«Non basta che il matrimonio sia per sempre. Per compierlo servono i santi»
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maggio 4, 2012
Benedetta Frigerio
Don Francesco Ventorino, teologo: «Il cuore dell’uomo è fatto per l’amore fino alla fine. Come quello di Gesù».
«Don Luigi Giussani è un prete che ha segnato
positivamente la mia vita e il mio ministero sacerdotale. Lui diceva
“L’affettività è il meglio di noi. Ma che cosa possiamo costruire di
stabile sulla nostra capacità affettiva?”. È una domanda che travaglia o
scoraggia chi vuole mettere su famiglia. Perché il meglio di noi è
anche la cosa più fragile di noi». Sono le parole di don Francesco
Ventorino, teologo e docente di Ontologia ed Etica presso lo Studio
teologico S. Paolo di Catania, che ieri sera ha parlato davanti ai
genitori del liceo Don Gnocchi e della cooperativa In-Presa di Carate
Brianza. Il meglio di noi è la cosa più fragile di noi, «rovinata dalla
nostra società che impone falsi modelli di realizzazione e compimento».
Come recuperarla allora? Come soddisfarla? Ci si aspetta un consiglio,
ma don Ventorino incalza: «Anche se la prendessimo sul serio ci
troveremmo a dire che è moralmente passibile di compromessi. Perché il
compimento dell’affettività è la gratuità assoluta: amare l’altro per se
stesso, senza alcun ritorno». Una cosa umanamente impossibile, per
questo sembra che gli uomini ci abbiano rinunciato. E infatti Ventorino
cita Jean-Paul Sartre, che ci ricorda che la cosa che ci sta più a cuore
è la più amara, perché quando non si realizza ci segna. Tanto che si
può arrivare a odiarla per quanto la si ama. Come dice il poeta: «“Meno
male che [mio padre] è morto presto”. “Ma questo”, scrive, “non è un
fatto di cattiveria, è la norma. Non si accusino quindi gli uomini,
bensì il legame di paternità. Fare figli? Non c’è cosa migliore. Averne?
È la più iniqua”. Non che suo padre sia stato cattivo, ma la norma è
che il padre dopo aver generato il figlio non è capace di trattarlo». A
sentire Sartre, la delusione dell’aspettativa più grande che abbiamo
pare una condizione ineluttabile. Una delusione ineluttabile. Ma «don
Giussani – continua il teologo – scrisse alla Fraternità di Comunione e
Liberazione prima di morire: “La prima caratteristica in cui l’Essere si
comunica è la verginità. È il concetto di purità assoluta, la cui
conseguenza di vorticosità assoluta è la maternità». Ventorino ricorda
la reazione di una donna della Fraternità: «Reagì violentemente
scrivendo a Tempi: “L’amore materno, lasciato alla sua istintività, è in
realtà avido, vorace. Al di là di tante balle sulla dolcezza della
mamma, e su come di mamma ce ne sia una sola – grazie a Dio, dico io. Le
mani prima accarezzano, poi come il bambino cerca di andarsene
brancolano un po’ smarrite. Spesso le dita si stringono, improvvisamente
adunche, per fermarlo. Amatissimo bambino, però prima di tutto “mio”
(…). La sola cosa di cui sono certa, è che questa pienezza non ce la si
dà da sé. Poi, proprio non so. Il voler bene è una materia che mi è
alquanto oscura».
Ma c’è un’altra posizione, quella espressa in un versetto di Shakespeare, «che mi fece scoprire una ragazza di seconda liceo classico. Lo tradusse come la poesia d’amore più bella. L’amato dice alla sua donna: “Quando sarò morto non piangere altrimenti il mondo riderà di noi”. È questa l’alternativa che si pone. L’alternativa fra il nulla e l’essere. Fra la realtà come tempio o come apparenza». Comprendere questo cambierebbe tutto secondo il teologo. Se l’altro è questo mistero eterno, se l’amato non è mai comprensibile, se è tempio del mistero da adorare. «Se si comprende questo allora l’unicità e il per sempre sono possibili». È possibile ciò per cui il cuore è fatto. Perché «il cuore dell’uomo è fatto per questo amore fino alla fine. Come quello di Gesù che “li amò fino alla fine”, dice il Vangelo». Ma cos’è questo fino alla fine? Per Ventorino si tratta dell’offerta totale di sé fino a che «ci è davvero possibile». Ma sopratutto che «niente e nessuno possono impedire, nemmeno il tradimento dell’altro. Tu poi essere fedele e questo compirà il matrimonio, porterà a termine quel per sempre per cui ti sei sposato. Anche se l’altro se ne va tu sarai fecondo, sarai segno della possibilità dell’amore eterno. Segno per i figli e per il popolo».
Il matrimonio, infatti, è un’amicizia perfetta, ricorda il sacerdote, che non usa mezzi termini. «E chi non vive l’amore all’altro per se stesso, senza ritorno e non per una soddisfazione dei propri capricci, non è diverso da chi usa di una prostituta». Una prostituta, ripete: «Sì, perché l’amore vero non è un problema formale. No, non basta essere sposati affinché tutto sia lecito. No, se non tratti tua moglie come tempio di Dio, se non adori in lei il mistero che è, dando tutto te stesso per lei non ti unirai a tua moglie ma a una donna che stai rendendo prostituta». Se non c’è questa amicizia il matrimonio per Ventorino è inconsistente, anche se formalmente dura. Un’inconsistenza che si riflette sui figli: «Sono cresciuto a Catania fra la Prima e la Seconda guerra mondiale. Ogni notte da bimbo sentivo le bombe degli alleati. Passavo le notti con il terrore di morire. Da quel momento soffro di insonnia perché associo la notte alla possibilità di morire. Pensate a un ragazzo che, anche se i genitori non si separano, percepisce un’inconsistenza per cui se un coniuge non soddisfa più gli interessi di un altro, allora non è più interessante. Crescerà con il terrore che i suoi genitori si possono dividere. Questa instabilità dei giovani d’oggi da dove pensate che venga?». Ecco perché per educare è necessaria una dimora dove il rapporto coniugale sia un’amicizia perfetta, in cui si dà ai figli la certezza di rapporti eterni. «È solo in questo amore coniugale, infatti, che si possono amare veramente i figli. E che la famiglia diventa segno unico della inesauribile fedeltà e misericordia di Dio. Nell’unicità e nella fedeltà. Amati per se stessi a loro volta i figli prendono coscienza della propria grandezza che nessun limite può impedire».
Ma se amare così è impossibile all’uomo, se l’affettività anche presa sul serio è passibile di compromessi, come se ne esce? «Quando io riuscirò ad amare Cristo sino alla fine, allora sarò capace di dire all’altro come fare. Lo correggerò senza traccia di pretesa, lo farò solo per lui, senza ritorni. Questo si chiama verginità ed è un cammino che si fa stando nella Chiesa, chiedendo la compagnia dei santi viventi, dei testimoni dell’amore di Dio. È un cammino in un corpo dove io a poco a poco divento fecondo come il capo, come Cristo».
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