Pavese, la noia dell'estate,
l'attesa di qualcuno
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Valerio Capasa
lunedì 25 giugno 2012
In questi giorni afosi, «nell’ora che tutti
dormono, tra pranzo e merenda, quando il sole brucia», può capitare –
come capitò a Cesare Pavese – che qualcuno rimanga
sveglio, e veda spalancarsi davanti a sé il vuoto sterminato
delle ore estive: «è nella noia che toccavo
il fondo della giornata e dell’estate. Nulla accadeva, nemmeno una voce,
nei cortili e sulle coste, e questo vuoto
m’incantava come se il tempo si fermasse nell’aria. Venivo al punto che
ogni cosa era possibile e vigeva; solamente,
non capivo perché in tanto fervore ogni cosa tacesse»
(Storia
segreta).
È un istante vertiginoso: sembra che «qualcosa
d’inaudito è accaduto o accadrà su questo teatro» (La vigna), e
invece, «tolto il fastidio e la vergogna,
niente accade» (La casa in collina). Anzi, «ogni giorno che
spunta ti mette
davanti la stessa fatica e le stesse mancanze»;
e poi «la fatica interminabile, lo sforzo per
star vivi d’ora in ora, la notizia del male degli altri, del male
meschino, fastidioso come le mosche d’estate – quest’è il vivere che taglia le
gambe» (Le Muse).
Il fondo dell’estate si tocca nel fastidio e
nella noia: che è propriamente – osservò Leopardi – «il desiderio puro
della felicità» (Dialogo di Torquato Tasso).
Ossia il momento in cui si cerca qualsiasi cosa pur di «ammazzare il
tempo» (per dirla con Montale) oppure si fa
spazio l’«attesa di un evento che né il ricordo né la fantasia
conoscono» (La vigna) e che riempia
davvero il tempo, e travolga la noia.
Si può far tardi, l’estate: e «la notte,
che il mare svanisce, si ascolta / il gran vuoto ch’è sotto le stelle». In quel
momento «l’uomo, stanco di attesa, / leva gli
occhi alle stelle, che non odono nulla» (Paternità).
Chi ha vissuto
quest’esperienza notturna, conosce il silenzio
delle cose, quelle stelle che si mostrano impassibili all’attesa di cui
l’uomo si è ormai stancato. Tante volte,
infatti, è un silenzio che finisce per spegnere l’attesa fin da quando «il
mattino ferisce»: «Non c’è cosa più amara
che l’alba di un giorno /
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara /
in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara /
che l’inutilità. Pende stanca nel cielo /
una stella verdognola, sorpresa dall’alba».
Quando è così, nel corso della giornata «la lentezza dell’ora /
è spietata, per chi non aspetta più nulla».
E un dubbio corrode l’esistenza: «Val lapena che il sole si levi dal mare /
e la lunga giornata cominci?» (Lo steddazzu).
una stella verdognola, sorpresa dall’alba».
Quando è così, nel corso della giornata «la lentezza dell’ora /
è spietata, per chi non aspetta più nulla».
E un dubbio corrode l’esistenza: «Val lapena che il sole si levi dal mare /
e la lunga giornata cominci?» (Lo steddazzu).
Cosa ci si può aspettare da giornate che così
spietatamente si allungano e rallentano? Magari qualche «incontro
improvviso», che occupi, almeno per poco, il
tempo. Anche se, ha ragione Pavese, «da chi non è pronto – non
dico a sacrificarti il suo sangue, che è cosa
fulminea e facile – ma a legarsi con te per tutta la vita (rinnovare cioè
ad ogni giornata la dedizione) – non dovresti
accettare neanche una sigaretta». Solo
l’«attaccamento che costa
sacrificio», infatti, è umano (Il mestiere
di vivere, 11 giugno 1938).
Cosa permette di «ricominciare» davvero?
Possiamo lanciarci in nuove avventure, viaggi, esperienze: ma, anche
in questo caso, ci tocca ammettere che «c’è
più abitudine nell’esperienza ad ogni costo (cfr. il brutto “viaggiare ad
ogni costo”), che nella normale rotaia
accettata doverosamente e vissuta con trasporto e intelligenza». Non a
caso «il proprio dell’avventura è di
serbare una riserva mentale di difesa; per cui non esistono buone avventure.
È buona quell’avventura cui ci si abbandona: il
matrimonio, insomma, magari di quelli fatti in cielo. Chi non
sente il perenne ricominciare che vivifica
un’esistenza normale e coniugata, è in fondo uno sciocco che,
quantunque dica, non sente nemmeno un vero
ricominciare in ogni avventura». (Il mestiere di
vivere, 23
novembre 1937).
Eppure il desiderio di «ricominciare» – di
«cominciare, sempre, ad ogni istante» – permane sotto ogni strato di
noia, dentro ognuna di quelle avventure in cui
ci si può riservare un’uscita di servizio. Non è mai del tutto vero
che un uomo «non aspetta più nulla».
Paradossalmente, tutta la pesantezza della noia e della fatica non toglie il
guizzare imprevedibile di un’attesa: «Qualcuno
ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»
(Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945).
(Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945).
Lo ha colto Pavese in un breve ma clamoroso
racconto: «in verità, siamo tutti in attesa». Si intitola Piscina feriale,
ma credo lo si possa immaginare senza
equivocarlo anche fra le acque del mare: «La compagnia che ci facciamo
serve a distrarci dalla varia attesa, dal
vuoto instabile che la tentazione di tacere crea dentro di noi».
Si può stare insieme soltanto per distrarsi: «C’è della gente che strilla e che ride: si direbbe che per loro
l’attesa è finita». Ma basta rimanere per un attimo soli, e guardare il cielo, per accorgersi che
«la nudità del cielo fa appello alla nostra.È difficile nascondere pensieri in questa insolita nudità.
Ci si riscuote appena, ci si sente visibili come ciottoli in fondo all’acqua.
La nostra solitudine è un vuoto, un’immobilità dei pensieri. A volte ce ne dimentichiamo, e
Si può stare insieme soltanto per distrarsi: «C’è della gente che strilla e che ride: si direbbe che per loro
l’attesa è finita». Ma basta rimanere per un attimo soli, e guardare il cielo, per accorgersi che
«la nudità del cielo fa appello alla nostra.È difficile nascondere pensieri in questa insolita nudità.
Ci si riscuote appena, ci si sente visibili come ciottoli in fondo all’acqua.
La nostra solitudine è un vuoto, un’immobilità dei pensieri. A volte ce ne dimentichiamo, e
diciamo a voce alta cose improvvise che subito
suonano superflue, già sapute dagli altri».
Ma per quanto possiamo essere distratti e perderci in chiacchiere da spiaggia, lo sappiamo bene,
in fondo: qualcosa deve accadere.
Ma per quanto possiamo essere distratti e perderci in chiacchiere da spiaggia, lo sappiamo bene,
in fondo: qualcosa deve accadere.
«Che cosa deve dunque accadere? Se ne
parla, di tanto in tanto, quando il gruppo si va ricomponendo. È una
questione che ci appassiona; qualcuno non
capisce subito quando il più vivace di noi la intavola, ma poi gli viene
spiegata e anche lui s’incuriosisce».
Cos’è questa cosa, tanto evidente in ogni piega delle nostre azioni che non c’è
nemmeno bisogno di dirla? «Non era il pane
né il piacere né la cara salute» (Gli dèi): infatti, con o senza
queste
cose, «siamo tutti inquieti, chi seduto e
chi disteso, qualcuno contorto,
e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda».
e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa, che ci fa trasalire la pelle nuda».
È possibile scendere a patti con questa
inquietudine, accontentandosi di «accettare l’istante che viene e l’istante
che va» (L’isola)?
Immaginiamo un uomo in una sera d’estate: «Sull’asfalto del viale la luna fa
un lago /
silenzioso e l’amico ricorda altri tempi. /
Gli bastava in quei tempi un incontro improvviso / e non era più solo».
C’è un tempo in cui «l’odore / della donna
incontrata, della breve avventura / per le scale malcerte» può anche
bastare; «poi, sotto la luna, / a gran passi
intontiti tornava, contento». Ma perché queste cose bastino,
occorre
l’ingenuità di chi si fa bastare le briciole,
e si rassegna a doversi intontire. Gli ultimi versi di questa poesia –
Abitudini – segnano una
consapevolezza decisamente più vera: «è invecchiato l’amico e non basta più
a sé. / I
passanti son sempre gli stessi; la pioggia / e
anche il sole, gli stessi; e il mattino, un deserto. / Faticare non vale la
pena. E uscir fuori alla luna, / se nessuno
l’aspetti, non vale la pena».
È qui, mi pare, il vero «fondo della giornata
e dell’estate»: più che la noia di aspettare chissà cosa, la scoperta di
essere aspettati da qualcuno. Ciascuno può
verificare se il ricatto della «lentezza dell’ora», il dogma del tempo che
si può perdere e la condanna alla distrazione
(che alla lunga logorano l’attesa e insinuano il sospetto che non
valga la pena ricominciare) vengono vinti
dall’esperienza di qualcuno per cui vale la pena sia faticare che uscire:
infatti «la vita ha valore solamente se si
vive per qualcosa o per qualcuno»
(La casa in collina).
E allora puòaccadere di andarsene a dormire tranquilli, perché non si vede l’ora di ricominciare:
«È notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani,
sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose» (Il mestiere di vivere, 5 marzo 1947).
(La casa in collina).
E allora puòaccadere di andarsene a dormire tranquilli, perché non si vede l’ora di ricominciare:
«È notte, al solito. Provi la gioia che adesso andrai a letto, sparirai e in un attimo sarà domani,
sarà mattino e ricomincerà l’inaudita scoperta, l’apertura alle cose» (Il mestiere di vivere, 5 marzo 1947).
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