Paolo Pecciarini. Una
cosa particolare vorremmo che emergesse questa sera: la parola vita.
Vorremmo chiedere a don Giussani, cioè ad un amico più grande, come è
possibile ritrovare tutto il valore vero della vita nel quotidiano, cosi
che si realizzi la nostra felicità.
Don Luigi Giussani. Prima di tutto dobbiamo avere la sincerità di ricordarci l’amore alla vita e il desiderio di soddisfazione di felicità:
quando abbiamo cantato prima “ ma l’amaro, I’amaro che c’è in mesarà
mutato in allegria”… dobbiamo avere la sincerità, grandi e piccoli, di
affermare che questo è il progetto, il programma che non sipuò eliminare
mai. Viviamo per il desiderio di contentezza, di soddisfazione, di
felicità. Che l’amaro si muti in allegria è l’ispirazione, il criterio
in tutto quello che facciamo: scegliarno un cinema invece di un altro,
scegliamo una compagnia invece che un’altra, ecc. Ci rassegniamo a
studiare o a lavorare purché l’ amaro ad un certo punto sia mutato in
allegria. Questo è giusto. Infatti è ciò che rivela, come diceva il
nostro padre Dante, la natura dell’uomo. Dante infatti dice ad un certo
punto:” ciascuno confusamente un bene apprende per il qual si queti
l’animo e desira…” Ognuno confusamente intuisce un bene nel quale
l’animo si quieti, vale a dire, nel quale raggiunga una soddisfazione
intera cioè la parola che solo religiosamente si puo pronunciare con
serietà: la parola felicità. “… E desira…” desidera e questa è l’arte
fondamentale della vita; è come la scintilla che accende il motore per
ogni azione e ognuno si sforza, vi tende a fatica. Questa è la natura
dell’uomo secondo la tradizione cristiana.
La frase piu carica di sfida che abbia detto Cristo è stata quella
che pronunciò in certe circostanze, quando disse: “Che importa se tu
prendi tutto quello che vuoi e poi smarrisci te stesso?” oppure “Che
darà l’uomo in cambio di sé?” Ma che importa se l’uomo …. Ecco, diceva
Leopardi: “forse se avessi io l’ale da volar su le nubi e noverar le
stelle ad una ad una, o come il tuono errar di giogo in giogo, piu
felice sarei, dolce mia greggia….” Leopardi è vissuto 150 anni fa e
l’uomo adesso è arrivato a salire oltre le nubi con i jet, numera le
stelle ed erra di montagna in montagna; si può dire che dopo 150 anni
sia piu felice?
Un “io” sorpreso dalla gioia
La domanda resta inesausta perche la natura dell’uomo è in rapporto con qualcosa di infinito e non c’è niente da fare.
Provate a pensare all’astronauta che arrivasse per primo sulla
stella Andromeda, poi torna fra gli osanna di tutti va a casa e trova
che la moglie lo ha tradito. Se non è un cinico, senza sensibilità e
senza umanità e pieno di infelicità, la prima cosa lo tocca – la gloria,
il riuscire a fare qua!cosa di grande – ma la seconda cosa lo tocca
proprio come “io” e il senso di insoddisfazione e di incompletezza che
ne deriva distrugge. C’è un nucleo dentro tutta la realta cosmica, un
nucleo che è come un niente ma è un niente che vale più di tutto il
cosmo messo assieme, quando uno dice “io”.
E’ giusto che il criterio della vita sia questo:“Che l’amaro sia
mutato in allegria”. E non diciamo che questa è una illusione! C’e stato
uno, nei primi anni dopo la morte di Cristo, uno che è ben noto
storicamente, un uomo forrmidabile, che ha girato tutto il mondo di
allora sostenuto da una forza personale incandescente e comunque
raramente incontrabile nella storia: si chiamava Paolo e scrive “Io sono
pieno di gioia nella mia tribolazione”. Prima di lui Dio disse la sera
in cui l’avrebbero preso per ammazzare: “lo vi ho dato quello che vi ho
dato affinché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”. E’
proprio questa la parola con cui il fatto cristiano sfida il mondo e
tutte le teorie possibili e immaginabili: la possibilità della gioia è
esclusivamente un fenomeno cristiano, perche la possibilita della gioia
implica che la vita abbia fatto un incontro nel quale abbia trovato la
certezza, nonostante tutta la propria fragilità. La quale, non solo
rimane, ma aumenta come consapevolezza: il senso del proprio niente e
soprattutto il dolore acuto della propria incoerenza di quello che si
chiama peccato.
Nonostante tutto questo, anzi, mentre tutto questo senso del proprio
limile fisico e morale, psicologico ed etico permane, aumenta una
capacità di certezza, un’esperienza di certezza come un’evidenza, una
certezza sulla quale si fonda la vita e il tempo come continuo e sereno e
lieto recupero, ripresa. Non per nulla il mistero cristiano principale è
la Pasqua, che è il fatto della resurrezione, che vuol dire passaggio
dal negativo al positivo: questa stupefacente capacità che il fatto
cristiano ha di rendere positivo tutto. E’ una frase di quell’uomo di
cui accennavo prima, Paolo: “tutto – dice ad un certo punto nella sua
lettera – coopera al bene per coloro che tendono a Dio”. E
Sant’Agostino, che aveva fatto una lunga esperienza a riguardo aggiunge:
“ Etiam mala”, anche i nostri mali, anche i nostri peccati, anche i
nostri errori. Ecco, questa proposta e questa speranza è cio che ci fa
superare l’impaccio e non ci fa sentire vergognosi ad affrontare
chiunque, come io stasera affronto voi che al 99% non conosco ma che
avete con me una consanguineità che supera qualsiasi consanguineità di
altro ordine, quale desiderio, quale natura di quel desiderio a cui io
ho accennato prima, quel destino di felicità cui ho accennato prima; e
ancora di più il fatto che tutti ci troviamo dentro quell’alveo
benedetto che è la tradizione cristiana, l’annuncio cristiano, vale a
dire il grido di sicurezza, la promessa, la promessa di positività alla
vita.
Cristo, Uno tra noi, in questo mondo
Perciò nella tua
domanda, la prima cosa che vorrei sottolineare è la giustezza della
combinazione vita e felicità; non una astrazione giovanilistica, non un
sogno adolescenziale ma una proposta reale alla vita reale. Mi dispiace
che io, evidentemente, non mi sono organizzato a queste domande, ma
avessi portato soltanto un po’ di quelle lettere che metto da parte,
basterebbe leggerne tre o quattro di adolescenti, giovani, vecchi, di
figli o di genitori, sempre da condizioni eccezionalmente disagiate (ma
comunque questo può essere sentito anche come una affermazione gratuita)
è esattamente la sfida, per usare il termine messo a tema, che la
tradizione cristiana attraverso questa mia voce fessa e questa mia
pronuncia che vi deve far orrore, è la sfida che fa alla vita di ognuno
di voi, che abbiate i capelli bianchi o siate appena sbucati
dall’oscurità dell’infanzia.
Ma la seconda cosa, che ho già toccato senza accorgermene, è che
questa sfida non può venire, non viene da sé. Un solo Uomo in tutta la
storia del mondo, in tutta la storia del pensiero, della religione, Uno
solo ha osato dire: “Io sono la Via, la Verita, la Vita”. I piu grandi
nomi hanno detto: “io vi indicherò la strada”, come Buddha, come Mosé,
come Maometto, “io vi guiderò per la strada che un Altro mi indicherà”.
Un Uomo ha osato dire: “ Io sono la Via, la Verità, la Vita”. Ho chiesto
un Vangelo per leggervi questo piccolo brano, Capitolo IV del Vangelo
di San Luca. La storia è risaputa almeno negli anziani perché Gesù era
stato per trent’anni uno come tutti gli altri, improvvisamente comincia a
far parlare di sé, esce dal suo paese e per le strade, per le piazze,
comincia a discorrere e la gente si raggruma vicino a lui.
Possiede un potere strano per cui gli ammalati sono guariti, tutta
la Galilea, tutta la regione ne parla e quelli di Nazareth, suo paese
natale, il paese dove svolge i suoi trent’anni di vita, si lamentano:
“perché non li ha fatti da noi questi miracoli? Era uno come tutti gli
altri! Perché non li ha fatti da noi?” ed erano pieni di risentimento
verso di Lui. Un certo giorno, un certo sabato, Gesù ritorna. Siamo
ancora agli inizi, ma ritorna nel suo paese come gli era normale perché
seguiva la vita di tutti. Perché questa è la cosa colossale
dell’annuncio cristiano: è che Dio è diventato una compagnia normale,
una realtà umana, si è fatto realtà umana come compagnia alla nostra
vita umana, perciò faceva come tutti gli altri e il sabato entrava nella
sinagoga. C’era lì il “sacrestano”, l’inserviente e prendeva dal
secchione, prendeva un rotolo della Bibbia e chiunque avesse voluto,
alzando la mano, poteva uscire, leggere un pezzo e commentarlo. Era
questo il primo sistema che Cristo usò per cominciare a dire quello che
voleva dire, perché lui leggeva quelle cose e tutti restavano stralunati
perché lui le interpretava in un modo assolutamente inusitato ma che
faceva restare a bocca aperta, tanto che la gente diceva: “E’ cosi”.
“Gesù ritornò in Galilea. Egli insegnava nelle loro sinagoghe. Si recò
un sabato a Nazareth dove era stato allevato e secondo il suo costume
entrò nella sinagoga e si alzò per leggere. Gli fù presentato il volume
del profeta Isaia e svolto che l’ebbe – era un rotolo trovò il passo
dove stava scritto: “Lo Spirito del Signore è su di me, per questo Egli
mi ha consacrato, mi ha mandato ad annunziare la buona novella ai poveri
– il senso della vita! Non una scoperta rischiosa degli intellettuali o
dei filosofi, ma una saggezza di ogni persona, anche dell’analfabeta –
ad annunziare la liberazione ai prigionieri, il recupero della vista ai
ciechi, la libertà agli oppressi, a proclamare per tutti il momento
favorevole del rapporto con Dio”.
Questo brano di Isaia era uno dei pezzi della Bibbia che i Farisei
indicavano come profetici, era uno dei pezzi che si riferivano al
Messia. Arrotolato quindi il volume lo restituì all’inserviente e si
sedette. Gli sguardi di tutti i presenti erano fissi sopra di Lui ed
Egli cominciò a dire loro: “oggi si è compiuta questa scrittura in mezzo
a voi: Io sono il Messia; questa profezia si è adempiuta”. Questa è la
prima sfida, il primo momento dialettico di Cristo con la società in cui
era nato. Il primo gesto della Sua missione in che cosa consisteva? In
una promessa: che i ciechi vedano, che il cuore sia liberato, che la
gente sia confortata, che gli zoppi camminino. E’ una promessa
innanzitutto per questo mondo, di una vita più umana in questo mondo.
Anzi, la teologia cattolica spiegherà
meglio questo nella morale, dicendo che chi vivrà in modo umano questo
mondo potrà godere per l’etemità, felice: è il concetto di merito.
Questa è l’idea centrale di tutti i discorsi del Papa. Questo Papa ha
scoperto nella sua vita personale, e adesso lo insegna a tutti, una cosa
per cui la tradizione cristiana relegata nella soffitta o chiusa
nell’aria misteriosa, strana e incomprensibile dei gesti sacramentali o
della pietà, chiusa dentro le mura delle chiese: questo annuncio di
Cristo, questa presenza di Cristo, il Papa l’ha come afferrata e
riportata al suo posto. Il suo posto è nella nostra carne, nelle nostre
ossa, è nella nostra vita di tutti i giorni, è nella nostra esigenza di
amore, nella nostra esigenza affettiva, è nel rapporto con i figli e con
i genitori, è nei rapporti tra ragazzo e ragazza, è nel rapporto con il
libro che si studia, con la curiosità che fa indagare, con la necessità
che fa lavorare, col gusto di costruire, con lo sguardo con cui si
guarda lo spettacolo di queste vostre colline in un tramonto come quello
di stasera.
Unica regola: il coraggio di un’amicizia
Questo cambia, e
da questo si capisce, capisco che ci sei perché mi cambi, mi cambi la
vita, non con un tocco di bacchetta magica, ma come in un cammino.
Perché se noi fissiamo un fiore oppure il grano appena spuntato dalla
terra, prima di mutare, se noi lo stiamo ad osservare non cresce più,
non lo vediamo crescere. Ma dopo un mese, due, tre, la pianta è piu
grande, dopo un po’ di mesi è quello che è: è il grano che si trebbia.
La vita non si vede mai salire, si vede che è già salita. Come quando
ero piccolo: c’era una pianta in giardino e mia mamma mi metteva vicino
alla pianta e segnava all’inizio dell’anno, con un coltellino dentro la
scorza, a che punto ero arrivato; e l’anno dopo mi metteva vicino alla
pianta e col coltellino segnava dove ero arrivato due centimetri,
quattro, cinque di sviluppo. La vita non si sorprende nel suo moto, la
si sorprende nel suo effetto. E cosi la Fede: “questa – dice Giovanni – è
la vittoria che vince il mondo, la Fede”. Vince non con le arrni, vince
nel senso che ne afferra il significato, la gode nel gusto profondo,
l’accetta e la porta nella sua “politica di prova”.
Volevo dire che la seconda cosa implicita necessariamente nella
risposta alla sua domanda e da esplicitare è che la promessa di felicità
è soltanto Dio che la può fare agli uomini e questa promessa Dio è
venuto a farla. Si è preso uno di noi per farci questa promessa e c’è un
solo modo per capire se è vero o no: seguirlo, vale a dire cercare
nonostante le migliaia di interruzioni colpevoli, di distrazioni
naturali, di incoerenza e di fragilità che rientrano nella nostra
giornata, cercare di vivere con Lui, camminare umilmente con il tuo Dio.
E’ questo che noi abbiamo l’ingenuità ed il coraggio di dire al nostro
compagno di banco, o alla persona che troviamo per la prima volta in un
salone di una festa. Perché come si fa a voler bene ad una persona senza
desiderare che questo avvenga per lei, che questa promessa sia a lei
tesa e che l’esperienza del suo adempimento riempia la sua vita, come si
fa a voler bene? E impossibile! Ecco, insegniamo a voler bene al
compagno di banco, al compagno di lavoro, insegniamo a voler bene
all’individuo che ci siede vicino in treno o sul pullman che ci porta al
lavoro. E’ dunque per una umanità “piu umana” una rinnovata fedeltà
cristiana. Ma il cristianesimo è la vita, è una vita perché vivere
un’amicizia, cioè vivere una compagnia di uno vicino è una vita, il
rapporto tra una madre e suo figlio è una vita; non si può ridurre a
delle forrnule o ai momenti in cui dà il bacio. Quando facevo i capricci
mia madre mi diceva:”guarda, invece di darmi il bacio fai del bene,
ascoltami” e magari quella sera il bacio non lo voleva. Perciò è
realmente come un’osmosi, un rovesciare dentro di noi, un lasciare che
si rovesci dentro di noi, una sensibilità, una mentalità, un
atteggiamento, un sentimento della vita diverso. Il Cristianesimo è
questo.
L’avventura di una vita da Uomini
Dicevo che il Papa è il
grande annunciatore di questa ripresa. L’anno scorso, quando ci siamo
radunati a Rimini e Lui ha osato venire a un Meeting in mezzo a tanta
gente, ci lasciò un impegno, l’impegno fu questo: che lavorassimo, ci
sacrificassimo e pregassimo perché avvenisse sulla terra la civiltà
della verità e dell’amore. Civiltà vuol dire una umanità vissuta,
rapporti che creano la vita di un paese e prima ancora la vita di una
famiglia, la vita di una compagnia; civiltà e questo, non riguarda
l’aldilà, perche all’aldilà noi andremo attraverso il merito di queste
cose. Altrimenti la nostra vita non avrà avuto, appunto, merito cioé
senso, dignità.
Una ragazza. Io ed alcuni miei compagni di scuola abbiamo
un problema con un nostro insegnante. Questo insegnante ha la
grandissima capacità di distruggere quello in cui noi, giovani di 18
anni,crediamo: la nostra voglia di vivere, la nostra felicità e quelle
poche o tante certezze che abbiamo. Ora Lei ci ha detto che la cosa più
importante è far sì che “l’amaro che c’è in me sia mutato in allegria”:
come è possibile questo per noi della nostra classe? Come è possibile
che quelle cinque ore in classe siano un tempo di costruzione e non di
distruzione? Don Luigi Giussani. Innanzitutto mi perrnetto di dare un giudizio:
un adulto che cerchi di distruggere le certezze dei giovani è un
delinquente nel senso letterale del termine e, nel migliore dei casi, un
egoista accanito che non ha altro gusto che proiettare se stesso sulla
fragile tela di chi non può rispondere. Ma abbiamo mica detto che tutto
coopera al bene, anche il male? Allora vorrà dire che tutto ciò che il
vostro insegnante opera come tentativo di distruzione delle vostre
certezze, vi dovrà aizzare di più a rendere ragione di queste vostre
certezze. Ma siccome ognuno da solo è come impotente, e fragile,
sentirete la necessità di mettervi insieme. E siccome anche il mettervi
insieme può essere impacciato perché la somma di tante debolezze può
aggravare la questione invece di risolverla, voi sentirete la necessità
che la vostra compagnia sia guidata, aiutata da persone che abbiano
fatto il cammino, abbiano vissuto in loro stesse gli interrogativi e le
fatiche che voi vi sentite addosso; e perciò sentirete la necessità che
la loro esperienza aiuti la vostra inesperienza.
Io dico sempre che la natura le cose più necessarie della vita le ha
rese facilissime: infatti fra cento donne un bambino riconosce subito
sua madre. Per vivere, la cosa più necessaria è la certezza, senza
certezza uno non si muove. Anche sant’Agostino osservava argutamente che
l’affermare che tutto è incerto è una contraddizione filosoficamente,
razionalmente, perché per affermare che tutto è incerto bisogna
affermare con certezza almeno una cosa: che tutto è incerto. Perciò per
afferrnare che tutto è incerto bisogna contraddirsi, non lo si può dire
naturalmente, razionalmente, è impossibile dirlo. Allora le certezze
che riguardano l’esistenza hanno un accento, hanno un volto che
immediatamente si rivela.
Cristiano, ovvero “chi ha ragione”
Supponiamo che entri in
classe un professore e vi dica: “Questo qui è un libro”e tutti dite:
“già è un libro”. “Ecco, guardate l’equivoco della nostra conoscenza: se
uno non s’accorge del libro è come se il libro non ci fosse. Vedete
dunque che è la ragione che crea il libro”. E’ un professore, diciamo,
idealista. Dopo lui si ammala, viene il supplente e vuol partire dallo
stesso punto, dice: “Questo è un libro, tutti abbiamo l’impressione che
sia un libro ma dimostratelo, come fate ad essere certi che è un libro e
che non sia un vostro pensiero?”. E questo è un professore con
posizione scettica, come il tuo insegnante. Poi si ammala anche lui e
allora viene il supplente del supplente, magari uno appena sfornato
dall’università, entra dentro e domanda: “Cosa vi hanno spiegato?”. “Ci
hanno detto del libro”. “E’ chiaro che questo è
un libro! E’ evidente o no che questo è un libro?”. “Si, la nostra
prima evidenza è che questo è un libro. Ma se uno non s’accorge che c’è è
come se non ci fosse. Allora vedete che la conoscenza è l’incontro
della nostra ragione con una realtà”. Questa è la filosofia cristiana.
Allora amica mia, tu hai per natura un criterio per capire quale dei tre
ha ragione: è quello che più si avvicina all’evidenza della tua
conoscenza. Perciò l’atteggiamento del tuo insegnante io l’ho chiamato
delittuoso, perché è una forzatura psicologica, non è una spiegazione.
Ad ogni modo quello che mi interessa sottolineare sono questi due
criteri: 1) le certezze fondamentali; 2) l’amore di chi ti vuol bene.
L’intuito per capire queste due cose la natura te lo dà
tranquillamente. Mettendovi insieme, guidati, usate questi due criteri e
vedrete come riuscirete a smobilitare anche l’attacco che il vostro
insegnante fa alla vostra conoscenza, e così ne uscirà un bene, vale a
dire che voi uscirete da quegli anni forti, più consapevoli. Guardate
che san Pietro scrivendo ai primi cristiani dice: “Sappiate rendere
ragione a chiunque di quello in cui credete”. E’ un invito ad essere
razionali, ragionevoli, perché “la fede – diceva San Paolo – è
ragionevole ossequio a Dio”. Non per nulla lo ha detto Giovanni Paolo II
davanti all’UNESCO: “Senza la fede la ragione è perduta dagli uomini;
l’uomo di oggi è smarrito; ha smarrito la certezza della ragione”.
Perché se Cristo è Redentore dell’uomo…. Cosa vuol dire che Cristo è
Redentore (le prime parole con cui Giovanni Paolo II ha intitolato la
sua prima Enciclica)? Redentore vuol dire che dà all’uomo la capacità di
essere veramente uomo, di saper amare veramente la donna, di saper
amare verarnente i figli, di saper amare veramente l’amico, di saper
amare veramente l’altro uomo, di saper amare veramente se stesso… amare
se stesso, sì perché una delle cose piu difficili che io trovo in questo
rapporto con decine di migliaia di giovani che ho avuto e che ho in
questi anni, la cosa più faticosa è quella di aiutare ad amare se
stessi, aiutare i giovani ad amare se stessi. E questa è la prima
imitazione che dobbiamo a Dio perché noi non ci siamo fatti da noi, è
una sorpresa. E’ una sorpresa che in questo momento io ci sia. Vale a
dire è un dono. E’ un dato si direbbe in termini scientifici, ma in
termini umani e drammatici è un dono.
L’esercizio della libertà
E se voglio tagliare il rapporto
con Dio rimane qualcosa di più grande di me che è solo il potere nel
senso materiale del termine. E se aboliamo il rapporto con Cristo ci
rendiamo schiavi dell’intellettuale di turno, che è servo del potere e a
cui il potere da fama e in base ai cui dettati crea la mentalità della
gente, con tutti gli strumenti che ha in mano. Così viviamo in una
grande era di schiavi, di alienati mentali. E’ per questo che la
caratteristica della gioventù di questi ultimissimi anni, distrutte
tutte quante le utopie del ’68 (come ha detto il Papa a Milano), o le
utopie delle ideologie, non aspettandosi più nulla da nessuno, la
caratteristica della gioventù di questi anni è quella di adottare
facilmente, come unico sistema di vita, l’adesione alla propria
istintività, la posizione radicale, il suo istinto, la propria
reattività.
Perciò l’uomo o dipende da qualcosa di più grande di sé – e qui sta
la libertà da ogni uomo, anche da se stesso – oppure è schiavo del
potere, di qualunque natura e qualunque esso sia. E quanto più il
progresso tecnico si incrementa, tanto più questo è un pericolo
definitivo. Su questo il Papa ha messo piu volte in allarme il mondo: la
perdita dell’umano. Io, quando discuto con i miei ragazzi dico: “Ma
capite da dove prendete il vostro concetto di libertà? Lo prendete
dall’aria, dalla mentalità comune: il vostro concetto di amore dell’uomo
e della donna lo prendete dalla mentalità comune, l’idea del vostro
rapporto con i genitori la prendete dalla mentalità comune. Ma come, le
cose più
importanti per la vostra vita le prendete dalla mentalità comune?
Siete alienati! Mentre è dal di dentro di voi stessi, è dalla coscienza
di voi stessi che l’illuminazione deve venire, che il criterio per
determinare questi valori deve essere scoperto”. San Paolo, scrivendo ai
cristiani di Salonicco, che erano i più disastrati, tutti disoccupati,
sottoccupati, (era la comunità più povera di allora, della prima
cristianità) proprio in una lettera a loro ho trovato la più bella
definizione di critica. In nessun filosofo nella storia della filosofia
l’ho trovata piu bella di questa, dice: “Vagliate ogni cosa, trattenete
il valore, ciò che è vero, ciò che val la pena”. Ma quale è il criterio
per discriminare e per trattenere? Dove l’ho pescato il criterio? O lo
peschi nella tua natura, oppure sei vittima del potere altrui. Il
delitto più grande nella traiettoria educativa della gioventù per noi
che abbiamo la responsabilità, a mio avviso, è quello di non aiutare a
far passare la fede il cui contenuto è stato dato dal papà, dalla mamma,
dai preti, dalle suore, una volta dalle maestre (che adesso insegnano
l’inverso). Ma occorre far passare questa tradizione attraverso quello
che in greco è indicato con una parola che a noi sembra scettica mentre è
una parola bellissima: crisi. Crisi è una parola italiana che deriva
dal greco, che vuol dire “vagliare”, vagliare per capire il valore. E’
come se la natura facesse i bambini con una bisaccia dietro,
analogamente all’antica tavola di Esopo delle due bisacce: quella
davanti e quella dietro. Invece noi ne abbiamo una sola dietro e in
questa bisaccia papà, mamma, suore, preti, zie, nonni ci mettono dentro
quello che a loro sembra più buono per noi e così il bambino cresce fino
a sette, otto, nove, dieci anni con il bagaglio di quello che gli è
stato dato: “me lo ha detto la mamma” è il criterio fondamentale”,
giustamente, perche per natura è cosi. Ma a una certa età la stessa
natura dà istinto di prendere questa bisaccia e di portarla davanti per
dire “portarla davanti” in greco si usa la parola che in italiano ha
dato origine al termine “problema”; deve diventare problema quello che
mi è stato dato e rovistando, cioè mettendo in crisi quello che mi e
stato dato, io posso capire qualsiasi valore; valore vuol dire “val la
pena”, cioè ciò che val la pena per la mia vita. Se uno non fa questo
processo, ciò che ha imparato non diventa mai convinzione o deve
aspettare le batoste della vita a quaranta, cinquanta, sessanta anni. Ma
così si perde la giovinezza, vale a dire si perde la costruttività
della propria fede e questa, a mio avviso, è la descrizione della
cristianita intera oggi.
Una questione di soddisfazione
Perciò è urgente che la
fede ritorni ad essere l’incontro in cui la ragione trovi la risposta ai
suoi inappagabili interrogativi. Ma non sono questioni filosofiche
grandiose, anche per chi ne ha necessità; sono le risposte implicite nel
canto che abbiamo fatto in principio: “ma l’amaro, l’amaro che c’è in
me sarà mutato in allegria”. Questa solitudine tra i miei compagni,
questa amarezza di quando sono umiliato in cui non sento l’aiuto di
nessuno, questo disagio di quando vedo papà e mamma che si comportano in
un certo modo fra loro, guando la casa non è piu dimora, quando la
realtà sociale tenta di distruggere, come ha detto prima lei, ciò su cui
io possa con serenità costruire; ecco, è qui dove deve giungere la
risposta della fede; la fede deve dimostrare di essere capace di
risposta a questi livelli.
Dalla prima ora di scuola nel mio liceo, mi sono fatto il proposito
di ripetere questa frase del Vangelo perche mi sembra il centro di tutta
la pedagogia cristiana. La frase è questa: “Chi mi segue avrà la vita
eterna e il centuplo quaggiù”. Allora dicevo in scuola: “Ma ragazzi, fin
quando ve ne infischiate della vita eterna vi capisco perché non avete
ancora sufficiente forza di immaginazione, di serietà; ma se vi
infischiate del centuplo quaggiù siete proprio dei fessi”. “Chi mi segue
avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù” vuol dire che amerete cento
volte di più vostra madre, vostro padre, i vostri figli, la vostra donna
il vostro uomo, i vostri compagni di banco, la vita. Per questo ho
capito quello che dice Cristo: che il giudizio sarà sulla testimonianza
che avremo dato. Perché non c’è nessuna cosa più buona per l’uomo, di
qualunque stirpe o nazione, che trovare delle persone la cui umanità è
stata resa più umana dalla fede, che vuol dire che la vita ha un senso
possibile, pertinente i giorni del cammino, pertinente le cose che
gremiscono di desideri il nostro cuore quotidianamente, che fanno
vibrare i nostri rapporti. E’ venuto a Roma il cristianesimo … il fatto
cristiano deve ridire quello che è, ma qui è la domanda con cui
concludiamo: duemila anni fa l’hanno trovato là che parlava dal pulpito
della Sinagoga, in quella piazza in cui c’era un gruppo di gente a cui
ha detto: “chi mi segue avrà la vita eterna e il centuplo quaggiù”. Era
gente che pendeva dalle sue labbra perché, dice il Vangelo: “Nessuno ha
mai parlato come questo uomo”. Ecco, duemila anni fa in quella piazza…. E
ora come facciamo a trovarlo, come facciamo a incontrarlo? Perdonatemi,
ma quando la nostra vita, nel pensiero, nel cuore nella sua modalità
esteriore viene mossa, commossa, cambiata dalla sua parola, dal suo
annuncio allora noi comprendiamo che Egli è presente.
In filosofia si dice che un essere è presente dove agisce; se si
sente un rumore in una stanza silenziosa vuol dire che c’è qualche cosa
che è presente, anche se non la si vede che è presente, e infatti lo è.
“Io Padre ti prego che siano una cosa sola affinché il mondo si accorga
che Tu mi hai mandato” . Lui ha preso dimora fra di noi e rimane fino
alla fine dei tempi e il volto di questa sua presenza se duemila anni fa
era un corpo, il suo corpo come il nostro, questo corpo si è come
dilatato nel mondo, nel tempo, nello spazio, assimilando a sé tutti
coloro che hanno cercato di andargli dietro. Egli è presente in coloro e
attraverso colore che Gli dicono: “Ti credo, aiutami a seguirti”. Più
precisamente Egli è presente attraverso il fenomeno che si avvera
immediatamente quando uno cerca di seguirlo che si unisce all’altro che
cerca di seguirlo. Questa è l’unità dei credenti.
Il miracolo dell’unità
Stasera, anche nella scempiaggine
della banalità una Realtà si muove, una Presenza ci sfida, ci provoca.
Nella mia scuola – così
concludo e così iniziò la mia esperienza – quando facevano le
assemblee erano divisi tra comunisti e monarchico-fascisti, destra e
sinistra secondo le parole che ormai non hanno piu veramente senso.
Stavo andando a casa a mezzogiorno, tutto pensieroso e dicevo: “Ma i
cristiani non ci sono?” e ho doppiato quattro ragazzetti che non erano
neanche del liceo, erano del ginnasio, e ho detto loro: “Ma voi siete
cristiani?”. Loro mi dissero un po’ stralunati: “Si”. Allora io li
investii dicendo: “Ma come, siete cristiani? E dove si vede in scuola?
Su milleduecento sarete battezzati in millecento, ma il cristianesimo
dov’è? Che cristiani siete?”. La volta dopo, nell’assemblea, uno di quei
quattro ragazzetti di cui ricordo i nomi, anche se tre sono già morti,
uno che si chiamava Franco si alzò e disse: “Noi cattolici …”
presentando una terza mozione. Da quel momento, in quella scuola dove
non si parlava mai di cristianesimo e Chiesa, per dodici anni (tanto
quanto ci sono stato io che posso testimoniarlo) non c’e stato nessun
contenuto piu vibrante di diatriba, di dialettica, di attrattiva, di
iniziativa che il cristianesimo. Da quando alcuni cristiani si sono
mossi insieme. Perché questo è il miracolo attraverso cui Cristo
dimostra la sua presenza: l’unità dei cristiani.
Costruttori diun mondo nuovo
Provate a pensare se in un
paese, quelli che vanno in chiesa, la cosìddetta Parrocchia, veramente
vivessero una unità tra di loro! Vivere l’unità tra di noi vuol dire che
ognuno condivide il bisogno dell’altro. San Paolo diceva: “Sapete che
siete membra gli uni degli altri”, con quella espressione che tutto
l’internazionalismo di questo mondo non ha mai saputo immaginale!
“Sapete che siete membra gli uni degli altri”, l’unità dei cristiani,
degli uomini, il miracolo assoluto che è impossibile all’uomo. E’
impossibile essere unito all’altro uomo, essere unito al proprio
fratello, è impossibile! Tanto è vero che l’uomo saggiamente fa una
lotta spietata in tutto il mondo perché si affermi che anche il rapporto
tra l’uomo e la donna non è un’unità.
Comunque, almeno alcuni accenti del desiderio profondo che ci anima,
e che anirna ormai centinaia di migliaia di gruppi, oltre che di
persone, sono emersi; il desiderio profondo comunque è quello di
collaborare ad una umanità più umana, a una civiltà nuova della verità e
dell’amore. “Civiltà” come dice il Papa, e per far questo c’e un’unica
strada: quella di rendere finalmente viva, vivente, cioè aderente alla
vita, incarnata nella vita, la fede in Cristo.
Perciò possiamo sbagliare un milione di volte, ma questo
intendimento è cosi giusto e cosi grande che attraverseremo il milione
dei nostri errori. Perciò i grandi aiutino, non ci condannino.