare respiro a chi è rimasto recluso. C’è l’accento della preghiera che il «seme del piangere» – così Dante chiamò gli occhi e Caproni riprese la metafora – possa guardare qualcosa che dia senso e speranza al deserto della vita.





Anch’io

Uno dei tanti, anch’io.
Un albero fulminato

dalla fuga di Dio.



Asparizione

In una via di Lima.
O di qui.
Non importa.
In sogno, forse.
In eco.

Nel battito già perdutamente
dissolto di una porta.


Determinazione

Non è arrivato nessuno.
Tutti sono scesi.
Uno
(l’ultimo) s’è soffermato
un attimo, il volto nel lampo
dell’accendino, poi
ha preso anche lui – deciso –
la sua via.

Ci siamo
guardati.

Lo avremmo
pugnalato, lui
(l’ultimo!) che pur poteva,
doveva necessariamente
esser lui, se lui
non era giunto.

Lo abbiamo
lasciato passare diritto

davanti a noi.


E solo

quand’è scomparso, il deserto

ci è apparso chiaro.


Che fare.


Inutile aspettare,

certo, un altro treno.

Il testo

era esplicito.

O qui,

e ora,

o…

nulla.


Siamo

venuti via.


Abbiamo

voltato le spalle al vuoto

e al fumo.


Abbiamo

scosso le spalle.


Faremo,

ci siamo detti, senza

di lui.


Saremo,

magari, anche più forti

e liberi.


Come i morti.



Il cercatore


Aveva posato
la sua lanterna sul prato.
Aveva allargato
le braccia. Tutto
quel sole. Tutto
quel verde scintillio d’erba
per tutto il vallone.
Era scoraggiato.
«Come
può farmi lume,»
pensava. «Come
può forare la tenebra,
in tanta inondazione
di luce?»
Piangeva,
quasi. S’era
coperta la faccia.
Si premeva gli occhi.
Aveva
perso completamente,
con la speranza, ogni traccia.


Arpeggio

Cristo ogni tanto torna,
se ne va, chi l’ascolta…
Il cuore della città
è morto, la folla passa
e schiaccia – è buia massa
compatta, è cecità…


Indicazione


– Smettetela di tormentarvi.
Se volete incontrarmi,
cercatemi dove non mi trovo.

Non so indicarvi altro luogo.


Petit Noël

S’avvicina il Natale.
Gesù, portami via.

La tua è la più bella bugia

che possa allettare un mortale.



Generalizzando


Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più

né da chi né che sia.

Soltanto ne conserviamo

– pungente e senza condono –

la spina della nostalgia.



Il teologo pone


Il teologo pone
una «grazia amissibile».

Ma quale altra amissione

più dura (più terribile)

di quella del dono rimasto

– per sempre – inconoscibile?



Res amissa

Non ne trovo traccia.
......

Venne da me apposta
(di questo ne sono certo)
per farmene dono.
......

Non ne trovo più traccia.
......

Rivedo nell’abbandono
del giorno l’esile faccia
biancoflautata…

La manica
in trina…

La grazia,
così dolce e allemanica
nel porgere…
......
......

Un vento
d’urto – un’aria
quasi silicea agghiaccia
ora la stanza…

(È lama
di coltello?

Tormento
oltre il vetro ed il legno
– serrato – dell’imposta?)
......
......

Non ne scorgo più segno.
Più traccia.
......
......

Chiedo
alla morgana…

Rivedo
esile l’esile faccia
flautoscomparsa…

Schiude
– remota – l’albeggiante bocca,
ma non parla.

(Non può
– niente può – dar risposta.)
......
......

Non spero più di trovarla.
......

L’ho troppo gelosamente
(irrecuperabilmente) riposta.

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