L’uomo contemporaneo,
«un individuo che crede di non dover più nulla a nessuno»
Di Silvio Brachetta
“Progredire per progredire, avanzare per avanzare, vivere per vivere. È l’«idiotismo» denunciato anche da san Paolo: senza fondamenta, senza risurrezione, senza Dio, oggi «mangiamo e beviamo, perché domani moriremo»
Parole acute giungono da due filosofi dell’arte: l’italiano Roberto Cresti e il francese Jean Clair, di scuola illuminista, amanti della modernità, ma non delle follie moderne. Nell’incipit di una sua monografia[1], Cresti scrive che «è difficile, ai nostri giorni, riferire qualsiasi attività a un centro». E fa l’esempio di Rutilio Namaziano (V secolo), il quale «viaggiando nel crepuscolo dell’Impero romano, si stupiva che morissero anche le città: cernimus exemplis oppida posse mori» [«ecco che anche le città possono morire»]. Oggi però – prosegue – noi «assistiamo a ben più ampie sparizioni: religioni, culture, comunità, stati nazionali, intere civiltà si sciolgono nell’imbuto del Global Village, creando quell’effetto di ‘liquidità’, per usare la metafora di Zygmunt Bauman, che ha la sua origine e il suo sviluppo nella “rete”».
La «rete» è da considerare in senso assai più ampio della semplice tecnologia informatica. La «rete» è diventata una forma mentale, per cui un «sedimento psichico artificiale» è disperso su «intercontinenti che producono il ‘liquido’ al loro interno e se lo scambiano senza soluzione di continuità». La rete – come la rete da pesca – è un tessuto bidimensionale, i cui nodi sono connessi da fibre: i nodi sono tutti uguali, così come le fibre. Anche se il nodo ha una sua particolarità, questa si perde nella rete, che uniforma tutto. Ogni particolarità assume lo stesso valore di un’altra e tutto si appiattisce, nel senso che la dimensione della profondità è annullata e lo spazio della realtà si fa bidimensionale.
La rete di Cresti – qualsiasi rete – è senza centro, ogni nodo si regge sull’altro, in quanto interconnesso. C’è forse un bandolo della matassa, che decide della trama e dell’ordito, ma nessun nodo è in grado di riconoscerlo, di vederlo, di descriverne il disegno.
A questo punto, Cresti non può non citare le perle di Jean Clair. Entrambi si riferiscono al mondo dell’arte, anche se il loro discorso si può stendere a coperta in ogni ambito contemporaneo – dal secolare al sacro. Dice dunque Jean Clair: oggi «quello che chiamiamo “arte” non è nient’altro che un idiotismo attraverso il quale si esprimono i capricci infantili di un individuo che crede di non dover più nulla a nessuno»[2]. E rincara Cresti: «Questo credere “di non dover più nulla a nessuno”, in ogni settore di attività umana, è il problema della nostra epoca»[3]. E, quindi, non solo il mondo dell’arte, ma l’intero pianeta è sotto la morsa di un «idiotismo» anarcoide, che fonda le sue idee (teoresi), le sue azioni (pratica) e le sue produzioni tecniche e artistiche (poietica) sul nulla.
Pochi anni or sono – che sembrano epoche – Joseph Ratzinger accennava spesso al pericolo del «relativismo», causato proprio dalla mancanza di fondamenta o di un centro di senso. Adesso più nessuna grande autorità è in grado di opporre una critica alla liquefazione baumaniana del tutto, inarrestata e inarrestabile, che divora la civiltà e la paralizza nell’«idiotismo» inconcludente. Se ne accorgono alcuni – pochi – che, sia pure avendo eliminato Dio dal centro e avendolo rimpiazzato con un modello d’uomo debole, ammettono che non possa comunque esistere un’antropologia senza una qualche base, che ricercano ad esempio nell’arte.
La reazione di Jean Clair di fronte allo scempio dell’arte da parte delle avanguardie è nota da diverso tempo. Egli fu tradito da quella stessa produzione artistica contemporanea, che tanto aveva amata negli anni giovanili. Nelle sue Memorie (nel suo Journal) se ne esce con una quasi-imprecazione: «Tutti creativi, nessun creatore»![4]. E spiega, denunciando il tradimento di quelle stesse istituzioni culturali che avrebbero dovuto trattenere il disfacimento, almeno artistico: «Non potevo immaginare che i musei, invece di essere un rifugio al riparo dal mondo moderno, significassero invece per me trovarmi nel cuore di un laboratorio dove meglio si leggevano i segni annuncianti il crollo della nostra cultura». Fu proprio osservando le opere a lui affidate in cura, che Clair fu da esse informato «nel modo migliore sul lento processo di decomposizione di cui il nostro mondo è diventato preda». Ancora più chiaramente: «La storia dell’arte detta moderna era la storia della nostra propria fine».
Cos’è che tanto amareggia l’illuminista Clair? Questo: «Invece di essere la storia di una liberazione, l’epopea dello spirito libero dal dovere di servire, la gloria dell’Uomo illuminato dai Lumi», l’arte moderna «non era altro che l’ultimo episodio di un nuova iconoclastia, allineando, di decennio in decennio, i sintomi più evidenti di un’auto-adorazione dell’uomo da parte dell’uomo, che si concludeva nella spazzatura o nell’imbecillità».
Né Clair, né Cresti possono ammettere, per via del pregiudizio anti-religioso, che i germi dell’«imbecillità» siano usciti da quello stesso illuminismo ribelle che essi, invece, esaltano ed eleggono ad orizzonte culturale. I due filosofi hanno creduto al mito dell’uomo libero, in quanto affrancato dalla religione, in genere, e dal cristianesimo in particolare.
La «gloria dell’Uomo illuminato dai Lumi» (Clair) non è altro che luce effimera; non è altro che il centro d’irradiazione dell’«iconoclastia»; dell’arte astratta anche quando è figurativa. Si è voluta estromettere la verità della grande arte d’Occidente, già più libera e non canonica rispetto all’Oriente – come già indicava Florenskij[5] – formatasi in opposizione al gotico ieratico, sul naturalismo della Scolastica: non solo san Tommaso spiega Dio dalle creature, ma pure tutta la scuola francescana giunge a Dio partendo da frate sole e sora luna. Da questa teologia è scaturito il nuovo corso artistico, che ha portato al Rinascimento, passando specialmente per Giotto e Masaccio.
Eppure Clair è lucido. Elenca ciò a cui stiamo andando incontro: «alla sparizione dei libri e al disprezzo della storia, alla dispersione delle idee e alla dissipazione dei sentimenti, a un tempo senza tempo, un futuro senza avvenire, l’akedia degli antichi Greci, l’accidia malattia morale dell’anima, la noia di chi non ha più niente da fare e nessun dio in cui credere». L’uomo che non «deve più nulla a nessuno» è una trottola cieca di pura volontà, che produce a caso, pensa a caso, ama (se ama) a caso. Non deve più nulla alla logica, all’ordine, al canone. Nemmeno a se stesso deve più nulla: nemico dell’antico mettersi a bottega dei pittori, si compiace d’essere maestro di sé medesimo, pur non avendo nulla da insegnare, perché reputa la conoscenza un niente e la ricerca disperata un tutto.
L’uomo che non «deve più nulla a nessuno» cerca, infatti, un senso al mondo, ma questa ricerca è priva di metodo, di bussola, di direzione (che muta senza sosta), di prospettiva e, infine, di successo. L’approdo è riassunto nell’adagio di Eugenio Scalfari[6]: «il senso vero della vita è la vita stessa». A cosa è servita, quindi, tanta ricerca, tanta lettura, tanta scrittura, tanta arte? A niente.
Da qua, secondo Clair, l’approdo contemporaneo alla bruttezza nell’arte, nell’architettura, nel vestire: questa bruttezza «ci rassicura, perché ci convince che non c’è più niente per cui valga la pena attardarsi, niente da conservare o da rimpiangere», ma bisogna solo «avanzare, avanzare sempre, penando e sudando» – quello cioè «che viene definito il Progresso».
Progredire per progredire, avanzare per avanzare, vivere per vivere. È l’«idiotismo» denunciato anche da san Paolo: senza fondamenta, senza risurrezione, senza Dio, oggi «mangiamo e beviamo, perché domani moriremo»[7].
Silvio Brachetta
[1] Roberto Cresti, Saggio sul fondamento storico dell’arte contemporanea. Prima parte: Tempi moderni, Le Ossa. Anatomie dell’ingegno, Filottrano (AN) 2015, p. 7.
[2] Ibidem, p. 12.
[3] Ivi.
[4] Stenio Solinas, “Tutti creativi, nessun creatore. L’arte oggi secondo Jean Clair”, «Il Giornale», 03/02/2016. Articolo-recensione del libro di memorie: Jean Clair, La part de l’Ange. Journal 2012-2015, Gallimard, 2016.
[5] Cf. Pavel Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Adelphi, 1977.
[6] Cf. Eugenio Scalfari, L’amore, la sfida, il destino, Einaudi, 2013.
[7] 1Cor 15, 32.
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