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giovedì 2 gennaio 2020

... Casa: quanto la ami a Natale!
Ricordo quando, sempre bambina, persi la mia, abbattuta anche quella: allora c’erano le bombe, ci rifugiammo chi nelle risaie e chi nei paesi limitrofi, dove tutti eravamo un po’ degli stranieri. Nei granai la sera recitavamo il rosario su dei pagliericci di fortuna, poi di giorno si andava nelle cascine in cerca di pane, in breve… si mendicava dai contadini abbienti. Oggi, invece, che abbiamo una casa non abbiamo più quella cortesia e quell’amore dei contadini. Io dormivo con una vecchia che ogni notte pregava la morte che la venisse a prendere, e avevo paura.
Ma come bambina ho dovuto accontentarmi.
Adesso che sono un’anziana poetessa… continuo ad accontentarmi.
Ma ripenso con nostalgia a quei Natali solenni, quando la mamma faceva enormi presepi, metteva le figurine dei pastori e i laghetti di specchio.
Ci facevano trovare il carbone, alle volte, ma eravamo contenti lo stesso: poi, dietro il carbone, c’erano sempre tre caramelle. Però era arrivato Gesù, era questo che importava, vedere che sulla paglia del presepe qualcuno aveva deposto il bambino. E si pregava, si pregava insieme davanti a quella statuina, ignorando che il piede lieve della mamma era andato lì di notte per deporlo…
Allora ignoravamo tutto della vita, anche il mistero della nascita, un evento che per noi cadeva dal cielo.
La Madonna non appariva sorpresa, neanche San Giuseppe, e noi piccoli eravamo in un regno di favola bello che abbiamo perduto. Ci dimenticavamo dei doni e stavamo piuttosto a guardare quel bambino appena nato domandandoci se aveva freddo, ma la mamma ci diceva che aveva l’amore della Madre…
Ecco, forse anche in tarda età  chi mi scalda ancora nelle notti di solitudine è “l’amore della mamma, che io amavo tanto e che credevo che, come Maria, non sarebbe mai morta.
Sì, si può morire d’amore per un uomo, ma quello che mi fece impazzire, forse, fu quella porta chiusa di mia madre dolcissima, che io credevo eterna, come tutti i figli.
E mi sono resa conto, a un tratto, che non avevo mai ascoltato i suoi lamenti tanto ero giovane.
Ma quanto si paga la giovinezza! Anch’io, come le mie figlie, quando andavo a casa sua le portavo via gli oggetti più preziosi perché… nella mia casa sarebbero stati bene, e una madre si fa sempre derubare.
A lungo andare morì, senza chiedere mai niente, ma era così felice della nostra gioia che forse non morì veramente mai. L’abbiamo derubata, ma soprattutto – e sembra un eufemismo – avremmo voluto (che Dio mi perdoni) portarle via quegli occhi, così verdi, così dolci, così innamorati di noi. Sono passati decenni da quei Natali e ancora cerco l’odore dei mandarini o del bollito, che si mangiava solo quel giorno. Erano i nostri doni.
Oggi invece si tende a saltare il Natale, si va direttamente all’arrivo dei Magi, ai doni, la nascita quasi non esiste più, forse perché le nostre donne non sanno essere madri.
E i bambini, tra televisione e futili regali, sono i più grandi emarginati del nostro tempo: abbiamo rubato loro l’infanzia e la religiosità  della vita.
Mi si chiede cosa vorrei trovare questa notte sotto il presepe: la mia Barbara, la mia Flavia, le mie figlie che mi furono tolte quando una maestra, assistente sociale, trovando che la casa non era ordinata me le portò via.
Sono sempre stata una disordinata perenne, ma avevo quattro bambine felici alle quali suonavo le “nenie” di Natale.
Andando in solaio ho trovato le mie vecchie famose poesie tutte imbrattate delle loro figurine: giocavano con le mie grandi poesie!
Io non ho pianto su queste, ma su quelle figurine sì.
Loro non sapevano cosa vuol dire genio, conoscevano solo due parole: mamma e bambino. Il mio presepe privato".

Pubblicato su "Avvenire" il 21/12/2006

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