Cento anni fa nasceva Montale, maestro
di vita che ha cantato l’effimero delle cose. Tutto urge un rapporto con
l’infinito, «perché tutte le immagini portano scritto: "più in là"».
In un mondo che rende familiare la tentazione, che investe anche noi, di ridurre
l’apparenza della realtà a nulla. La possibilità, estrema punta dell’attesa
della saggezza umana
"L’argomento della mia poesia è la condizione umana in sé
considerata, non questo e quell’avvenimento. Ciò non vuol dire estraniarsi da quanto
avviene nel mondo, significa solo coscienza e volontà di non scambiare l'essenziale con
il transitorio".
Ripetutamente, nelle molte dichiarazioni di Montale sulla
sua opera poetica, riaffiora il supremo interesse di "interrogare la vita",
nella speranza di decifrarne il mistero, l’enigma. Consapevole di "non sapere
inventare nulla" e di "partire sempre dal vero", la spinta, la mossa da cui
scaturisce l’intera produzione del poeta coincide con la struggente considerazione
della propria condizione di uomo. Scriveva Contini, uno dei più importanti filologi di
questo secolo, che gli fu anche caro amico: "La differenza costitutiva tra Montale e
i suoi coetanei sta in ciò, che questi sono in pace con la realtà, mentre Montale non ha
certezza del reale".
Forse questa piccola indagine su Montale potrebbe muovere
proprio dalla semplice constatazione che il problema del senso della vita costituisce il
centro da cui si irradia l’intera sua riflessione e opera poetica. In un brano
scritto all’indomani delle agitazioni del Sessantotto, ne è esplicitamente
dichiarata la rilevanza, insieme alla considerazione della irragionevole marginalità ad
esso riservata in tutta l’epoca moderna, non ultima ragione della sua decadenza; come
il prezzo pagato ad una inammissibile evasione:
"Quello che avviene nel mondo così detto civile a
partire dalla fine dell’Illuminismo (ma ora in sempre più rapida escalation) è il
totale disinteresse per il senso della vita. Ciò non contrasta col darsi daffare, anzi.
Si riempie il vuoto con l’inutile. Il mondo muore di noia, l’impiego del tempo
è letteralmente spaventoso. I giovani che si agitano un po’ dovunque non se ne
rendono forse conto, ma il loro vero problema non è né sociale né economico. A loro non
interessa più nulla, ecco il fatto. Immetteteli in una società più giusta, meglio
pianificata, riempiteli di lauree e di diplomi, trovate per tutti un buon impiego e molto
tempo libero, e il risultato sarà lo stesso: una noia sempre crescente senza nemmeno più
il conforto/sconforto dell’angoscia. Abbiamo provveduto noi anziani, noi balordi
aruspici dei vari futuribili, a svuotarli di tutto. Non ci possono ringraziare, questo è
certo.
"Le attuali agitazioni e contestazioni appartengono
dunque a quello che si definisce come eterogenesi dei fini e come tali sono inevitabili.
Esse non sono che un’infima parcella di tutto ciò che sta ribollendo in questo
universo di orrore e di noia".
E a chiarire lo stato d’animo di Montale, stretto
tra l’urgente inevitabilità della Questione ("Ratio ultima rerum... id est
deus") e l’ostentata indifferenza che lo circonda ("gli uomini che non si
voltano") e di cui egli steso si sente preda, sarà forse utile questo breve brano,
tratto da una prosa del 1949:
"Oggi tutti vorrebbero esser contenti ma non
c’è più quasi nessuno che desideri veramente di esser felice; che lo desideri fino
all’impossibile, fino all’annientamento. È troppo tardi per interrogare
l’uomo ch’è passato, bisognerebbe inseguirlo, e poi chissà se ci direbbe la
verità. Se il felice vorrà nascondere il suo segreto; non si divulgano le cose
incomprensibili agli altri".
Il cozzo della ragione
Ed eccoci al secondo passo: l’incomprensibile.
Volendo da se stesso dare una definizione della propria poesia, Montale dichiara che essa
appartiene a una tradizione "non realistica, non romantica e nemmeno strettamente
decadente, che molto all’ingrosso si può definire metafisica", avendo cura di
avvertire che "tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo
della ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica". La
consapevolezza che il Mistero sorga nella considerazione della realtà operata dalla
ragione sembra essere ben presente a Montale quando, in un’intervista rilasciata nel
1965, esclude che si possa "parlare di mito della mia poesia", ma piuttosto di
"desiderio di interrogare la vita". "Io sono un poeta che ha scritto
un’autobiografia poetica senza cessare di battere alle porte dell’impossibile
convinto che la vita ha un significato che ci sfugge. Ho bussato disperatamente come uno
che attende una risposta". Il motivo stesso che lo ha spinto ad interessarsi
dell’opera di Dante, che ha profondamente influito sulla sua produzione poetica, ha
molto a che vedere proprio con l’incomprensibilità di ciò che "investe le
ragioni ultime dell’uomo", come è detto in questo intervento, ancora del 1965:
"Dante non può essere ripetuto. Fu giudicato quasi
incomprensibile e semibarbaro pochi decenni dopo la sua morte, quando l’invenzione
retorica e religiosa della poesia come dettato d’amore fu dimenticata. Esempio
massimo di oggettivismo e razionalismo poetico, egli resta estraneo ai nostri tempi, a una
civiltà soggettivistica e fondamentalmente irrazionale perché pone i significati nei
fatti e non nelle idee. Ed è proprio la ragione dei fatti che oggi ci sfugge. Poeta
concentrico, Dante non può fornire modelli a un mondo che si allontana progressivamente
dal centro e si dichiara in perenne espansione. Perciò la Commedia è e resterà
l’ultimo miracolo della poesia mondiale. Posso tranquillamente considerare
l’affermazione del Singleton che il poema sacro fu dettato da Dio e il poeta non fu
che lo scriba. Così non mi ha atterrito il carattere miracoloso che fu attribuito a
quella Beatrice storica di cui pensavano di poter fare a meno. E se è vero ch’egli
volle essere poeta e nient’altro che poeta, resta quasi inspiegabile alla nostra
moderna cecità il fatto che quanto più il suo mondo si allontana da noi, di tanto
accresce la nostra volontà di conoscerlo e di farlo conoscere a chi è più cieco di
noi".
L’anello che non tiene
La considerazione di un Mistero da svelare ("il fantasma che ti
salva", "il punto morto del mondo, l’anello che non tiene, / il filo da
sbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità", "il segno
d’un’altra orbita"; la "maglia rotta nella rete") si affaccia
sull’orizzonte della sua esistenza come una ineffabile, ma inesorabile, presenza: il
"cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione". Per questo, fin
dall’inizio, anche in quelle raccolte poetiche che, come gli Ossi di seppia,
sono considerate "negative", si ha l’impressione di sorprendere il poeta a
scrutare un qualche segno rivelatore, "il miracolo", come chi attende sulla
soglia di una certezza, "in questi silenzi in cui le cose / s’abbandonano e
sembrano tradire il loro ultimo segreto". Un miracolo da cui tutto dipende: la stessa
certezza della realtà, della propria esistenza ("non sono mai stato certo di essere
al mondo"), fino alla tentazione di ritenere tutto un’illusione, "il nulla
alle mie spalle, il vuoto dietro / di me, con un terrore di ubriaco":
"Ah crisalide, com’è amara questa |
tortura senza nome che ci volve |
e ci porta lontani - e poi non restano |
neppure le nostre orme sulla polvere; |
e noi andremo innanzi senza smuovere |
un sasso solo della gran muraglia; |
e forse tutto è fisso, tutto è scritto, |
e non vedremo sorgere per via |
la libertà, il miracolo, |
il fatto che non era necessario!" |
Tuttavia il suo itinerario poetico, dalle Occasioni
alla Bufera, da Satura al Diario postumo, si sviluppa nel tentativo
di identificare e precisare la fisionomia di un segno di salvezza, portatore di chiarezza
circa il senso del nostro destino di uomini. Un segno tangibile ("fuggo /
l’iddia che non s’incarna"), che, sfuggendo i canoni della poesia
stilnovista e di Dante, prende forma nella figura della donna, di alcune donne. In primo
luogo Clizia, "Iride, l’ebrea che io chiamo cristofora o portatrice di
Cristo", la donna, Irma Brandeis, che se n’è andata lontano e torna, talvolta,
a illuminare la notte scura in cui vive il poeta:
"Perché l’opera tua (che della Sua |
è una forma) fiorisse in altre luci |
Iri del Canan ti dileguasti |
in quel nimbo di vischi e pungitopi |
che il tuo cuore conduce |
nella notte del mondo, oltre il miraggio |
dei fiori del deserto, tuoi germani. |
Se appari, qui mi riporti, sotto la pergola |
di viti spoglie, accanto all’imbarcadero |
del nostro fiume - e il burchio non torna indietro, |
il sole di San Martino si stempera, nero. |
Ma se ritorni non sei tu, è mutata |
la tua storia terrena, non attendi |
al traghetto la prua, |
non hai sguardi, né ieri né domani; |
perché l’opera Sua (che nella tua |
si trasforma) dev’esser continuata". |
E poi la moglie, la mosca, la donna della vita: "Ho
sceso dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad
ogni gradino". Verso di lei è una gratitudine infinita, nata dalla consapevolezza
che "di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le
tue". Forse anche la presenza umana cui deve il conforto della speranza, la debole e
ferma considerazione di una possibilità:
"La morte non ti riguardava. |
Anche i tuoi cani erano morti, anche |
il medico dei pazzi detto lo zio demente, |
anche tua madre e la sua "specialità" |
di riso e rane, trionfo meneghino; |
e anche tuo padre che da una minieffigie |
mi sorveglia dal muro sera e mattina. |
Malgrado ciò la morte non ti riguardava. |
Ai funerali dovevo andare io, |
nascosto in un tassì restandone lontano |
per evitare lacrime e fastidi. E neppure |
t’importava la vita e le sue fiere |
di vanità e ingordigie e tanto meno le |
cancrene universali che trasformano gli uomini in lupi. |
Una tabula rasa; se non fosse |
che un punto c’era, per me incomprensibile |
e questo punto ti riguardava". |
Prima del viaggio
A questa via, umana, di ragione e affetto, in cui il
linguaggio poetico stesso si semplifica, appartiene la categoria dell’imprevisto come
possibilità di salvezza, come in Prima del viaggio ("Un imprevisto / è la
sola speranza. Ma mi dicono / ch’è una stoltezza dirselo"), o come in
quest’altra poesia:
"L’insonnia fu il mio male e anche il mio bene. |
Poco amato dal sonno mi rifugiai nella veglia, |
nel buio che non è poi tanto nero |
se libera i fantasmi dalla luce |
che li disgrega. Non sono tanto grati |
questi ospiti notturni ma ce n’è uno |
che non è sogno e forse è il solo vero". |
Un’esile realtà, che pure, per quanto fragile,
ammessa con timore o terrore, come sovrastata dalla paura dell’esilio e della follia,
ritorna come motivo ricorrente in altre sue poesie:
"Forse fra i tanti, fra i milioni c’è |
quello in cui viso e maschera coincidono |
e lui solo potrebbe dirci la parola |
che attendiamo da sempre". |
E anche:
"Fosse tua vita quella che mi tiene |
sulle soglie - e potrei prestarti un volto, |
vaneggiarti figura". |
La soglia ci sembra una parola che può indicare la
posizione di Montale: la soglia non è ancora la dimora, ma il pegno. Anche la Bibbia, che
Montale amava, nomina la soglia, quando fa dire al salmo dello struggimento per il tempio
del Signore:
"Per me un giorno nei tuoi atri |
è più che mille altrove, |
stare sulla soglia della casa del mio Dio |
è meglio che abitare nelle tende degli empi" (Salmo 83). |
Il viaggio non finisce qui
di Valeria Capelli
Casa sul mare
Il viaggio finisce qui: |
nelle cure meschine che dividono |
l’anima che non sa più dare un grido. |
Ora i minuti sono eguali e fissi |
come i giri di ruota della pompa. |
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba. |
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio. |
Il viaggio finisce a questa spiaggia |
che tentano gli assidui e lenti flussi. |
Nulla disvela se non pigri fumi |
la marina che tramano di conche |
i soffi leni: ed è raro che appaia |
nella bonaccia muta |
tra l’isole dell’aria migrabonde |
la Corsica dorsuta o la Capraia. |
Tu chiedi se così tutto vanisce |
in questa poca nebbia di memorie: |
se nell’ora che torpe o nel sospiro |
del frangente si compie ogni destino. |
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa |
l’ora che passerai di là dal tempo: |
forse solo chi vuole s’infinita, |
e questo tu potrai, chissà, non io. |
Penso che per i più non sia salvezza, |
ma taluno sovverta ogni disegno, |
passi il varco, qual volle si ritrovi. |
Vorrei prima di cedere segnarti |
codesta via di fuga |
labile come nei sommossi campi |
del mare spuma o ruga. |
Ti dono anche l’avara mia speranza. |
A’ nuovi giorni, stanco, non so crescerla: |
l’offro in pegno al tuo fato, che ti scampi. |
Il cammino finisce a queste prode |
che rode la marea col moto alterno. |
Il tuo cuore vicino che non m’ode |
salpa già forse per l’eterno. |
Posto quasi alla fine degli Ossi, questo splendido canto della
disillusione, di tono pacato, quasi discorsivo, che riprende l’antico luogo
letterario del viaggio, fin dai primi versi ci sorprende: la nostra esistenza vi è
implicata nel profondo. "Il viaggio finisce qui: / nelle cure meschine che dividono /
l’anima che non sa più dare un grido...": non è difficile, per un uomo del
nostro tempo, pensare che l’avventura della vita sia ormai miseramente terminata, di
fronte a un ostacolo esteriore o interiore, a un limite invalicabile come il mare a cui
quella casa si affaccia; e a poco a poco il cuore si ottunde, si immobilizza, diventa
incapace anche solo di un grido di dolore. Il paradosso disperante è che la vita continua
a scorrere tra meschine preoccupazioni, implacabilmente monotona, insopportabilmente
ripetitiva ("ora i minuti sono eguali e fissi..."; e ancora: "Il viaggio
finisce a questa spiaggia / che tentano gli assidui e lenti flussi..."). Nulla vi
accade ("Nulla disvela se non pigri fumi...") ed è raro che qualcosa compaia
all’orizzonte in questa "muta bonaccia", in questa specie di "limbo
squallido / delle monche esistenze" (Crisalide), in cui il cuore più non
crede "che gli uomini hanno una festa" (Vento e bandiere). Questa
esistenza piatta, sorda ormai alle urgenze più vere dell’umano, fa svanire tutto,
anche i ricordi, in una nebbia impalpabile.
Dopo le immagini marine che oggettivizzano la posizione
interiore di delusione, di non attesa, di non speranza, di torpida immobilità, il poeta
introduce indirettamente un tu personale, una donna, che pone una domanda drammatica sulla
vita, la domanda più grave: "Tu chiedi se così tutto vanisce / in questa poca
nebbia di memorie; / se nell’ora che torpe o nel sospiro / del frangente si compie
ogni destino". C’è in questa richiesta come un ultimo grido soffocato del
cuore, della ragione, che non si rassegnano al fatto che tutto finisca nel nulla, che il
destino di ogni uomo sia vanificarsi come l’onda che lentamente s’infrange sugli
scogli.
Il poeta vorrebbe poterle dire che non è così, che
c’è la salvezza. Forse qualcuno riesce a passare il "varco", a scoprire
certezze per la vita, il senso delle cose, a raggiungere il compimento della sua umanità,
non però lui. Egli vorrebbe tuttavia, prima di abbandonarsi al suo destino, insegnarle
una "via di fuga" dalla dura, insensata necessità, da una realtà
incomprensibile; ma sa che questa ipotesi di salvezza è labile come la spuma o
un’onda sul mare agitato. In uno slancio del cuore offre alla donna, quasi un pegno
per il destino perché la salvi, la sua piccola speranza, quella speranza che lui, stanco,
deluso, non sa più alimentare.
Nella casa sul mare finisce forse l’avventura di due
anime; ma poco importa il dato contingente: ciò che qui drammaticamente si rivela è la
condizione umana in quanto tale.
Il vero tema della lirica è da un lato l’urgenza,
sottesa a ogni immagine, vibrante nel profondo di ogni parola, che la vita sia un viaggio
reale, colmo di significato, che il tempo sia il tempo del ritrovamento di sé, del
compimento; dall’altro la constatazione dolorosa che il viaggio non ha altro esito
che il nulla, perché il tempo tutto distrugge; le cose svaniscono come parvenze, si
perdono anche le aspirazioni, le attese, le memorie, gli incontri, e il cuore, deluso,
sotterra la speranza, diviene incapace anche di un palpito, di un grido. E
l’immobilità è una sofferenza greve (si pensi al "delirio ...
d’immobilità" di Arsenio) perché è il contrario del vivere. Ma è possibile
sfuggire alla tortura dello sbriciolarsi lento, quotidiano delle cose, al sordo tormento
di una vita che non attende più nulla, che si consuma nel sentimento della propria
inutilità, magari in una sterile pietà? Per salvarsi, afferma Montale coniando un verbo
di timbro e vigore dantesco, bisognerebbe poter "infinitarsi"
("trasumanar" direbbe il divino poeta). Solo il rapporto col mistero infinito
potrebbe dare consistenza alla vita, all’istante, potrebbe rendere positivo lo
scorrere del tempo, reale, pieno di senso, il viaggio nell’aldiquà. Ma per il poeta
il viaggio è finito, anzi non è mai cominciato: manca la strada esistenzialmente
concreta per tale rapporto, pure presentito con tanta forza dal cuore.
Montale afferma che solo un miracolo, un fatto che spezzi
le catene della dura necessità, un imprevisto potrebbe salvarci dal non senso, dal nulla.
Qui si ferma il poeta.
Questo fatto, questo evento assolutamente imprevedibile -
noi lo sappiamo - è già accaduto, già ha aperto la strada ed è presente. Dio si è
fatto uomo per trasformare la nostra esistenza, l’esistenza di ogni uomo,
nell’avventura buona in cui il destino si compie. No, carissimo Montale, il viaggio
non finisce qui.
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