INIZIO DI UNA CONOSCENZA NUOVA
***
È soltanto se una
Presenza così potente invade la nostra vita che non abbiamo bisogno di
mettere il braccio davanti al volto per difenderci dai colpi delle
circostanze e così poter vivere. Eppure tante volte noi siamo talmente
feriti dal contraccolpo delle circostanze che si blocca il cammino della
conoscenza, e allora tutto diventa veramente soffocante, perché è come
se vedessimo la realtà soltanto per il buco della ferita. Come Maria,
che guardava la realtà attraverso il suo pianto e non vedeva più altro:
neanche riconosce Gesù! Allora appare Lui, la chiama per nome, e riapre
la partita, le consente di riconoscerLo, di cominciare a guardare la
realtà diversamente, perché la Sua presenza è più potente di ogni ferita
e di ogni pianto, e allora ci spalanca di nuovo lo sguardo per poter
vedere la realtà nella sua verità. «Fu guardato e allora vide», diceva
sant’Agostino di Zaccheo (Sant’Agostino, Discorso 174, 4.4).
Amici, come sarebbe diversa la vita se ciascuno di noi lasciasse entrare
quello sguardo, qualsiasi fosse la nostra ferita!
È per questo che
Giussani insiste sul fatto che Gesù è entrato nella storia per educarci a
una conoscenza vera del reale, perché noi pensiamo di sapere già che
cosa sia la realtà, ma senza di Lui ci assale la paura, ci blocchiamo e
quindi soffochiamo nelle circostanze. Invece con Gesù tutto si riapre, è
come se Lui ci dicesse: «Guardate che io sono venuto per educarvi al
vero rapporto con il reale, a quell’atteggiamento giusto che vi consente
uno sguardo nuovo sul reale». Se noi non facciamo esperienza di questo,
lasciando entrare in continuazione il Suo sguardo, la Sua presenza,
viviamo la realtà come tutti. È soltanto se Gesù entra e rende possibile
la conoscenza nuova che noi possiamo introdurre nel mondo una modalità
diversa di stare nella realtà. Tutte le circostanze ci vengono date per
questo, per provocarci a questa conoscenza nuova, per vedere che cosa è
Gesù: una Presenza che ci consente di vivere il reale in un modo
diverso, nuovo. E questo ci fa scoprire che tutte le circostanze non
sono una obiezione, come tante volte noi le guardiamo, perché non siamo
in grado di vedere l’attrattiva che hanno dentro, tanto siamo definiti
dalla ferita; le abbiamo già ridotte perché noi pensiamo già di sapere
che cosa sia la circostanza, pensiamo già di sapere che non c’è niente
di nuovo da scoprire dentro di essa, che c’è solo da sopportare e che ci
resta solo il tentativo moralistico di vedere se siamo all’altezza di
sopportare quel soffocamento.
E invece soltanto se riaccade una
Presenza come quella accaduta alla Maddalena, il percorso della
conoscenza non si blocca, lo sguardo si spalanca, perché noi abbiamo
molto di più del «sapere» le risposte a tutte le obiezioni o a tutte le
sfide, noi abbiamo «la» risposta; ma la risposta non consiste, come noi
pensiamo, nell’avere le istruzioni per l’uso per vivere, perché
l’istruzione per l’uso è diventata carne, è una Presenza, è il Verbo, il
contenuto è una presenza, il contenuto è un Tu, il Tu che ha raggiunto
Maria. Per questo se la verità è slegata, priva di questa relazione, non
si capisce. Come ha scritto papa Francesco a Eugenio Scalfari: «La
verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù
Cristo. Dunque, la verità è una relazione!» (Francesco, «Lettera a chi
non crede», op. cit., p. 2). Come è per il bambino: il bambino sa di non
sapere tante cose, ma una cosa la sa: che ci sono il papà e la mamma
che le sanno, allora che problema c’è? Se io sono certo (questo è il
valore della certezza di cui parlava Davide Prosperi) di questa Presenza
che invade la vita, posso affrontare qualsiasi circostanza, qualsiasi
ferita, qualsiasi obiezione, qualsiasi contraccolpo, qualsiasi attacco,
perché tutto questo mi spalanca ad aspettare la modalità con cui il
Mistero si farà vivo per suggerirmi la risposta - per accompagnarmi a
entrare perfino nel buio -, che avverrà secondo un disegno che non è il
mio.
Che diversità nel modo di stare nel reale quando uno ha delle
domande, quando uno ha delle questioni aperte, perché è lì, quando
recita le Lodi o quando fa silenzio o quando ascolta un amico o quando
prende il caffè o quando legge il giornale, che è tutto teso a scoprire,
a intercettare qualsiasi briciola di verità che possa venirgli
incontro! Così tutto diventa interessante, perché se io non avessi la
domanda, se io non avessi la ferita, se io non avessi un’apertura
totale, nemmeno potrei rintracciarla, non me ne renderei neanche conto.
Per questo il nostro è un «cammino umanissimo», non fatto di
allucinazioni o di visioni, ma come partecipazione a una «avventura di
conoscenza» che ci fa scoprire sempre di più l’attrattiva che c’è dentro
qualsiasi limite, dentro qualsiasi difficoltà, perché qualsiasi
obiezione o qualsiasi circostanza, pur dolorosa, ha sempre dentro
qualcosa di vero, altrimenti non ci sarebbe.
CHE COSA STIAMO A FARE AL MONDO?
È
da qui, da un’esperienza così del vivere che possiamo rispondere alla
domanda: «Che cosa stiamo a fare al mondo?». Noi stiamo capendo sempre
di più, non malgrado le circostanze, ma proprio attraversando le
circostanze, quale è il nostro compito. Come è successo, tra l’altro,
sempre nella vita del movimento, ce lo ricorda don Giussani, e adesso
possiamo capire molto meglio quanto ci diceva nel ’76, perché il ’76 era
stato l’esito di avere attraversato momenti della vita del movimento in
cui era venuto a galla che cosa significasse il nostro essere nel
mondo; allora diceva che ci sono due possibilità di essere presenti nel
reale: come «presenza reattiva», cioè che viene fuori da una nostra
reazione, o come «presenza originale», cioè che nasce da quello che ci è
capitato.
«Reattiva significa determinata dai passi di ciò che non è
noi: porsi [nel reale] con iniziative, utilizzare discorsi, realizzare
strumenti non generati come modalità totale dalla nostra personalità
nuova, ma suggeriti dall’uso di parole, dalla realizzazione di
strumenti, dalla modalità di atteggiamento e di comportamento degli
avversari». Siccome «giochiamo ancora sul terreno degli altri», definito
dagli altri, allora «una presenza reattiva non può che cadere in due
errori: o diventa una presenza reazionaria, attaccata cioè alle proprie
posizioni come “forme”, senza che i contenuti [...] siano così chiari da
essere resi vita [...]; oppure [è soltanto un’] imitazione degli altri». Invece, «una presenza originale [è] una presenza secondo la nostra originalità» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza. 1975-1978,
Bur, Milano 2006, pp. 52, 65). Cioè, presenza è realizzare la comunione
con Cristo e tra di noi. Ciò che Maria, Matteo, Zaccheo introducono nel
reale è una posizione definita da quella comunione con Lui che ha
generato la Sua commozione, comunicata nel dire il loro nome. E quando
questo succede a ciascuno di noi, la comunione tra di noi si esprime
come presenza secondo la nostra originalità.
UNA PRESENZA ORIGINALE
«Una
presenza è originale quando scaturisce dalla coscienza della propria
identità e dall’affezione a essa, e in ciò trova la sua consistenza» (Ibidem,
p. 52), perché è ciò che soddisfa veramente la vita, come ci ha detto
sempre Giussani citando san Tommaso: «La vita dell’uomo consiste
nell’affetto che principalmente lo sostiene e nel quale trova la più
grande soddisfazione» (Summa Theologiae, IIa, IIae, q. 179, a. 1 co.). La consistenza della vita è lì dove noi troviamo la più grande soddisfazione.
Qual è, dunque, la nostra identità? «Identità è sapere chi siamo e perché esistiamo,
con una dignità che ci dà il diritto a sperare dalla nostra presenza
“un meglio” per la nostra vita e per la vita del mondo». E chi siamo
noi? «Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù,
perché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete immedesimati
con Cristo. Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più né schiavo né
libero; non c’è più né uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in
Cristo Gesù» (cfr. Gal 3,26-28). Ma quello che è successo nel
Battesimo, per noi si è reso storicamente e consapevolmente percepibile
nell’incontro con il movimento; solo allora abbiamo capito la portata di
quello che era accaduto, di quella lotta che Cristo ha cominciato con
noi nel Battesimo per conquistarci, come vir pugnator. Noi
abbiamo preso consapevolezza di essa quando, incontrando il movimento,
siamo stati conquistati attraverso quella modalità con cui è stato detto
il nostro nome. E allora abbiamo capito che cosa vuol dire san Paolo
quando scrive: «Voi che siete stati afferrati, vi siete immedesimati con
Cristo» (cfr. Gal 3,27).
«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv
15,16). «È una scelta oggettiva che non ci strappiamo più di dosso, è
una penetrazione del nostro essere che non dipende da noi e che non
possiamo più cancellare [questa è la nostra identità]. [...] Non esiste
niente [dice don Giussani] di culturalmente più rivoluzionario di tale
concezione della persona, il cui significato, la cui consistenza è una
unità con Cristo, con un Altro, e, attraverso questa, una unità con
tutti coloro che Egli afferra, con tutti coloro che il Padre Gli dà
nelle mani» (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit.,
pp. 53-54). È questo che noi dobbiamo capire perché, lo vediamo nel
piccolo della nostra vita, questa concezione della nostra persona - che è
tale soltanto perché c’è Uno che ridice il nostro nome, altrimenti
saremmo ancora lì a piangere per il fatto di vivere - non è
un’astrazione, è un’esperienza prima che una concezione; e proprio da
questo scaturisce un’autocoscienza di noi che è come quella nata in
Maria, che non ha potuto più guardare a se stessa come prima, ma tutta
determinata da quel «Maria!».
«La nostra identità è l’essere immedesimati con Cristo.
L’immedesimazione con Cristo è la dimensione costitutiva della nostra
persona. Se Cristo definisce la mia personalità, voi, che siete
afferrati da Lui, entrate necessariamente nella dimensione della mia
personalità. [...] [Per questo] sia che mi trovi da solo nella mia
stanza, sia che ci troviamo in tre a studiare in università, in venti
alla mensa [...], dovunque e comunque questa è la nostra identità. Il
problema è perciò l’autocoscienza, il contenuto della coscienza di noi
stessi: “Vivo, non io, sei Tu che vivi in me” [Perciò la nostra identità
si manifesta in questa autocoscienza nuova]. Questo è il vero uomo nuovo
nel mondo - l’uomo nuovo che fu il sogno di Che Guevara e il pretesto
mentitore di rivoluzioni culturali con cui il potere ha tentato e tenta
di aver in mano il popolo, per soggiogarlo secondo la propria ideologia
-; e nasce innanzitutto non come coerenza, ma come autocoscienza nuova».
«La nostra identità si manifesta in un’esperienza nuova dentro di noi [nel modo di vivere qualsiasi circostanza e qualsiasi sfida del reale] e tra di noi: l’esperienza dell’affezione a Cristo e al mistero della Chiesa, che nella nostra unità trova la sua concretezza più vicina. L’identità è l’esperienza viva dell’affezione a Cristo e alla nostra unità».
«La
parola “affezione” è la più grande e comprensiva di tutta la nostra
espressività. Essa indica molto più un “attaccamento” che nasce dal
giudizio di valore - dal riconoscimento di quello che c’è in noi e tra
di noi - che una facilità sentimentale, effimera, labile come foglia in
balìa del vento. E nella fedeltà al giudizio, cioè nella fedeltà alla
fede, con l’età, tale attaccamento cresce, diventa più turgido, vibrante
e potente».
UN FATTO DENTRO IL QUALE NAUFRAGARE
«Questa esperienza viva di Cristo e della nostra unità è il luogo della speranza, perciò della scaturigine del gusto della vita e del fiorire possibile della gioia - che non è costretta a dimenticare o a rinnegare nulla per affermarsi -; ed è il luogo del recupero di una sete di cambiamento della propria vita,
del desiderio che la propria vita sia coerente, muti in forza di quello
che essa è al fondo, sia più degna della Realtà che ha “addosso”».
«Dentro
l’esperienza di Cristo e della nostra unità vive la passione per il
cambiamento della propria vita [non della giustificazione dei nostri
errori!]. Ed è il contrario del moralismo: non una legge cui essere
adeguati, ma un amore cui aderire, una presenza da seguire sempre di più
con tutto se stessi [mamma mia!], un fatto dentro il quale realmente
naufragare [per essere avvolti tutti da questo amore senza fondo e senza
limiti: «un fatto dentro il quale realmente naufragare»]. [...] Il
desiderio del cambiamento di sé, pacato, equilibrato, e nello stesso
tempo appassionato, diventa allora una realtà quotidiana [il desiderio
di essere Suoi, di appartenerGli di più, di cercarLo in continuazione] -
senza ombra di pietismo o di moralismo -, un amore alla verità del
proprio essere [di ricercatore della persona amata], un desiderio bello e
scomodo come una sete» (Ibidem, pp. 54-56).
Ma tutto
questo deve diventare maturo, perché siamo ancora confusi, dice sempre
don Giussani. Se questo inizio piccolo, embrionale, non diventa maturo,
alla prima tempesta è travolto. Noi non potremo più resistere «se
quell’accento iniziale non diventa maturo: non possiamo più portare da
cristiani l’enorme montagna di lavoro, di responsabilità e di fatiche a
cui siamo chiamati. Non si coagula, infatti, la gente con delle
iniziative [non è questo che dà consistenza]; ciò che coagula è
l’accento vero di una presenza, che è dato dalla Realtà che è tra noi e
che abbiamo “addosso”: Cristo e il Suo mistero reso visibile nella
nostra unità».
«Proseguendo nell’approfondimento dell’idea di
presenza - continua don Giussani -, occorre allora ridefinire la nostra
comunità. La comunità non è un coagulo di gente per realizzare
iniziative [1976!], non è il tentativo di costruire una organizzazione
di partito [1976!]: la comunità è il luogo della effettiva costruzione della nostra persona,
cioè della maturità della fede. [Ciascuno deve decidere se seguire don
Giussani o seguire le proprie idee riguardo a quello che dice
Giussani]».
«Scopo della comunità è generare adulti nella fede.
È di adulti nella fede che il mondo ha bisogno, non di bravi
professionisti o di lavoratori competenti, perché di questi la società è
piena, ma tutti sono profondamente contestabili nella loro capacità di
creare umanità».
«Il metodo con cui la comunità diventa luogo di costruzione di maturità della fede per la persona è [...]: “seguire”. [...] Seguire vuol dire immedesimarsi con persone che vivono con più maturità la fede, [attenzione!] coinvolgersi in un’esperienza viva, che “passa” (tradit,
tradizione) il suo dinamismo e il suo gusto dentro di noi [questo è il
naufragare in un’esperienza viva, in un fatto]. Questo dinamismo e
questo gusto passano in noi non attraverso i nostri ragionamenti, non al
termine di una logica, ma quasi per pressione osmotica [guardate!]: è
un cuore nuovo che si comunica al nostro, è il cuore di un altro che
incomincia a muoversi dentro la nostra vita [altro che istruzioni per
l’uso o fare soltanto quello che dicono gli altri! Ma il cuore di un
Altro che comincia a vibrare dentro il nostro cuore]».
«Da qui sorge l’idea fondamentale della nostra pedagogia dell’autorità:
veramente autorevoli per noi sono le persone che ci coinvolgono con il
loro cuore, con il loro dinamismo e con il loro gusto, nati dalla fede.
Ma autorevolezza reale è allora la definizione dell’amicizia».
«L’amicizia vera è la compagnia profonda al nostro destino
[...] [per questo mi viene sempre in mente l’immagine a noi così
familiare di Pietro e Giovanni, con gli occhi spalancati mentre corrono
al sepolcro, insieme tesi al destino. Ciascuno può fare il paragone con
il concetto solito di amicizia che vive. Insieme tesi al destino. Non
“non amicizia”, ma che amicizia!]. E non è questione di temperamento
[...]: l’amicizia vera si sente nel cuore della parola e nel gesto della
presenza» (Ibidem, pp. 57-59). È necessario che tutto entri
nella vita così, «la fede come “reagente” sulla vita concreta, in modo
tale che siamo condotti a vedere l’identità tra la fede e l’umano reso
più vero [possiamo verificare così che, vivendo la vita nella fede del
Figlio di Dio che ha dato la Sua vita per noi, tutto diventa più vero] -
nella fede l’umano diventa più vero [e questo o è un’esperienza nostra
sempre più vera, che si avvera sempre di più, o noi possiamo continuare a
“rimanere” nel movimento e il nostro cuore essere spostato altrove, e
non per cattiveria, ma semplicemente perché non ci riesce a prendere]».
«Tutto
ciò deve diventare vero in noi, ed è per questo che il tempo ci è dato.
La ricerca del vero è l’avventura per cui il tempo è reso storia»,
acquista il suo valore come tempo. Altrimenti - dice - noi soccombiamo
alla «tentazione dell’utopia» cioè a riporre, a scivolare riponendo «la
nostra speranza e la nostra dignità in un “progetto” generato da noi» (Ibidem, pp. 61-62).
CIÒ CHE SALVA L’UOMO
A
questo punto don Giussani fa l’elenco di tutti i passi della storia del
movimento e dice: «Noi non siamo entrati nella scuola cercando di
formulare un progetto alternativo per la scuola [fate attenzione,
adesso]. Vi siamo entrati con la coscienza di portare Ciò che salva l’uomo anche nella scuola».
E lo stesso possiamo dire di tutto. Poi racconta di quando questo
cominciò ad annebbiarsi nel ’63 e nel ’64 e poi nel ’68. Ma guardate
cosa dice: che cosa tradirono quelli che andarono via, quelli che non
furono leali, fedeli a quell’inizio originale? Che cosa tradirono? La
presenza. Che cosa tradiamo noi? La presenza, se noi non siamo radicati
nell’inizio. Non la «non presenza», perché possiamo riempirci la vita di
cose, come loro la riempivano di iniziative. Che cosa avevano tradito?
Che cosa tradiamo noi? La presenza, non l’assenza. «Il progetto aveva
sostituito la presenza» (Ibidem, pp. 63-64). Adesso lo capiamo
bene. Noi abbiamo visto ciò che abbiamo guadagnato assecondando certi
schieramenti, ma cominciamo solo ora a renderci conto di quanto abbiamo
perso, in termini di presenza, di presenza originale, della nostra
originalità. Dobbiamo decidere se diventare una fazione oppure una
presenza originale. Questo non vuol dire che per essere di tutti occorra
non essere di nessuno. Anzi. Per essere di tutti occorre essere di Uno,
perché solo Lui può darci quella soddisfazione di cui parlava Davide,
che ci rende liberi per essere veramente noi stessi, per essere una
presenza originale e non reattiva.
Che cosa stiamo a fare al mondo? «La novità è la presenza
[prosegue don Giussani] come consapevolezza di portare “addosso”
qualcosa di definitivo - un giudizio definitivo sul mondo, la verità del
mondo e dell’umano -, che si esprime nella nostra unità. La novità è la
presenza come consapevolezza che la nostra unità è lo strumento per la
rinascita e per la liberazione del mondo» (Ibidem, p. 65). Non
possiamo sostituire questo con qualsiasi immagine o progetto che abbiamo
in testa noi. Come ha scritto il cardinale Scola nella sua ultima
Lettera pastorale: «Non si tratta di un progetto, tanto meno di un
calcolo. Pieni di gratitudine i cristiani intendono “restituire” il dono
che immeritatamente hanno ricevuto e che, pertanto, chiede di essere
comunicato con la stessa gratuità» (A. Scola, Il campo è il mondo, Lettera pastorale, Centro Ambrosiano, Milano 2013, p. 40).
Perché
ci viene la tentazione di sostituire la fede con un progetto? Perché
pensiamo che la fede, la comunità cristiana come presenza, non sia
abbastanza incidente, non sia in grado di cambiare la realtà e per
questo crediamo di dover aggiungere noi qualcosa, non come espressività
di quello che noi siamo - è inevitabile che ci si esprima -, ma come
aggiunta perché mancherebbe qualcosa alla fede per essere concreta, come
se a Gesù mancasse qualcosa e dovesse aggiungere qualcosa d’altro alla
testimonianza di Sé; lo hanno pensato tutti coloro che credevano che il
cristianesimo vissuto nella tradizione non bastasse per essere presenti,
e noi pensiamo che il movimento a volte non basti. Perciò questa è
un’occasione preziosa per approfondire la questione: che cosa siamo? Che
cosa stiamo a fare al mondo?
«La novità - dice sempre don Giussani - è la presenza di questo avvenimento di affezione nuova e di nuova umanità, è la presenza di questo inizio del mondo nuovo che noi siamo. La novità non è l’avanguardia, ma il Resto d’Israele, l’unità di coloro per i quali ciò che è accaduto è tutto [non
un pezzo a cui occorre aggiungere qualcosa d’altro; ciò che è accaduto è
tutto!] e che aspettano solo il manifestarsi della promessa, il
realizzarsi di quello che è dentro l’accaduto. La novità non è, dunque,
un futuro da perseguire, non è un progetto culturale, sociale e
politico: la novità è la presenza. [Che peso acquistano, adesso, queste
parole! Lo vediamo testimoniato ogni giorno da papa Francesco: non ha
bisogno d’altro del fatto di porsi, lui disarmato, davanti a tutti
perché] essere presenza non vuol dire non esprimersi: anche la presenza è
un’espressività» [ma è una cosa ben diversa] (L. Giussani, Dall’utopia alla presenza, op. cit., pp. 65-66).
La differenza risiede nella diversità dell’espressività.
«L’utopia
ha come modalità di espressione il discorso, il progetto e la ricerca
ansiosa di strumenti e di forme organizzative. La presenza ha come
modalità di espressione un’amicizia operante, gesti di una soggettività
diversa che si pone dentro tutto, usando di tutto (i banchi, lo studio,
il tentativo di riforma dell’università, eccetera), e che risultano
prima di tutto gesti di umanità reale, cioè di carità. Non si costruisce
una realtà nuova con dei discorsi o dei progetti organizzativi, ma
vivendo gesti di umanità nuova nel presente». Ciascuno di noi, ogni
comunità deve pensare a questo: come possiamo porre nel reale gesti di
umanità reale, cioè di carità. Non è, dunque, «l’abolizione di una
responsabilità», ma è una modalità diversa di concepire la
responsabilità. «Ho indicato ciò che deve accadere affinché noi abbiamo a
lavorare di più, a incidere di più nella realtà, e in una letizia
sempre più grande, non in un logorio e in una amarezza che ci dividono
gli uni dagli altri. Il compito che ci aspetta è l’espressione di una
presenza consapevole, capace di criticità e di sistematicità. Tale
compito implica un lavoro. Il lavoro è il porsi della nostra identità dentro la materialità del vivere. La mia identità, in quanto penetra la materialità del vivere, cioè in quanto è dentro la condizione esistenziale, lavora e mi fa reagire» (Ibidem, pp. 66, 69).
Tutte
queste cose ce le diceva nel ’76, ma negli anni ’90 don Giussani
insiste di nuovo, e arriva a radicalizzare ancora di più la questione:
«Dall’Equipe del 1976, il cui titolo era Dall’utopia alla presenza
è stato fatto un cammino che ci spinge ora a sfondare e sfrondare la
parola presenza: bisogna sfondarla e sfrondarla [...] perché la presenza
è nella persona, solo ed esclusivamente nella persona, in te [cioè
nella creatura nuova]. La presenza è un argomento che coincide con il
tuo io. La presenza nasce e consiste nella persona. [...] E quello che
definisce la persona come attore e protagonista di una presenza è la
chiarezza della fede [lo vediamo bene in papa Francesco], è quella
chiarezza della coscienza che si chiama fede, quella chiarezza della
coscienza che naturalmente si chiama intelligenza, perché la fede è
l’aspetto ultimo dell’intelligenza, è l’intelligenza che raggiunge il
suo orizzonte ultimo, che identifica il suo destino, identifica ciò di
cui tutto consiste, identifica la verità delle cose, identifica dove
stia il giusto e il bene, identifica la grande presenza, quella grande
presenza che permette la manipolazione trasfigurante delle cose, per cui
le cose diventano belle, le cose diventano giuste, le cose diventano
buone e tutto si organizza nella pace. La presenza è tutta quanta
consistente nella persona, nasce e consiste nella persona e la persona è
intelligenza della realtà fino a toccare l’orizzonte ultimo» (L.
Giussani, Un evento reale nella vita dell’uomo. 1990-1991, Bur, Milano 2013, pp. 142-143).
È
per questo che le due domande - «Come si fa a vivere?» e «Cosa stiamo a
fare al mondo?» - vanno insieme. Il fattore che le unisce è la persona,
perché possiamo illuderci riempiendo la vita di iniziative per evitare
di convertirci a Lui. Ma come è diverso quando le iniziative sono
espressione di questa conversione, della nostra appartenenza a Lui. Come
ci ricorda don Giussani, «la presenza di Cristo, nella normalità del
vivere, implica sempre di più il battito del cuore: la commozione della
Sua presenza diventa commozione nella vita quotidiana e illumina,
intenerisce, abbellisce, rende dolce il tenore della vita quotidiana,
sempre di più. Non c’è niente di inutile, non c’è niente di estraneo,
perché non c’è niente di estraneo al tuo destino, e perciò non c’è
niente a cui non ci si possa affezionare [non: sopportare, ma:
affezionare!], a tutto ci si affeziona, nasce un’affezione a tutto,
tutto, con le sue conseguenze magnifiche di rispetto della cosa che fai,
di precisione nella cosa che fai, di lealtà con la tua opera concreta,
di tenacia nel perseguire il suo fine; diventi più instancabile». Come
dice un pezzo del profeta Isaia: «Anche i giovani faticano e si
stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore
riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi» (Ibidem, pp. 103-104, VII).
UNA LETIZIA GENERATIVA
Quando
questo penetra fino nel fondo del nostro essere, riempie la vita di
letizia. E questa è la cartina ultima di tornasole che ci lascia don
Giussani. Quante persone conosciamo veramente liete? Perché senza
letizia, non c’è generazione, non c’è presenza. È la letizia che lega le
due domande, «Come si fa a vivere?» e «Cosa stiamo a fare al mondo?»,
perché senza una risposta per la prima, non c’è risposta neppure per la
seconda; e quindi non c’è letizia. Don Giussani insiste che la
condizione del generare è la letizia: «La letizia è il riverbero della
certezza della felicità, dell’Eterno, e si forma di certezza e di
volontà di cammino [una certezza che ci mette in cammino], di coscienza
del cammino che si sta compiendo [...]. “Con questa letizia è possibile
guardare con simpatia tutto” [con la letizia, con questa letizia è
possibile generare diversamente le cose] [...], perché guardare con
simpatia uno che è antipatico è generare una cosa nuova nel mondo, è
generare un avvenimento nuovo. La letizia è la condizione per la
generazione, la gioia è la condizione per la fecondità. Essere lieti è
condizione indispensabile per generare un mondo diverso, una umanità
diversa. Ma abbiamo una figura in questo senso che dovrebbe esserci di
consolazione o di consolante sicurezza, che è Madre Teresa di Calcutta.
[...] La sua è una letizia generativa, feconda: non muove un dito, senza
cambiare qualche cosa. E la sua letizia non sono zigomi che si
rattrappiscono in un riso forzoso, artificioso, no, no, no! È tutta
profondamente attraversata dalla tristezza delle cose, come la faccia di
Cristo [...]. [Ma] la tristezza essendo condizione passeggera [è]
condizione del cammino [...] [perciò] perfino il nostro male non [ci]
può togliere la letizia; [...] la letizia è come il fiore del cactus,
che nella pianta piena di spine genera una cosa bella» (Ibidem, pp. 240-241).
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