Voglio ritornare sul tema della depressione, perché ricevo molte lettere e incontro molte persone non solo in Italia, ma ovunque vada, che soffrono di questa malattia. Le tre lettere descrivono molto bene il dramma, o la disperazione, che colpisce tante persone e sono un grido di aiuto pieno di domande. Quelle domande che mi hanno torturato per anni senza che io vedessi una possibilità di risposta. È terribile sopportare la vita quando tutto offusca la mente e i fantasmi sembrano impadronirsene provocando un effetto di panico, angustia e disperazione. Tutte le malattie sono dolorose, ma quella che ti toglie la voglia di vivere è peggiore.
Molti mi chiedono: «Come guarire? Come sopportare? Esiste la libertà anche quando uno si trova incapace di scegliere? Cosa è la libertà in questa situazione?». Non pretendo di rispondere, né di dare ricette che non esistono, come sanno bene anche gli “esperti” della mente. Voglio solo offrire alcuni punti fermi in questo cammino che sto ancora percorrendo e che per me è il cammino che porta ad abbandonarmi ogni giorno al mio dolce e tenero Gesù. Quel Tu per il quale vivo e che ha manifestato il suo volto buono, misericordioso proprio dentro una storia carica di dolore, di rabbia, di disperazione. Dal primo momento in cui mi sono trovato sdraiato nella mia stanza senza nessuna voglia di vivere, l’unica cosa che la mia libertà è riuscita a fare è stata gridare come un pazzo: «Signore non ti vedo più, non sento più la tua voce, la tua tenerezza, abbi pietà di me». In quei momenti più tragici, passando anni senza dormire, mentre schiacciavo rabbioso la testa contro il cuscino gridavo: «Signore dove sei? Perché tanto dolore? Signore non ce la faccio più, prendimi per piacere». Era un grido apparentemente inutile, assurdo, un parlare contro la parete.
Dentro questa rabbia disperata, però, non ho mai messo da parte i due Sacramenti fondamentali del cammino della conversione: la Confessione e l’Eucarestia. La Confessione settimanale o più volte alla settimana e la Messa quotidiana. Nel tempo mi sono accorto che questi due sacramenti sono stati la risposta precisa e concreta al mio grido. Non solo, ma la fedeltà alla Confessione e all’Eucarestia è stata la modalità attraverso cui Dio, in modo discreto, manifestava il Suo volto, fino a diventare familiare, determinando la mia vita quotidiana. L’esperienza del «Io sono Tu che mi fai» è stata il punto drammatico di questa paziente attesa che il Mistero manifestasse il Suo volto.
Il secondo punto essenziale che mi ha permesso e che mi permette di vivere questo dolore, che oggi definisco una grazia (oggi dopo un lungo e duro cammino, dopo una decina e mezza di anni a “mordere la pietra”), è stata la compagnia di padre Alberto. Una compagnia nella quale la visibilità di Cristo era limpida come l’acqua che scende dalle Dolomiti. Un’amicizia che ogni mattina bussava alla porta della mia stanza quando non volevo vedere il giorno e mi chiamava cantandomi, con la sua voce priva di alcuna tonalità, una filastrocca che i suoi genitori gli cantavano la mattina quando era bambino. Ricordo ancora le parole in dialetto romagnolo: «Un bigatin, do bigatin, tri bigatin… Che buon brodo farà».
Gli intellettualoidi forse rideranno di una compagnia umana tra due sacerdoti che sono arrivati a tanto “infantilismo”. Ma la coscienza che lui aveva di Cristo gli permetteva di farsi, come direbbe san Paolo, bambino tra i bambini, debole tra i deboli. Una compagnia reale, non virtuale, una compagnia che non ha mai anteposto gli impegni di Comunione e liberazione o della parrocchia alla mia umanità distrutta. È stato un abbraccio quotidiano. Un abbraccio difficile, perché convivere con un depresso è un’impresa complicata: un giorno uno deve usare il bastone e l’altro giorno una carezza. Quante volte per risvegliarmi dall’abitudine di piangermi addosso, caratteristica del vittimismo dei nevrotici, ha perso la pazienza! Finché un giorno l’ho persa anche io. È stato un miracolo dopo anni di passività. Finalmente il mio io cominciava a reagire, ad arrabbiarsi con lui. La mia libertà, che prima era solo un grido disperato, cominciò a riconoscere in padre Alberto questo «Io sono Tu che mi fai». Vedendo come lui mi aveva trattato e come aveva donato tutti i suoi anni (10) di missionario in Paraguay per farmi compagnia, come don Giussani gli aveva chiesto, ho pazientemente preso coscienza della tenerezza con la quale il Mistero mi guardava. Senza la tenerezza di padre Alberto, senza il suo sguardo forte e dolce, come Gesù con Zaccheo, non sarebbe stato possibile il miracolo. Grazie a questa compagnia, come afferma don Giussani nel libro "Ciò che abbiamo di più caro", ho potuto nel tempo non scandalizzarmi della mia “pazzia”, ma accettarla. Grazie all’abbraccio di un uomo il cui cuore vibrava per Cristo.
Non conosco altra strada per convivere ironicamente con questa malattia che una compagnia sacramentale. Inoltre mi ha aiutato, e mi aiuta, pensare a Gesù che nel Getsemani e sulla croce è stato un esempio di come vivere la depressione e come trasformarla in grazia. Cosa ha permesso a Gesù di percorrere questo cammino drammatico? La compagnia del Padre!
La cosa interessante è stato il fatto che ha cercato la compagnia degli amici, ma loro, come succede in questi casi, “avevano sonno” o come molti ai quali chiediamo aiuto e ci rispondono che non hanno tempo o ci rimandano agli specialisti. Quanti religiosi o preti ho incontrato in questa situazione di abbandono da parte dei loro superiori che, avendo sempre molto da fare, invece di tenerli al loro fianco hanno preferito isolarli. E poi parliamo di carità sacerdotale o religiosa! I depressi prima di tutto hanno bisogno di una compagnia umana come quella di Gesù con i suoi discepoli, una compagnia quotidiana con la quale condividere tutto. Senza questa compagnia non esiste guarigione ed è impossibile percepire la depressione come una grazia.
paldo.trento@gmail.com
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