Lo spunto è tratto dalla recente pubblicazione de II matrimonio nella Grecia classica, saggio del filologo e grecista Francesco Colafemmina, intervistato da Valerio Pece per Tempi. Nello scritto si stigmatizza la convinzione di una generalizzata diffusione dell’omosessualità nella Grecia classica,
da parte di chi, deformando la realtà storica a vantaggio della moderna
ideologia omosessualista, reclama diritti al matrimonio omosessuale,
ascrivendone spesso la nascita alla più alta cultura del mondo
precristiano. Ciò è falso.
Il paganesimo greco sin dagli inizi (Omero chiama gli uomini i mortali – oi brotoi, per contrapporli agli dèi), infatti, ha una visione profondamente religiosa
del mondo e della vita, che subordina sempre il piano umano al piano
divino (ricordiamo il tempio eretto al Dio Ignoto in Atene). La
rilettura laica che ne è stata fatta è ideologica:
questo discorso si applica anche alla sfera della sessualità, che oggi
pare afflitta da una sorta di pansessualismo ideologico. Per quanto
l’argomento sia complesso e generatore di divisioni nel mondo laico, è
il caso di fare alcune precisazioni, ad esempio ricordare che il fenomeno dell’omosessualità nell’antica Grecia è diverso da quello odierno, è soprattutto il fenomeno della pederastia
ad essere diffuso ed in certo qual modo tollerato (cosa abominevole per
i cristiani, ma anche per i latini) come parte dell’educazione dei
giovani. Eppure, la norma, o consuetudine, non dovette essere di questo
tipo, ma sincera e premurosa cura ed amicizia: l’affetto, ed anche la
tenerezza che si accompagna alle migliori speranze, che spesso
intercorrono fra maestro (o allenatore) ed allievo non
devono essere male interpretate, come oggi anche allora; dato che la
natura dell’uomo è sempre la stessa. D’altra parte dobbiamo ammettere
che è difficile negare che i primi contatti omofili in
tutti i tempi siano nella stragrande maggioranza dei casi fra un adulto
ed un adolescente od un giovane.
Dice il Colafemmina: «Secondo il dogma ormai imperante, nell’antica Grecia la pedofilia
(o efebofilia) sarebbe stata al centro di un vero e proprio rito di
iniziazione: l’uomo adulto, l’erastés, aveva rapporti sessuali con
l’adolescente, l’eròmenos, e così facendo lo formava anche
spiritualmente. […] Di qui si è poi passati a definire il dogma
dell’assenza di una “morale sessuale” nell’antichità classica attraverso
la proclamazione dell’omosessualità come qualcosa di
naturale. […] Attenzione però: quello dell’amore puro e spirituale non è
altro che ciò che anche i gay del tempo affermavano per giustificare le
loro pratiche, in un contesto sociale che invece le condannava
risolutamente. L’errore madornale è che chi ripete oggi queste tesi non
fa altro che ripetere ciò che dicevano gli autori omosessuali della
Grecia classica. Oppure non fa altro che ridire ciò che Platone fa
dichiarare ad alcuni suoi personaggi già noti come omosessuali
nell’antichità (come Pausania nel Simposio) per arrivare però a smontare le loro tesi e a sostenere l’esatto contrario».
Oltretutto quando si parla di Grecia
spesso ci si riferisce involontariamente ad Atene, come in sineddoche:
in questo caso è da notare che i costumi delle varie poleis, le
città-stato, potevano essere differenti, la pederastia era tollerata a
Tebe e prevista prima del matrimonio dalla legge di Sparta (cfr. Suida),
in ogni città c’erano prostituti. Mezza eccezione è Atene, dove viene
ritenuta contro natura, per fare due esempi, da Platone e da Eschine. «Nelle Leggi (636, c) di Platone, prosegue Colafemmina, «ad esempio, si legge testualmente: “II piacere di uomini con uomini e donne con donne è contro natura
e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere».
Più chiaro di così! La verità è che nella Grecia classica
l’omosessualità non era affatto così diffusa come si crede, e soprattutto, cosa che conta ancora di più, non era istituzionalizzata». Infatti gli antichi Greci mai si sognarono di rivendicare il matrimonio omosessuale!
Intendiamoci: la pederastia
nella Grecia antica c’è ed è praticata. Ma resta un fatto sessuale che
addirittura l’uomo comune, l’uomo della strada ritiene perverso e
ridicolo, ne sono testimonianza le commedie di Aristofane: «Celebre è
il repertorio, che oggi si direbbe omofobico, che il commediografo
greco dedica ad Agàtone, noto gay del suo tempo. Parliamo di epiteti
come lakkoproktos, katapygon, euryproktos, parole assolutamente
intraducibili». Il linguaggio è di bassa lega: euryproktos, per esempio, può tranquillamente tradursi con “culaperto”.
Per quanto riguarda la teoria dell’amore platonico, l’amore è legato al bello ed al bene. Poiché per il Greco il Bello coincide con il Bene,
si capisce come Platone si spinga oltre precisando che Eros rappresenta
ogni forma di attività umana che tenda al Bene. Solo a causa di una
sorta restrizione di carattere linguistico, viene chiamato “Eros”
unicamente la tendenza al Bene nella dimensione del Bello.
In particolare, Eros realizza questa tensione verso il Bene soprattutto
nella dimensione del Bello, per procreare nel Bello. Dato il fatto che la bellezza è epifania del bene,
Eros si realizza certamente, prima di tutto, nella dimensione del
fisico: qui, tramite la bellezza e la ricerca di essa ha luogo la
procreazione, mediante la quale il mortale, rigenerandosi in altri
esseri, cerca di farsi immortale. Da ciò si deduce anche l’avversione di Platone per l’amore omosessuale. Ne troviamo riscontro in alcuni passi poco conosciuti:
«- E l’amore veramente giusto non è quello che con moderazione ed equilibrio ha una naturale attrazione per ciò che è armonioso e bello? - Certamente, ammise. -
Sicché all’onesto amore non si dovrà aggiungere alcun elemento di
follia, né qualcosa che abbia a che fare con l’intemperanza. - Allora non si dovrà aggiungergli questo piacere: di esso, insomma, non dovranno avere parte l’amante e l’amato che siano oggetto e soggetto di questo amore buono. - E lui: no per Zeus, caro Socrate, una tale aggiunta non s’ha da fare. -
E così mi pare ovvio che nello Stato che andiamo istituendo tu
istituirai per legge che all’amante sia bensì lecito trattare con
effusione d’affetto e accarezzare il fanciullo che ama come un figlio,
in grazia di sentimenti elevati, e previo il suo consenso; ma che, per
il resto, egli debba frequentare l’oggetto del suo amore in modo da non dare l’impressione di volere spingersi oltre nel rapporto; in caso contrario offrirebbe il destro all’accusa di scarsa sensibilità e rozzezza». (Repubblica, III 403 a-c)
Mentre in due passi, nel Fedro e nelle Leggi, Platone si spinge ad affermare che la sessualità omofila è contro natura:
«Chi non è di recente iniziato, o è
già corrotto, non si innalza prontamente di qui a lassù, verso la
Bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta lo stesso nome. Di
conseguenza, guardandola, non la onora, ma, dandosi al piacere come un
quadrupede che cerca solo di montare e generare figli, e, abbandonandosi
a eccessi, non prova timore e non si vergogna nel correre dietro a un piacere contro natura» (Fedro, 250e-251a).
«Da un lato avremo, dunque, chi è
amante del corpo ed è affamato dalla sua fiorente giovinezza come di un
frutto di stagione; costui si farà forza per saziarsene senza dare alcun
valore allo stato d’animo dell’amato. Dall’altro lato avremo, invece,
chi non dà soverchio valore alla brama del corpo e per questo, pur
ammirandolo, piuttosto che amandolo, con la sua anima desidera
sinceramente un’altra anima, così da ritenere un mero atto di violenza
il godimento che segue al rapporto fra due corpi, e, invece, così da
onorare e insieme rispettare la temperanza, il coraggio, la magnanimità e
l’assennatezza, tanto che il suo ideale sarebbe quello di vivere sempre in castità con un amico casto». (Leggi, VIII 837 c-d)
Inoltre, il riferimento esplicito al giusto amore, alla temperanza ed al rapporto casto non fa che confermare la spinta anagogica insita nell’amore platonico;
infatti, la stessa tendenza si realizza anche nella dimensione
spirituale dell’anima, in quanto è proprio il Bello, suscitatore
dell’Eros, che fa generare all’anima le sue migliori virtù e le sue
opere più grandi. Quindi, Eros, nella dimensione del Bello e pur senza
mai rifiutare l’amore fisico, cerca di salire sempre più in alto,
percorrendo come una scala che lo conduce al vertice del Bello assoluto.
Possiamo cogliere questo concetto (ed ulteriore riprova del rifiuto dell’amore omoerotico da parte di Socrate) in estrema sintesi nelle parole di Socrate nelle pagine finali del Simposio, fra le più toccanti della letteratura mondiale, la bellezza fisica e quella spirituale sono su piani incomunicabili ed è impossibile un paragone, scambiarle sarebbe come “scambiare armi di bronzo con armi d’oro”, come maldestramente vorrebbe fare Alcibiade: «E
Socrate, dopo che mi ebbe ascoltato, con molta della sua ironia e com’è
solito, rispose: “Caro Alcibiade, si dà il caso che tu sia veramente un
uomo non da poco, se ciò che dici di me è proprio vero, e se in me c’è
una forza per la quale potresti diventare migliore. Tu vedresti in me
una bellezza straordinaria, molto diversa dalla tua avvenenza fisica. E
se, contemplandola, cerchi di averne parte con me, e di scambiare
bellezza con bellezza, pensi di trarre non poco vantaggio ai miei danni:
in cambio dell’apparenza del bello, tu cerchi di guadagnarti la verità
del bello, e veramente pensi di scambiare armi d’oro con armi di bronzo» (Simposio, 217e-219a
Lo Jaeger giustamente rileva: «Per
il modo di sentire greco è proprio il colmo del paradosso che il
giovinetto [Alcibiade] bellissimo, oggetto dell’ammirazione di tutti, si
metta ad amare quell’uomo di grottesca bruttezza [Socrate]; ma si
esprime potentemente nel discorso di Alcibiade il nuovo senso,
proclamato nel Simposio, per il valore della bellezza interiore, quando
egli paragona Socrate con le statuette dei Sileni che gli scultori
tengono nelle loro botteghe, che quando uno le apre, sono piene di belle
immagini di dèi» (W. Jaeger, Paideia, cit., Vol. II, p. 235-236).
L’altro autore citato ad esempio è Eschine, famoso politico ed oratore ateniese del IV secolo avanti Cristo, il quale – continua il grecista – “nell’orazione
Contro Timarco scrive che ad Atene era vietato aprire scuole e palestre
col buio affinchè i ragazzi fossero sempre sorvegliati; e che, anche se
col consenso del familiare, era vietato dare un giovane a un amante
omosessuale per ottenerne in cambio denaro o altri benefici. Eschine
scrive che era addirittura vietato agli adulti essere
apertamente omosessuali praticanti. È interessante notare che gli
omosessuali erano chiamati con un appellativo decisamente forte: cinedi
(kinaidos al singolare), etimologicamente “colui che smuove la vergogna”
o, per altri, e in un senso ancor più realistico, “le vergogne”.
Dunque, per i classici l’amore lecito e normalmente diffuso era quello eterosessuale ed il matrimonio
era scontatamente fra un uomo ed una donna, poi il Cristianesimo lo
renderà indissolubile, prima non lo è nemmeno per gli ebrei – famoso il
rimbrotto di Gesù: “Per la durezza dei vostri cuori…” (Mt, 19:8-18) – ed il suo fine è la procreazione. Per questo discorso “ci aiuta molto l’Economico di Senofonte.
Come per il cattolicesimo, anche per la Grecia classica il fine
principale del matrimonio era la procreazione. L’ateniese del IV secolo
avanti Cristo considerava i figli “una grazia di Dio”. Sempre da
Senofonte sappiamo che l’altro fine del matrimonio era l’educazione della prole.
Per cui quanto a scopi principali siamo perfettamente in linea con
quanto insegna la dottrina cattolica nella Gaudium et Spes. Non solo,
nel matrimonio greco c’è anche la meta della castità coniugale. Oltre
che in Senofonte, la sophrosyne, un concetto assolutamente analogo a
quello di castità, lo troviamo in Plutarco e in autori come Cantone d’Afrodisia”.
La virtù dei filosofi greci è la
conoscenza del bene (e il Bene), che si rivela poi nell’applicazione
della giusta misura nella pratica di vita, ergo anche nella castità
matrimoniale. Per certi versi si può trovare nell’indissolubilità,
elemento che il cristianesimo ha portato a pienezza e purificato.
”Eppure – conclude Colafemmina – anche su questo tema quello che solitamente non si legge è che il rapporto monogamico è in qualche modo insito nella cultura greca. Basterebbe leggere l’Andromaca (vv. 11-179), in cui Euripide si lancia in un nobilissimo elogio della fedeltà monogamica, come del resto fa anche nell’Alcesti”. Inoltre, per finire, “I
Precetti coniugali (Gamikà Paranghélmate) sono una lettura strabiliante
se pensiamo che provengono da una fonte pagana. Furono composti da Plutarco
in occasione del matrimonio di due suoi allievi, Polliano ed Euridice,
nel I secolo dopo Cristo. È un’opera agile e godibilissima, un
trattatello sulla vita coniugale ricco di massime, amorevoli consigli
pratici e racconti esemplari, quasi un libro sapienziale se non fosse
per l’allegria che lo pervade. Un’opera che personalmente farei leggere
nei corsi prematrimoniali, spesso così scialbi. Di certo i Precetti
coniugali rappresentano bene quella che era l’etica matrimoniale per gli
antichi greci, nutrita da valori saldi, da rapporti fondamentalmente monogamici
propri di una solida civiltà contadina, valori poi trasferitisi nella
società cristiana e nobilitati dalla sua etica. Non è certo un caso se
l’opera plutarchea sarà poi ripresa da autori cristiani come Ugo da San
Vittore (De amore sponsi ad sponsam) e san Girolamo (Adversus
lovinianum)”.
Lo scopo di questo saggio, a detta dello stesso autore, “in realtà è un augurio. Che una sintesi alta tra una ritrovata morale ellenica e l’etica cattolica possa offrire uno specchio in cui riflettere l’eredità inestimabile
che abbiamo ricevuto dal mondo classico. E in cui vedere anche il
rischio che comporta l’incamminarsi a passo svelto nella direzione
opposta, quella del baratro”.
Matteo Donadoni
da: UCCR
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