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venerdì 18 ottobre 2013

INIZIO DI UNA CONOSCENZA NUOVA

   INIZIO DI UNA CONOSCENZA NUOVA
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È soltanto se una Presenza così potente invade la nostra vita che non abbiamo bisogno di mettere il braccio davanti al volto per difenderci dai colpi delle circostanze e così poter vivere. Eppure tante volte noi siamo talmente feriti dal contraccolpo delle circostanze che si blocca il cammino della conoscenza, e allora tutto diventa veramente soffocante, perché è come se vedessimo la realtà soltanto per il buco della ferita. Come Maria, che guardava la realtà attraverso il suo pianto e non vedeva più altro: neanche riconosce Gesù! Allora appare Lui, la chiama per nome, e riapre la partita, le consente di riconoscerLo, di cominciare a guardare la realtà diversamente, perché la Sua presenza è più potente di ogni ferita e di ogni pianto, e allora ci spalanca di nuovo lo sguardo per poter vedere la realtà nella sua verità. «Fu guardato e allora vide», diceva sant’Agostino di Zaccheo (Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4). Amici, come sarebbe diversa la vita se ciascuno di noi lasciasse entrare quello sguardo, qualsiasi fosse la nostra ferita!
È per questo che Giussani insiste sul fatto che Gesù è entrato nella storia per educarci a una conoscenza vera del reale, perché noi pensiamo di sapere già che cosa sia la realtà, ma senza di Lui ci assale la paura, ci blocchiamo e quindi soffochiamo nelle circostanze. Invece con Gesù tutto si riapre, è come se Lui ci dicesse: «Guardate che io sono venuto per educarvi al vero rapporto con il reale, a quell’atteggiamento giusto che vi consente uno sguardo nuovo sul reale». Se noi non facciamo esperienza di questo, lasciando entrare in continuazione il Suo sguardo, la Sua presenza, viviamo la realtà come tutti. È soltanto se Gesù entra e rende possibile la conoscenza nuova che noi possiamo introdurre nel mondo una modalità diversa di stare nella realtà. Tutte le circostanze ci vengono date per questo, per provocarci a questa conoscenza nuova, per vedere che cosa è Gesù: una Presenza che ci consente di vivere il reale in un modo diverso, nuovo. E questo ci fa scoprire che tutte le circostanze non sono una obiezione, come tante volte noi le guardiamo, perché non siamo in grado di vedere l’attrattiva che hanno dentro, tanto siamo definiti dalla ferita; le abbiamo già ridotte perché noi pensiamo già di sapere che cosa sia la circostanza, pensiamo già di sapere che non c’è niente di nuovo da scoprire dentro di essa, che c’è solo da sopportare e che ci resta solo il tentativo moralistico di vedere se siamo all’altezza di sopportare quel soffocamento.
E invece soltanto se riaccade una Presenza come quella accaduta alla Maddalena, il percorso della conoscenza non si blocca, lo sguardo si spalanca, perché noi abbiamo molto di più del «sapere» le risposte a tutte le obiezioni o a tutte le sfide, noi abbiamo «la» risposta; ma la risposta non consiste, come noi pensiamo, nell’avere le istruzioni per l’uso per vivere, perché l’istruzione per l’uso è diventata carne, è una Presenza, è il Verbo, il contenuto è una presenza, il contenuto è un Tu, il Tu che ha raggiunto Maria. Per questo se la verità è slegata, priva di questa relazione, non si capisce. Come ha scritto papa Francesco a Eugenio Scalfari: «La verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!» (Francesco, «Lettera a chi non crede», op. cit., p. 2). Come è per il bambino: il bambino sa di non sapere tante cose, ma una cosa la sa: che ci sono il papà e la mamma che le sanno, allora che problema c’è? Se io sono certo (questo è il valore della certezza di cui parlava Davide Prosperi) di questa Presenza che invade la vita, posso affrontare qualsiasi circostanza, qualsiasi ferita, qualsiasi obiezione, qualsiasi contraccolpo, qualsiasi attacco, perché tutto questo mi spalanca ad aspettare la modalità con cui il Mistero si farà vivo per suggerirmi la risposta - per accompagnarmi a entrare perfino nel buio -, che avverrà secondo un disegno che non è il mio.
Che diversità nel modo di stare nel reale quando uno ha delle domande, quando uno ha delle questioni aperte, perché è lì, quando recita le Lodi o quando fa silenzio o quando ascolta un amico o quando prende il caffè o quando legge il giornale, che è tutto teso a scoprire, a intercettare qualsiasi briciola di verità che possa venirgli incontro! Così tutto diventa interessante, perché se io non avessi la domanda, se io non avessi la ferita, se io non avessi un’apertura totale, nemmeno potrei rintracciarla, non me ne renderei neanche conto. Per questo il nostro è un «cammino umanissimo», non fatto di allucinazioni o di visioni, ma come partecipazione a una «avventura di conoscenza» che ci fa scoprire sempre di più l’attrattiva che c’è dentro qualsiasi limite, dentro qualsiasi difficoltà, perché qualsiasi obiezione o qualsiasi circostanza, pur dolorosa, ha sempre dentro qualcosa di vero, altrimenti non ci sarebbe.

CHE COSA STIAMO A FARE AL MONDO?
È da qui, da un’esperienza così del vivere che possiamo rispondere alla domanda: «Che cosa stiamo a fare al mondo?». Noi stiamo capendo sempre di più, non malgrado le circostanze, ma proprio attraversando le circostanze, quale è il nostro compito. Come è successo, tra l’altro, sempre nella vita del movimento, ce lo ricorda don Giussani, e adesso possiamo capire molto meglio quanto ci diceva nel ’76, perché il ’76 era stato l’esito di avere attraversato momenti della vita del movimento in cui era venuto a galla che cosa significasse il nostro essere nel mondo; allora diceva che ci sono due possibilità di essere presenti nel reale: come «presenza reattiva», cioè che viene fuori da una nostra reazione, o come «presenza originale», cioè che nasce da quello che ci è capitato.
«Reattiva significa determinata dai passi di ciò che non è noi: porsi [nel reale] con iniziative, utilizzare discorsi, realizzare strumenti non generati come modalità totale dalla nostra personalità nuova, ma suggeriti dall’uso di parole, dalla realizzazione di strumenti, dalla modalità di atteggiamento e di comportamento degli avversari». Siccome «giochiamo ancora sul terreno degli altri», definito dagli altri, allora «una presenza reattiva non può che cadere in due errori: o diventa una presenza reazionaria, attaccata cioè alle proprie posizioni come “forme”, senza che i contenuti [...] siano così chiari da essere resi vita [...]; oppure [è soltanto un’] imitazione degli altri». Invece, «una presenza originale [è] una presenza secondo la nostra originalità» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza. 1975-1978, Bur, Milano 2006, pp. 52, 65). Cioè, presenza è realizzare la comunione con Cristo e tra di noi. Ciò che Maria, Matteo, Zaccheo introducono nel reale è una posizione definita da quella comunione con Lui che ha generato la Sua commozione, comunicata nel dire il loro nome. E quando questo succede a ciascuno di noi, la comunione tra di noi si esprime come presenza secondo la nostra originalità.

UNA PRESENZA ORIGINALE
«Una presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza della propria identità e dall’affezione a essa, e in ciò trova la sua consistenza» (Ibidem, p. 52), perché è ciò che soddisfa veramente la vita, come ci ha detto sempre Giussani citando san Tommaso: «La vita dell’uomo consiste nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la più grande soddisfazione» (Summa Theologiae, IIa, IIae, q. 179, a. 1 co.). La consistenza della vita è lì dove noi troviamo la più grande soddisfazione.
Qual è, dunque, la nostra identità? «Identità è sapere chi siamo e perché esistiamo, con una dignità che ci dà il diritto a sperare dalla nostra presenza “un meglio” per la nostra vita e per la vita del mondo». E chi siamo noi? «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete immedesimati con Cristo. Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più né schiavo né libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (cfr. Gal 3,26-28). Ma quello che è successo nel Battesimo, per noi si è reso storicamente e consapevolmente percepibile nell’incontro con il movimento; solo allora abbiamo capito la portata di quello che era accaduto, di quella lotta che Cristo ha cominciato con noi nel Battesimo per conquistarci, come vir pugnator. Noi abbiamo preso consapevolezza di essa quando, incontrando il movimento, siamo stati conquistati attraverso quella modalità con cui è stato detto il nostro nome. E allora abbiamo capito che cosa vuol dire san Paolo quando scrive: «Voi che siete stati afferrati, vi siete immedesimati con Cristo» (cfr. Gal 3,27).
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16). «È una scelta oggettiva che non ci strappiamo più di dosso, è una penetrazione del nostro essere che non dipende da noi e che non possiamo più cancellare [questa è la nostra identità]. [...] Non esiste niente [dice don Giussani] di culturalmente più rivoluzionario di tale concezione della persona, il cui significato, la cui consistenza è una unità con Cristo, con un Altro, e, attraverso questa, una unità con tutti coloro che Egli afferra, con tutti coloro che il Padre Gli dà nelle mani» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 53-54). È questo che noi dobbiamo capire perché, lo vediamo nel piccolo della nostra vita, questa concezione della nostra persona - che è tale soltanto perché c’è Uno che ridice il nostro nome, altrimenti saremmo ancora lì a piangere per il fatto di vivere - non è un’astrazione, è un’esperienza prima che una concezione; e proprio da questo scaturisce un’autocoscienza di noi che è come quella nata in Maria, che non ha potuto più guardare a se stessa come prima, ma tutta determinata da quel «Maria!».
«La nostra identità è l’essere immedesimati con Cristo. L’immedesimazione con Cristo è la dimensione costitutiva della nostra persona. Se Cristo definisce la mia personalità, voi, che siete afferrati da Lui, entrate necessariamente nella dimensione della mia personalità. [...] [Per questo] sia che mi trovi da solo nella mia stanza, sia che ci troviamo in tre a studiare in università, in venti alla mensa [...], dovunque e comunque questa è la nostra identità. Il problema è perciò l’autocoscienza, il contenuto della coscienza di noi stessi: “Vivo, non io, sei Tu che vivi in me” [Perciò la nostra identità si manifesta in questa autocoscienza nuova]. Questo è il vero uomo nuovo nel mondo - l’uomo nuovo che fu il sogno di Che Guevara e il pretesto mentitore di rivoluzioni culturali con cui il potere ha tentato e tenta di aver in mano il popolo, per soggiogarlo secondo la propria ideologia -; e nasce innanzitutto non come coerenza, ma come autocoscienza nuova».
«La nostra identità si manifesta in un’esperienza nuova dentro di noi [nel modo di vivere qualsiasi circostanza e qualsiasi sfida del reale] e tra di noi: l’esperienza dell’affezione a Cristo e al mistero della Chiesa, che nella nostra unità trova la sua concretezza più vicina. L’identità è l’esperienza viva dell’affezione a Cristo e alla nostra unità».
«La parola “affezione” è la più grande e comprensiva di tutta la nostra espressività. Essa indica molto più un “attaccamento” che nasce dal giudizio di valore - dal riconoscimento di quello che c’è in noi e tra di noi - che una facilità sentimentale, effimera, labile come foglia in balìa del vento. E nella fedeltà al giudizio, cioè nella fedeltà alla fede, con l’età, tale attaccamento cresce, diventa più turgido, vibrante e potente».

UN FATTO DENTRO IL QUALE NAUFRAGARE
«Questa esperienza viva di Cristo e della nostra unità è il luogo della speranza, perciò della scaturigine del gusto della vita e del fiorire possibile della gioia - che non è costretta a dimenticare o a rinnegare nulla per affermarsi -; ed è il luogo del recupero di una sete di cambiamento della propria vita, del desiderio che la propria vita sia coerente, muti in forza di quello che essa è al fondo, sia più degna della Realtà che ha “addosso”».
«Dentro l’esperienza di Cristo e della nostra unità vive la passione per il cambiamento della propria vita [non della giustificazione dei nostri errori!]. Ed è il contrario del moralismo: non una legge cui essere adeguati, ma un amore cui aderire, una presenza da seguire sempre di più con tutto se stessi [mamma mia!], un fatto dentro il quale realmente naufragare [per essere avvolti tutti da questo amore senza fondo e senza limiti: «un fatto dentro il quale realmente naufragare»]. [...] Il desiderio del cambiamento di sé, pacato, equilibrato, e nello stesso tempo appassionato, diventa allora una realtà quotidiana [il desiderio di essere Suoi, di appartenerGli di più, di cercarLo in continuazione] - senza ombra di pietismo o di moralismo -, un amore alla verità del proprio essere [di ricercatore della persona amata], un desiderio bello e scomodo come una sete» (Ibidem, pp. 54-56).
Ma tutto questo deve diventare maturo, perché siamo ancora confusi, dice sempre don Giussani. Se questo inizio piccolo, embrionale, non diventa maturo, alla prima tempesta è travolto. Noi non potremo più resistere «se quell’accento iniziale non diventa maturo: non possiamo più portare da cristiani l’enorme montagna di lavoro, di responsabilità e di fatiche a cui siamo chiamati. Non si coagula, infatti, la gente con delle iniziative [non è questo che dà consistenza]; ciò che coagula è l’accento vero di una presenza, che è dato dalla Realtà che è tra noi e che abbiamo “addosso”: Cristo e il Suo mistero reso visibile nella nostra unità».
«Proseguendo nell’approfondimento dell’idea di presenza - continua don Giussani -, occorre allora ridefinire la nostra comunità. La comunità non è un coagulo di gente per realizzare iniziative [1976!], non è il tentativo di costruire una organizzazione di partito [1976!]: la comunità è il luogo della effettiva costruzione della nostra persona, cioè della maturità della fede. [Ciascuno deve decidere se seguire don Giussani o seguire le proprie idee riguardo a quello che dice Giussani]».
«Scopo della comunità è generare adulti nella fede. È di adulti nella fede che il mondo ha bisogno, non di bravi professionisti o di lavoratori competenti, perché di questi la società è piena, ma tutti sono profondamente contestabili nella loro capacità di creare umanità».
«Il metodo con cui la comunità diventa luogo di costruzione di maturità della fede per la persona è [...]: “seguire”. [...] Seguire vuol dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede, [attenzione!] coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit, tradizione) il suo dinamismo e il suo gusto dentro di noi [questo è il naufragare in un’esperienza viva, in un fatto]. Questo dinamismo e questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al termine di una logica, ma quasi per pressione osmotica [guardate!]: è un cuore nuovo che si comunica al nostro, è il cuore di un altro che incomincia a muoversi dentro la nostra vita [altro che istruzioni per l’uso o fare soltanto quello che dicono gli altri! Ma il cuore di un Altro che comincia a vibrare dentro il nostro cuore]».
«Da qui sorge l’idea fondamentale della nostra pedagogia dell’autorità: veramente autorevoli per noi sono le persone che ci coinvolgono con il loro cuore, con il loro dinamismo e con il loro gusto, nati dalla fede. Ma autorevolezza reale è allora la definizione dell’amicizia».
«L’amicizia vera è la compagnia profonda al nostro destino [...] [per questo mi viene sempre in mente l’immagine a noi così familiare di Pietro e Giovanni, con gli occhi spalancati mentre corrono al sepolcro, insieme tesi al destino. Ciascuno può fare il paragone con il concetto solito di amicizia che vive. Insieme tesi al destino. Non “non amicizia”, ma che amicizia!]. E non è questione di temperamento [...]: l’amicizia vera si sente nel cuore della parola e nel gesto della presenza» (Ibidem, pp. 57-59). È necessario che tutto entri nella vita così, «la fede come “reagente” sulla vita concreta, in modo tale che siamo condotti a vedere l’identità tra la fede e l’umano reso più vero [possiamo verificare così che, vivendo la vita nella fede del Figlio di Dio che ha dato la Sua vita per noi, tutto diventa più vero] - nella fede l’umano diventa più vero [e questo o è un’esperienza nostra sempre più vera, che si avvera sempre di più, o noi possiamo continuare a “rimanere” nel movimento e il nostro cuore essere spostato altrove, e non per cattiveria, ma semplicemente perché non ci riesce a prendere]».
«Tutto ciò deve diventare vero in noi, ed è per questo che il tempo ci è dato. La ricerca del vero è l’avventura per cui il tempo è reso storia», acquista il suo valore come tempo. Altrimenti - dice - noi soccombiamo alla «tentazione dell’utopia» cioè a riporre, a scivolare riponendo «la nostra speranza e la nostra dignità in un “progetto” generato da noi» (Ibidem, pp. 61-62).

CIÒ CHE SALVA L’UOMO
A questo punto don Giussani fa l’elenco di tutti i passi della storia del movimento e dice: «Noi non siamo entrati nella scuola cercando di formulare un progetto alternativo per la scuola [fate attenzione, adesso]. Vi siamo entrati con la coscienza di portare Ciò che salva l’uomo anche nella scuola». E lo stesso possiamo dire di tutto. Poi racconta di quando questo cominciò ad annebbiarsi nel ’63 e nel ’64 e poi nel ’68. Ma guardate cosa dice: che cosa tradirono quelli che andarono via, quelli che non furono leali, fedeli a quell’inizio originale? Che cosa tradirono? La presenza. Che cosa tradiamo noi? La presenza, se noi non siamo radicati nell’inizio. Non la «non presenza», perché possiamo riempirci la vita di cose, come loro la riempivano di iniziative. Che cosa avevano tradito? Che cosa tradiamo noi? La presenza, non l’assenza. «Il progetto aveva sostituito la presenza» (Ibidem, pp. 63-64). Adesso lo capiamo bene. Noi abbiamo visto ciò che abbiamo guadagnato assecondando certi schieramenti, ma cominciamo solo ora a renderci conto di quanto abbiamo perso, in termini di presenza, di presenza originale, della nostra originalità. Dobbiamo decidere se diventare una fazione oppure una presenza originale. Questo non vuol dire che per essere di tutti occorra non essere di nessuno. Anzi. Per essere di tutti occorre essere di Uno, perché solo Lui può darci quella soddisfazione di cui parlava Davide, che ci rende liberi per essere veramente noi stessi, per essere una presenza originale e non reattiva.
Che cosa stiamo a fare al mondo? «La novità è la presenza [prosegue don Giussani] come consapevolezza di portare “addosso” qualcosa di definitivo - un giudizio definitivo sul mondo, la verità del mondo e dell’umano -, che si esprime nella nostra unità. La novità è la presenza come consapevolezza che la nostra unità è lo strumento per la rinascita e per la liberazione del mondo» (Ibidem, p. 65). Non possiamo sostituire questo con qualsiasi immagine o progetto che abbiamo in testa noi. Come ha scritto il cardinale Scola nella sua ultima Lettera pastorale: «Non si tratta di un progetto, tanto meno di un calcolo. Pieni di gratitudine i cristiani intendono “restituire” il dono che immeritatamente hanno ricevuto e che, pertanto, chiede di essere comunicato con la stessa gratuità» (A. Scola, Il campo è il mondo, Lettera pastorale, Centro Ambrosiano, Milano 2013, p. 40).
Perché ci viene la tentazione di sostituire la fede con un progetto? Perché pensiamo che la fede, la comunità cristiana come presenza, non sia abbastanza incidente, non sia in grado di cambiare la realtà e per questo crediamo di dover aggiungere noi qualcosa, non come espressività di quello che noi siamo - è inevitabile che ci si esprima -, ma come aggiunta perché mancherebbe qualcosa alla fede per essere concreta, come se a Gesù mancasse qualcosa e dovesse aggiungere qualcosa d’altro alla testimonianza di Sé; lo hanno pensato tutti coloro che credevano che il cristianesimo vissuto nella tradizione non bastasse per essere presenti, e noi pensiamo che il movimento a volte non basti. Perciò questa è un’occasione preziosa per approfondire la questione: che cosa siamo? Che cosa stiamo a fare al mondo?
«La novità - dice sempre don Giussani - è la presenza di questo avvenimento di affezione nuova e di nuova umanità, è la presenza di questo inizio del mondo nuovo che noi siamo. La novità non è l’avanguardia, ma il Resto d’Israele, l’unità di coloro per i quali ciò che è accaduto è tutto [non un pezzo a cui occorre aggiungere qualcosa d’altro; ciò che è accaduto è tutto!] e che aspettano solo il manifestarsi della promessa, il realizzarsi di quello che è dentro l’accaduto. La novità non è, dunque, un futuro da perseguire, non è un progetto culturale, sociale e politico: la novità è la presenza. [Che peso acquistano, adesso, queste parole! Lo vediamo testimoniato ogni giorno da papa Francesco: non ha bisogno d’altro del fatto di porsi, lui disarmato, davanti a tutti perché] essere presenza non vuol dire non esprimersi: anche la presenza è un’espressività» [ma è una cosa ben diversa] (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 65-66).
La differenza risiede nella diversità dell’espressività.
«L’utopia ha come modalità di espressione il discorso, il progetto e la ricerca ansiosa di strumenti e di forme organizzative. La presenza ha come modalità di espressione un’amicizia operante, gesti di una soggettività diversa che si pone dentro tutto, usando di tutto (i banchi, lo studio, il tentativo di riforma dell’università, eccetera), e che risultano prima di tutto gesti di umanità reale, cioè di carità. Non si costruisce una realtà nuova con dei discorsi o dei progetti organizzativi, ma vivendo gesti di umanità nuova nel presente». Ciascuno di noi, ogni comunità deve pensare a questo: come possiamo porre nel reale gesti di umanità reale, cioè di carità. Non è, dunque, «l’abolizione di una responsabilità», ma è una modalità diversa di concepire la responsabilità. «Ho indicato ciò che deve accadere affinché noi abbiamo a lavorare di più, a incidere di più nella realtà, e in una letizia sempre più grande, non in un logorio e in una amarezza che ci dividono gli uni dagli altri. Il compito che ci aspetta è l’espressione di una presenza consapevole, capace di criticità e di sistematicità. Tale compito implica un lavoro. Il lavoro è il porsi della nostra identità dentro la materialità del vivere. La mia identità, in quanto penetra la materialità del vivere, cioè in quanto è dentro la condizione esistenziale, lavora e mi fa reagire» (Ibidem, pp. 66, 69).
Tutte queste cose ce le diceva nel ’76, ma negli anni ’90 don Giussani insiste di nuovo, e arriva a radicalizzare ancora di più la questione: «Dall’Equipe del 1976, il cui titolo era Dall’utopia alla presenza è stato fatto un cammino che ci spinge ora a sfondare e sfrondare la parola presenza: bisogna sfondarla e sfrondarla [...] perché la presenza è nella persona, solo ed esclusivamente nella persona, in te [cioè nella creatura nuova]. La presenza è un argomento che coincide con il tuo io. La presenza nasce e consiste nella persona. [...] E quello che definisce la persona come attore e protagonista di una presenza è la chiarezza della fede [lo vediamo bene in papa Francesco], è quella chiarezza della coscienza che si chiama fede, quella chiarezza della coscienza che naturalmente si chiama intelligenza, perché la fede è l’aspetto ultimo dell’intelligenza, è l’intelligenza che raggiunge il suo orizzonte ultimo, che identifica il suo destino, identifica ciò di cui tutto consiste, identifica la verità delle cose, identifica dove stia il giusto e il bene, identifica la grande presenza, quella grande presenza che permette la manipolazione trasfigurante delle cose, per cui le cose diventano belle, le cose diventano giuste, le cose diventano buone e tutto si organizza nella pace. La presenza è tutta quanta consistente nella persona, nasce e consiste nella persona e la persona è intelligenza della realtà fino a toccare l’orizzonte ultimo» (L. Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo. 1990-1991, Bur, Milano 2013, pp. 142-143).
È per questo che le due domande - «Come si fa a vivere?» e «Cosa stiamo a fare al mondo?» - vanno insieme. Il fattore che le unisce è la persona, perché possiamo illuderci riempiendo la vita di iniziative per evitare di convertirci a Lui. Ma come è diverso quando le iniziative sono espressione di questa conversione, della nostra appartenenza a Lui. Come ci ricorda don Giussani, «la presenza di Cristo, nella normalità del vivere, implica sempre di più il battito del cuore: la commozione della Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana e illumina, intenerisce, abbellisce, rende dolce il tenore della vita quotidiana, sempre di più. Non c’è niente di inutile, non c’è niente di estraneo, perché non c’è niente di estraneo al tuo destino, e perciò non c’è niente a cui non ci si possa affezionare [non: sopportare, ma: affezionare!], a tutto ci si affeziona, nasce un’affezione a tutto, tutto, con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai, di precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta, di tenacia nel perseguire il suo fine; diventi più instancabile». Come dice un pezzo del profeta Isaia: «Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Ibidem, pp. 103-104, VII).

UNA LETIZIA GENERATIVA
Quando questo penetra fino nel fondo del nostro essere, riempie la vita di letizia. E questa è la cartina ultima di tornasole che ci lascia don Giussani. Quante persone conosciamo veramente liete? Perché senza letizia, non c’è generazione, non c’è presenza. È la letizia che lega le due domande, «Come si fa a vivere?» e «Cosa stiamo a fare al mondo?», perché senza una risposta per la prima, non c’è risposta neppure per la seconda; e quindi non c’è letizia. Don Giussani insiste che la condizione del generare è la letizia: «La letizia è il riverbero della certezza della felicità, dell’Eterno, e si forma di certezza e di volontà di cammino [una certezza che ci mette in cammino], di coscienza del cammino che si sta compiendo [...]. “Con questa letizia è possibile guardare con simpatia tutto” [con la letizia, con questa letizia è possibile generare diversamente le cose] [...], perché guardare con simpatia uno che è antipatico è generare una cosa nuova nel mondo, è generare un avvenimento nuovo. La letizia è la condizione per la generazione, la gioia è la condizione per la fecondità. Essere lieti è condizione indispensabile per generare un mondo diverso, una umanità diversa. Ma abbiamo una figura in questo senso che dovrebbe esserci di consolazione o di consolante sicurezza, che è Madre Teresa di Calcutta. [...] La sua è una letizia generativa, feconda: non muove un dito, senza cambiare qualche cosa. E la sua letizia non sono zigomi che si rattrappiscono in un riso forzoso, artificioso, no, no, no! È tutta profondamente attraversata dalla tristezza delle cose, come la faccia di Cristo [...]. [Ma] la tristezza essendo condizione passeggera [è] condizione del cammino [...] [perciò] perfino il nostro male non [ci] può togliere la letizia; [...] la letizia è come il fiore del cactus, che nella pianta piena di spine genera una cosa bella» (Ibidem, pp. 240-241).

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